01/02/03.08.2013
sabato 3 agosto 2013
Experimenta, sei set tra stili e tendenze
01/02/03.08.2013
venerdì 19 aprile 2013
Far Libe, yiddish con stile
Firmato dall'etichetta Digressione Music, realizzato in studio nel maggio del duemiladodici e presentato ufficialmente a Bari non troppo tempo addietro, dopo una decina di repliche il lavoro transita dal palcoscenico di Art 'n Jazz, contenitore itinerante (tra Polignano, Rutigliano, Conversano e Mola, per la precisione) artisticamente diretto da un altro pianista, Donatello Dattoma, che ha voluto riunire nella sua seconda edizione la mostra pittorica di Vito Savino, una presentazione (del volume C-Minor Complex, omaggio di Marco Di Battista a Lennie Tristano), visite guidate al polo museale di Conversano e, innanzi tutto, performance live di artisti di diversa estrazione (Nicola Tariello e gli Organik 3, Cinzia Eramo e Gianni Lenoci, il quartetto di Emanuele Cisi e Giuseppe Delre, che prossimamente proporrà dal vivo il suo ultimo cd, di cui abbiamo avuto occasione di parlare recentemente su queste stesse colonne). Le sale della Pinacoteca Finoglio di Conversano, così, diventano un punto di passaggio appropriato («e un luogo degno, dal punto di vista artistico», sottolinea Pasquale Sibilla, leader del locale assessorato alle Politiche Culturali) per accogliere una raccolta di composizioni dal taglio decisamente sobrio ed elegante.
Far Libe si muove tra l'idioma yiddish, l'italiano (rappresentato, appunto, dalla vena poetica di Luca Basso), il francese, l'inglese e lo spagnolo dei sefarditi, mescolando momenti di vera e propria letteratura in musica a storie dal sapore vagamente fiabesco. «Il nostro primo lavoro - certifica Giovanna Carone - offriva probabilmente meno spazio alla nostra lingua, puntando più corposamente sulla cultura yiddish, da cui sgorga il progetto». E Far Libe, sotto questo punto di vista, cerca allora di allargare l'orizzonte, apparendo al primo ascolto un prodotto sicuramente più maturo e rodato di Betam Soul. Puntando sulla delicatezza e anche su un rapporto più diretto e intimo con l'ascoltatore. E provando, soprattutto, a coniugare tradizione e modernità, musica popolare e contemporanea. Con molto stile.
Giovanna Carone (voce) & Mirko Signorile (pianoforte) in "Far Libe"
Conversano (BA), Pinacoteca "Finoglio"
Art 'n Jazz 2013
lunedì 31 gennaio 2011
Uhuru Wetu, aria di Giamaica. E di Africa

Ma il disco, in realtà, va oltre. Nel senso che arricchisce l’idea di partenza, pensata per una situazione di duo (voce, quella di Connie, e contrabbasso, quello di Camillo), e – proprio per questo – sufficientemente stimolante da accattivare simpatie. Infatti, le emozioni di una soluzione, passateci il vocabolo, minimalista (contrabbasso e voce da soli, senza orchestrazione, devono faticare tanto e bene, sottolineamolo) si aprono, in sala di registrazione, ad altri strumenti e altri artisti, che ruotano attorno al nucleo di base: ecco, allora, il romagnolo Marco Tamburini, uno dei più apprezzati trombettisti della penisola, il sax soprano di Roberto Ottaviano, la chitarra del barese Nando Di Modugno, le percussioni di Pippo “Ark” D’Ambrosio, le voci afro di Nyamal Anthony Mukoko e Likono Alexaner Ashivaka, oltre alla tromba modificata di Vincenzo Deluci, sfortunatissimo musicista di casa nostra che torna a registrare in studio dopo aver recentemente riallacciato i contatti con l’universo musicale (suo il marchio sulla versione di “No Woman no Cry”).
Il prodotto finale, cioè, toglie qualcosa all’originalità, ma acquista in visibilità o, se preferite, in commerciabilità: un dato piacevole per l’etichetta e, ovviamente, anche per i protagonisti. E meno, magari, per chi preferisce apprezzare la progettualità, nel senso più stretto del termine. Amarezza, peraltro, prontamente liofilizzata dalle dinamiche e dalla fluidità del disco, ma anche dalla puntualità e dall’attendibilità del sound. Oltre che dalla completezza dei musicisti chiamati a collaborare. I quarantadue minuti dell’album (realizzato nel duemilanove al Sorriso Studio di Tommy Cavalieri, a Bari, e completamente arrangiato da Camillo Pace) sono, in verità, un omaggio all’indimenticato artista giamaicano, ma anche un tributo sentitissimo all’Africa, continente a cui il contrabbassista martinese è solidamente ed emotivamente legato, da anni. Come testimoniano, del resto, alcune note di copertine affidate a Reuben Kanake, missionario in Tanzania e amico personale di Pace. Che è poi autore dell’unico pezzo originale, il delicatissimo “Il Volo dell’Angelo”, interpretato in italiano, che si aggiunge ad “I Shot the Sheriff”, “Get Up Stund Up”, “One Love”, “People Get Ready”, “Jumming” e “Redemption Song” di Marley, alla mitica“No Woman No Cry” di Vincent Ford e ad “Hallelujah” di Leonard Cohen.
Connie Valentini (voce), Camillo Pace (contrabbasso), Marco Tamburini (tromba), Vincenzo Deluci (tromba), Roberto Ottaviano (sax soprano), Nando Di Modugno (chitarra), Pippo “Ark” D’Ambrosio (percussioni), Nyamal Anthony Mukoko (voce) & Likono Alexaner Ashivaka (voce)
Uhuru Wetu – The Music of Bob Marley (Koinè - Dodicilune, dicembre 2010)
venerdì 9 luglio 2010
Cinque corde per improvvisare

Francesco Del Prete e il suo violino. Un violino francese a cinque corde, di vetroresina. Il risultato dell’addizione è Corpi d’Arco, progetto che vanta già un anno di vita, diverse esibizioni dal vivo e, ovviamente, anche un disco. E che Collepasso In Veste d’Arte, rassegna organizzata da Cantieri Ideali, ha voluto ospitare nell’atto conclusivo del suo cartellone estivo all’interno del Palazzo Baronale del piccolo centro salentino. Progetto che, giura lo stesso Del Prete, primo violino dell’orchestra della Notte della Taranta con un ricco pedigrée nell’ambito della musica popolare di Terra d’Otranto, ma ormai stabilmente affacciatosi su palcoscenici più ampi, si trasforma in ogni appuntamento live. Proprio perché, mai come in questo caso, l’improvvisazione è punto nodale e valore imprescindibile. Anzi, necessario.
«Corpi d’Arco –spiega – è un percorso nato attraverso le sfumature e i colori che un violino a cinque corde può garantire, anche in veste assolutamente alternativa. Un progetto che mi coinvolge totalmente e che si modella con una pedaliera e una loop machine, tributo all’elettronica utilissimo per costruire sul momento tonalità supplementari». I suoni, così, si moltiplicano, si sdoppiano, si incrociano, formando un tappeto sonoro variegato. «Corpi d’Arco è, al momento, la mia massima espressione musicale. Ma mi piace sottolineare l’istantaneità del percorso. In pratica, compongo sul momento. Ovviamente, nei concerti, anche per un biosogno contingente, preparo delle strutture sulle quali, successivamente, posso lavorare. Altrimenti, non basterebbe un’ora per un solo pezzo».
In realtà, nei settancinque minuti dal vivo, si alternano una decina di composizioni: da “Alta Lena” a “Girandola”, da “Arpeggio di Luna” a “Respiro Elettrico”, da “Il Cappello di Latta” (preceduto da alcuni versi di Maria Pia Romano, con la quale Del Prete ha condiviso più volte la scena) a “Rosso di Tango”, da “Un’Allegra Maitresse” (il titolo è provvisorio, non fa parte del disco) a “Di Lei”, da “La Corsa del Cavallo a Dondolo” a “Rivers in Reverse” (dove utilizza, appunto, il reverse, un effetto timbrico particolare che duplica le note al contrario). Il violino, così, è punto di riferimento, ma anche spalla di se stesso. E strumento di percussione, talvolta. Certe volte, si elettrifica. Altre, sembra frantumarsi in rivoli differenti e convergenti. Non c’è schema che lo limiti: la libertà è inseguire l’ispirazione. L’elettronica, certo, offre un contributo corposo. Decisivo, ai fini dell’ascolto. Ma le intuizioni compositive, la fantasia, le esecuzioni nette, l’elasticità e anche il coraggio scrivono intrecci sonori accattivanti. Quello che, probabilmente, il contenitore di Cantieri Ideali cercava: puntando sugli artisti del territorio. Ma, soprattutto, sulla creatività e la progettualità. Scommessa vinta.
Francesco Del Prete (violino, pedaliera e loop station) in “Corpi d’Arco”
Collepasso (LE), Palazzo Baronale,
Collepasso InVeste d’Arte
lunedì 5 luglio 2010
Penelope, profumo di Adriatico

Nuove strade, percorrendo vecchi sentieri. Centrifugando emozioni e affinità eletive, suoni e retaggi culturali. Le frontiere della musica popolare e anche quella della tradizione si sono allargate da tempo. Guardando a sud, a nord, ad ovest. E ad est: da dove provengono tonalità che si allacciano volentieri alla cultura mediterranea della Puglia. E, da tempo, la radice salentina si è ramificata oltre l’Adriatico, in luoghi dove sa nutrirsi per tornare rimodellata, arricchita. Gli Adria, per esempio, sono tra quelli che, sempre più spesso, oltrevarcano quel mare che unisce: riapprodando, infine, sulle sponde di Puglia. Scambiando con quel mondo vicino e ancora un po’ misterioso idee, sensazioni, esperienze. Claudio Prima, il suo leader, sperimenta, accosta, rischiando soluzioni anche imprevedibili: da anni. Con la sua Bandadriatica, che poi è l’evoluzione orchestrale del progetto di base, e con questa formazione di soli quattro elementi: più intima, meno invadente, più attenta alle sfumature. Il viaggio di andata e ritorno verso sponde diverse, dunque, è datato. E non si ferma mai. Adria, cioè, è l’intuizione di partenza che non si sgretola. Ma che, anzi, si fortifica. Che vanta molte situazioni dal vivo e buona fama. E che, nonostante tutto, sino a maggio scorso non si sorreggeva su alcun supporto discografico. Stranamente.
Ma il difetto - da maggio, appunto - è cancellato. Con Penelope, il primo album del consolidato quartetto salentino: che gli Adria hanno presentato nel cortile del Palazzo Baronale di Collepasso, da quelle parti chiamano più confidenzialmente castello. E che, in realtà, è una location recentemente ristrutturata, un contenitore assolutamente adatto ad ospitare le situazioni culturali che transitano. Come Collepasso InVeste d’Arte, una sei giorni approntata dall’associazione Cantieri Ideali che coniuga musica, teatro, letteratura e fotografia. Penelope, registrato alla Fabbrica dei Gesti di San Cesario, a pochi chilometri da Lecce, e supervisionato da Valerio Daniele, è quindi un disco che raccoglie parte della produzione già eseguita dal vivo in differenti occasioni. Complessivamente, undici tracce alle quali, nel corso del concerto di Collepasso, si sono affiancati altri titoli. Da "Moulinette" ad "Aujourd’hui", da "25 Trecce" (canto di matrice albanese) a “Non Ti Ho Detto” («scritto – rivela Claudio Prima – con la malinconia di chi non ha avuto il tempo di dire tutto»), da “Penelope” (è il brano che suggerisce il nome all’intera raccolta) a “Canto” («brano sviluppato in italiano, ma pensato in dialetto, dedicato alla musica popolare: nella speranza di conservarne la semplicità»), da “G24”( «quando la musica del mare si mescola al traffico dele città che si affacciano sui porti dell’Adriatico, si fa nervosa, caotica») a “Pa Llegar Hasta tu Lado” (unica cover, della messicana Lhasa De Sela). Per finire con Napoloni, un sunto delle danze che accompagnano gli interminabili matrimoni albanesi.
«Cercare la musica in Adriatico – scherza Claudio Prima – è come cercare la principessa in questo castello. Bisogna passeggiare lentamente, stanza per stanza, con passione: certi che il suo sguardo, prima o poi, premierà le fatiche della navigazione o del cammino». L’incrocio di trame musicali dove diverse identità musicali si incrociano senza scontrarsi è affidato all’organetto del suo capitano, al violoncello di Redi Hasa, arrivato in Salento da Tirana, ai sassofoni del galatinese Emanuele Coluccia e alla voce elastica e senza tempo di Maria Mazzotta, che allarga gli orizzonti, offrendo compiutezza ad un lavoro che Prima non esita a definire tritatutto. Non a caso: perché il punto nodale della questione è reinventare e reinventariare suoni e accordi, improvvisare, trascinare il patrimonio musicale di un porto verso un altro, mescolare, shekerare. Lasciandosi cullare e spalleggiare da quell’Adriatico che dà e pretende. Che tutto prende e tutto concede. E che non sta fermo mai.
Adria (Claudio Prima: organeto e voce; Maria Mazzotta: voce; Emanuele Coluccia: sassofoni; Redi Hasa: violoncello)
Collepasso (LE), Palazzo Baronale
Collepasso InVeste d’Arte
venerdì 2 luglio 2010
La prima di Bandervish

L’ultima scommessa di Nabil e soci (Michele Lobaccaro e Alessandro Pipino) si chiama Bandervish. Che è poi la fusione tra il nucleo storico dei Radiodervish e la Banda di Sannicandro di Bari: il cui castello – non dimentichiamolo - raccoglie da qualche stagione molte intuizioni e diversi concerti dell’ensembe italopalestinese. Bandervish, ovvero più di una trentina di musicisti su un unico palco. A condividere, come si dice in queste occasioni, esperienze e suggestioni, spartiti e arrangiamenti. Niente di straordinariamente innovativo, d’accordo: perché l’incrocio tra i sapori bandistici (e, più in generale, orchestrali) e la canzone, anche d’autore, è una manovra ultimamente ben lubrificata, che attira e rende parecchio in termini di audience. Il prodotto, tuttavia, rimane abbastanza suggestivo e questo va riconosciuto. E poi, in fondo, il bisogno di novità indirizza anche e soprattutto i sentieri della musica.
Bandervish, peraltro, è un progetto (e, ovviamente, anche un disco) che possiede anche un altro padre, il giovane (e intraprendente) Livio Minafra: figlio d’arte (di Pino), pianista, fisarmonicista, compositore e arrangiatore con la passione per la contaminazione e per la rilettura delle note già rassegnate. Un padre, in verità, assente nella prima di Putignano (era a Bolzano, impegnato in una contemporanea esibizione). E, comunque, rappresentato dal già citato Pino Minafra, uno dei due guest del live di piazza Moro (appena dopo di lui salirà sul palcoscenico pure il sassofonista Roberto Ottaviano). Guest che, per inciso, collaborano pure nella realizzazione del cd (uscito il 25 giugno), al pari di un altro sassofonista, Gaetano Partipilo. Le direttrici del concerto, essenzialmente, sono due: alcune nuove proposte e, innanzi tutto, la rielaborazione dei motivi più celebrati dei Radiodervish: privatisi, per l’occasione, degli archi. Rielaborazione che, però, non sboccia immediata. E che, invece, si arrampica con il tempo.
Il lavoro è corposo: e, da principio, i Radiodervish e la Banda di Sannicandro sembrano seguire binari paralleli, che non convergono. Che non si completano a vicenda. L’avvicinamento, cioè, è graduale. E si manifesta quando Nabil, Lobaccaro e Pipino assumono stabilmente il comando delle operazioni, dopo una ventina di minuti. Quando, per intenderci, i Radiodervish attingono compiutamente dal vecchio repertorio. Il concerto, dalla sua metà in poi, conquista forma e sostanza, equilibrio e ritmo, robustezza e impatto. Arricchendosi, anzi, di qualche venatura speziata. Magari, è vero, ci saremmo attesi qualche tirolo nuovo in più: ma il passato, certe volte, non stanca mai. E, allora, ben venga il restyling. E ben vengano le vie alternative di rivisitazione. Al di là dell’opportunità di limare ulteriormente e otttimizzare il progetto. Senza, per questo, perderne gli aromi di festa patronale in bilico tra Oriente ed Occidente, di Mediterraneo arcaico e contemporaneamente moderno.
Radiodervish (Nabil Salameh: voce; Michele Lobaccaro: chitarra e basso; Alessandro Pipino: fisarmonica e organetto) & la Banda di Sannicandro di Bari in “Bandervish” Guest Pino Minafra (tromba) e Roberto Ottaviano (sax tenore e sax soprano)
Putignano (BA), piazza Aldo Moro
sabato 2 gennaio 2010
La nuova alba di Bregović
Tra Goran Bregović e Otranto, poi, esiste un legame consolidato nel tempo, affettivamente saldo: logico, dunque, che il prodotto più esportato di Sarajevo dovesse, prima o poi, ripresentarsi a Porta Terra con la sua Wedding & Funeral Orchestra (ridotta, questa volta, a due trombe, un sassofono, percussioni, due ottoni e due sole voci bulgare). Magari, per presentare ll’ultima produzione discografica: Alkohol, appunto. Produzione (doppia: la prima parte, Sljivovica, è già commercializzata; la seconda, Champagne, deve ancora entrare sul mercato) che ha giustamente invaso la scaletta con ritmi alti e con sonorità sincopate, facilmente fruibili (e la gente accorsa, infatti, ha ballato e saltato, spingendosi e strattonandosi tra schegge di bottiglie ormai vuote, fiumi di primitivo e molta birra). E che, così, al primo ascolto, ci sembra musicalmente meno raffinata delle proposte precedenti (scivolate, per la cronaca, nell’ultima parte del live), ma sicuramente adatta ad accompagnare la giornata di festa. Perché di festa popolare, in fondo, si è trattato. Una festa alla quale Bregović si è presentato, ancora più che in passato, nel ruolo di maestro concertatore, più che di cantore o chitarrista. Lasciando ad altri il compito di coinvolgere e tenendo per sé quello di catalizzatore mediatico e di narratore.
«Il mio concerto, però, è sempre lo stesso. Qui, in Italia, come altrove – rivela lui stesso - . E questo perché non possiedo la cultura dello show-business. Canto e suono quello che mi piace, da sempre. Coltivando una piccola responsabilità, ogni volta: perché è una responsabilità affronatare tanta gente che ha deciso di dedicarti due ore del proprio tempo. Così come è una responsabilità essere messaggero di una cultura e di un Paese, la Jugoslavia, che non esiste più, disgregatosi in tante piccole repubbliche. Ecco: io sono espressione di un territorio emozionale, che però non si esprime con un genere musicale molto originale, perché ampiamente radicato nelle tonalità dell’est d’Europa e, quindi, fortemente condizionato». Ma la musica, si sa, è materia particolare. «Vero. La musica è strana. Arriva dalla parte di noi stessi più profonda ed è il primo linguaggio usato dall’uomo. Ma, fortunatamente, c’è sempre gente curiosa di ascoltare proposte differenti, di misurarsi con culture diverse, di scoprire cosa c’è al di là della propria porta. In tutto il mondo e anche in Italia: dove ho avuto anche l’occasione di formarmi. Ho cominciato ad esibirmi a sedici anni proprio nel vostro Paese, in un bar meglio conosciuto come streep-tease. E ho conosciuto la realtà di una cità come Napoli. Certo, allora non immaginavo di avere, un giorno, la possibilità di suonare un repertorio, diciamo così, più elegante. E, comunque, ancora oggi ritengo un miracolo esibirmi in Italia e riscuotere tanti attestati di stima, davanti a molta gente».
Goran Bregović (voce e chitarra) & la Wedding and Funeral Orchestra
Otranto (LE), Porta Terra
Alba dei Popoli 2009/2010
(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)
mercoledì 4 marzo 2009
Una di quelle strane occasioni
L’evoluzione dell’esibizione sembra non possedere regole, né conoscere barriere. Il tessuto sonoro fluttua tra l’etnico e il jazz, tra il popolare e la musica contemporanea dettata dal pianoforte di Salis, i cui arrangiamenti curano atmosfere più dettagliate. Fresu è un incursore spigliato che s’insinuia nell’improvvisazione globale. E gli undici elementi della Koçani Orkestar (molto maturati, con il tempo) si agitano versatili tra melodie della tradizione balcanica e composizioni più occidentali (apprezzabilissima, tra le altre, la versione de «Il Bombarolo», uno degli spartiti del De Andrè più impegnato, agli inizio degli anni settanta). «Non solo – aggiunge Paolo Fresu -. Personalmente, mi sono accorto delle affinità che collegano certe tematiche dell’est alla musica popolare della mia regione, la Sardegna. E, allora, ci siamo divertiti a scoprire come due mondi apparentemente così diversi siano in realtà molto più prossimi di quanto si possa supporre. Proprio perché è la musica ad avvicinarli. Per esempio, in questa breve viaggio attrraverso l’Italia, maturato a Milano, Bologna e Taranto, abbiamo riproposto un antico ballo sardo, opportunamente riarrangiato. Divagando anche oltre». Per quasi due ore, frizzanti e toniche. «E malgrado l’insolita tranquillità di Antonello. Mai visto, così – spiega Fresu - . Conseguenza di un colpo duro avvertito ventiquattr’ore prima. Problemi di stagione, càpitano». Anche per questo, dopo il concerto, insolita deviazione per l’albergo. E neppure un calice di rosso robusto, per sigillare la serata. E una di quelle strane occasioni. «E sì, cose che càpitano». Ma che non intaccano l’atmosfera di festa, proseguita per un quarto d’ora abbondante, a live già ufficialmente concluso. In mezzo alla gente, dove la Koçani ha sfilato, suonando ancora. Per ringraziare. E per recuperare gli ultimi applausi. Ampiamente guadagnati.
Paolo Fresu (tromba e flicorno), Antonello Salis (pianoforte) & Koçani Orkestar (Ajnur Azizov: voce; Suad Asanov: basso tuba; Redzai Durmisev: tuba baritono; Sukri Zejnelov: tuba baritono; Nijazi Alimov: tuba baritono; Dzeladin Demirov: clarinetto; Durak Demirov: sassofono; Turan Gaberov: tromba; Sukri Kadriev: tromba; Vinko Stefanov: fisarmonica; Saban Jasarov: tapan)
Taranto, Teatro Orfeo
65ma Stagione Concertistica dell’Associazione Amici della Musica “Arcangelo Speranza”
(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)
domenica 19 ottobre 2008
Una mattina con Marley. Guardando l'Africa
Punto primo: ormai quasi ovunque – e da tempo – pubblico e privato propongono, la domenica, matinée musicali: in ambito classico e lirico, ma non solo. E i riscontri sono assai più che incoraggianti. La formula piace e la gente risponde. E, se poi le note confluiscono nell’aperitivo, meglio ancora. E, allora, perché non provarci anche in queste contrade? L’Associazione Carlo Orff si accolla l’idea e presenta Cantieri Aperti, rassegna di sei appuntamenti senza una precisa collocazione stilistica (si passa dal reggae riveduto e corretto alla classica, passando per il jazz e per il gospel) equamente divisi tra il restaurato Teatro Margherita di Putignano (di sera) e la Biblioteca Comunale, sempre a Putignano (le domeniche mattina, appunto). Il progetto del violoncellista Vito Amatulli, cioè l’anima organizzatrice, e dell’amministrazione comunale copre così uno spazio temporale largamente inutilizzato e garantisce visibilità nuova a due location interessanti. Offrendo spazio, peraltro, ad artisti di sicuro affidamento e di prospettive larghe come il violinista polacco Robert Kowalski, il pianista argentino José Gallardo, la violoncellista croata Jelena Ocic, il trombettista romagnolo Marco Tamburini, il Vertere String Quartet, il violinista nocese Giuseppe Amatulli, il pianista Massimiliano Conte e il Wake Up Chorus : ovvero, i prossimi protagonisti, da qui a dicembre, del percorso musicale.
Punto secondo: si può proporre il ritmo, la sfrontatezza e l’indole ribelle del reggae in uno spazio discreto come un auditorium? Senza strumenti elettrici e sound system e con un impianto di amplificazione essenziale? Anzi: con una voce (plastica e, a momenti, commossa) e un contrabbasso, supportati da poche percussioni, peraltro inattese, perché fuori programma? Sì, si può. E il prodotto è assolutamente sorprendente. Per la leggerezza con cui si ramifica, sin dai primi accordi del live. Esattamente quello che accade nella prima delle tre matinée di Cantieri Aperti, dove si dividono il palco la vocalist Connie Valentini e Camillo Pace: che, già da un po’, lavorano sul tributo a Bob Marley, un progetto arroccatosi sull’intuizione di avvicinare il jazz (quello unversalmente più conosciuto) alle sonorità africane e al sound inconfondibile del rasta giamaicano e, in seguito, sviluppatosi anche per sorreggere un futuro progetto umanitario in Africa. Terra, detto per inciso, alla quale il contrabbassista martinese è culturalmente assai legato, anche per avervi preparato una tesi di laurea in Etnomusicologia.
«Intanto – assicura Connie Valentini – arriverà presto un disco, ormai in via definizione. Con l’aiuto del quale prevediamo di poter costruire qualcosa di utile, laggiù. Ma, al di là di questo, l’esperienza in duo è ormai collaudata, datata. Sicuramente, la proposta è particolare e può apparire persino avventurosa. Diciamo pure che, all’inizio, abbiamo immaginato di suonare esclusivamente per noi, come si fa su una spiaggia, magari tra le palme. Poi, abbiamo pensato di esportare il messaggio di una personalità forte come Bob Marley, un uomo che ha inseguito l’utopia con coerenza». Non attendetevi, però, l’atmosfera tipica di quelle feste-concerto. Né il mare di gente sul prato, tra rum e marijuana. Connie Valentini e Camillo Pace, tuttavia, garantiscono un concerto non convenzionale, dai toni morbidi e addirittura confidenziali, che vive di energia propria e per niente devitalizzato dall’assenza diella strumentazione musicale più cara al reggae. Cioè, sessanta minuti credibili, lievi. E niente affatto rigidi o stantii, come potremmo essere facilmente orientati a pensare. Anche quando fluiscono le tonalità di “No Woman, No Cry”. E pure quando sgorga la più delicata “Il Volo dell’Angelo”, brano originale e cantato in italiano: una finestra sul mondo di Bob Marley e sulla Giamaica. E un ponte verso l’Africa.
Connie Valentini (voce) & Camillo Pace (contrabbasso). Guest Nico Vignola (percussioni)
Putignano (BA), Biblioteca Comunale
Cantieri Aperti
(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)
venerdì 3 ottobre 2008
Navigando sull'Adriatico
Navigando sull’Adriatico. Sulle onde di un mare che aggrega. Attingendo da ogni sponda, passando per ogni porto, sfondando l’orizzonte. Cavalcando ritmi popolari e balcanismi, cercando nel passato e allargando il presente. Bandadriatica è l’equipaggio di una nave immaginaria, che freme di partire e che freme di arrivare. E’ un equipaggio che si emoziona, perché partire è un’emozione, perché il viaggio è l’avventura, e ogni avventura è una storia che insegue particolari nuovi, dettagli sconosciuti. E solo chi parte può capire.
Bandadriatica è un progetto che non si ferma, che si evolve. Ogni volta che si parte. E l’Adriatico è la sua prateria, la sua ispirazione e il suo fine. Claudio Prima è il capitano istrionico di una nave che salpa da Brindisi, porta d’Oriente che trascina l’arcaica cultura salentina e i suoi sapori, le sue tradizioni. Che lasciano la terraferma e sconfinano. Perché Bandadriatica è la musica della tradizione che va ad incontrare altre strade. Una tradizione che arriva dal mare e che, per il mare, emigra ancora. E, per mare, la pizzica si balcanizza, si contamina, si spezia. In Montenegro o in Albania, a Dubrovnik come a Valona, abbraccerà ritmi irregolari, danze rom e altro ancora. Le note confluiranno in un unico spazio, senza confini. E potrà anche capitare di imbattersi in brani bulgari tradotti nel dialetto del Salento.
L’ottetto punta sul ritmo, sui fiati. Quelli di Emanuele Coluccia, sassofonista che, solitamente, orbita attorno al jazz, del trombettista Andrea Perrone, di Gaetano Carrozzo, trombonista ercolano, e di Vincenzo Grasso, al sassofono e al clarinetto. Punta sulla tradizione e sull’innovazione. Che è un po’ l’idea fissa di Claudio Prima, voce ufficiale della formazione e organettista temprato da differenti esperienze (Manigold, Tabulé, Radicanto, Adria). La solida batteria di Ovidio Venturoso, le incursioni armoniche di Redi Hasa, violoncellista albanese e salentino d’adozione, e il basso di Giuseppe Spedicato amalgamano e completano un tessuto sonoro sempre aggressivo, frizzante. Quando la navigazione si fa più difficile e sorge la necessità di una guida, però, soccorre la voce di Maria Mazzotta, tra le più intense e affinate del panorama popolare di Terra d’Otranto. Voce terragna e plastica, duttile e avvolgente. Nulla è scontato, neppure il repertorio. Che reinterpreta, mettendoci del suo. E, allora, arriva pure la produzione originale, consacrata nell’album d’esordio, Contagio, che possiede già un suo tragitto, che ha già polarizzato un consenso abbastanza largo. Un consenso dignificato anche dalla notte di Galatina, consumata a fine agosto, nel concerto di piazza San Pietro che preannunciava l’altra notte imminente, quella della Taranta di Melpignano. E che si riserva, peraltro, anche un sèguito: in primavera, uscirà il nuovo lavoro discografico, supportato da un dvd realizzato in occasione della tournée realizzata recentemente proprio attraverso i luoghi dell’Adriatico, in compagnia della Koçani Orchestar, di Naat Velov e di altri musicisti arrivati dalle due sponde dell’Adriatico.
Bandadriatica, in definitiva, è una banda dei giorni nostri. Che attinge anche dal patrimonio storico e culturale delle bande che si esibivano – e ancora si esibiscono – nelle casse armoniche, nei giorni di festa. Una banda che ama parlare di musica, ma anche della gente. Anzi, di quelle genti che, come recita un vero e proprio manifesto programmatico dell’ensemble, «per secoli lontane, si sono incontrate raramente per voglia, più spesso per necessità. E le musiche, figlie illegittime della stessa tradizione, hanno percorso sempre strade diverse». Quelle genti attorno alle quali si è edificata la nostra storia e si è modellata la nostra cultura. Quelle genti attraverso le quali Bandadriatica si insinua, cercando di catturare segreti e buone idee.
Bandadriatica (Claudio Prima: voce e organetto; Redi Hasa: violoncello; Giuseppe Spedicato: basso; Emanuele Coluccia: sassofoni; Vincenzo Grasso: sassofono e clarinetto; Andrea Perrone: tromba; Gaetano Carrozzo: trombone; Ovidio Venturoso: batteria). Guest Maria Mazzotta (voce)
Villa Castelli (BR), piazza Municipio
(pubblicato sul sito www.levignepiene.com)
domenica 27 luglio 2008
La world music multietnica di Sepe
Evidentemente, il movimento che gravita attorno alla canzone popolare fatica sempre più ad accontentarsi dell’antico processo di autocombustione. E sente la necessità crescente di sollecitazioni sempre più marcate. Occorre altro, cioè: l’interazione con un ventaglio ampio di culture e di soluzioni musicali, il contagio con uomini e spartiti che testimoniano esperienze differenti, ma contingenti. In una sola parola, stimoli. Stimoli nuovi, ovvio. Per questo, sembra logico parlare di tradinnovazione e, soprattutto, di mescolanza. Talvolta fascinosa, talvolta ardita. E, talvolta, un po’ sbracata. Ma la musica, si dice, deve andare. E deve entrare nella gente. Perché, poi, è la gente che la consuma. Di fatto, però, la canzone popolare si trasforma. E si sfigura, molto spesso. L’esibizione dal vivo di Daniele Sepe, nome storico dell’universo popolare in Italia, irrobustisce il concetto. Segnando una tappa in più del percorso artistico di un musicista che non ha mai lesinato approcci con realtà più o meno distanti da quella in cui ha cominciato a misurarsi trent’anni fa.
Anzi: il concerto ercolano del sassofonista campano (inserito in due distinte ma, anche in questo caso, convergenti manifestazioni: l’Adriatic International Festival, voluto dall’amministrazione provinciale di Brindisi, e la Notte Bianca, organizzata dal comune di Erchie) diventa dichiaratamente l’occasione di un incontro (o di un incrocio) di esperienze. Meglio: di una commistione di tonalità e di idee, centrifugate secondo i gusti correnti, dove i confini sonori non coincidono con quelli geografici e con quelle nuove barriere che la politica sembra voler riproporre. In piazza, Sepe condivide il palco con la Brigada Internazionale, ensemble di tredici elementi che rappresentano Paesi differenti (anche e soprattutto non comunitari: Brasile, Cuba, Argentina, Senegal, Romania, Tunisia, Bosnia, Svezia e, ovviamente, Italia), ed aree sociali e musicali di diversa estrazione. Il progetto, neanche un po’ velatamente, prova a rafforzare la speranza del dialogo interculturale e interraziale, sul quale, di questi tempi, continuano a piovere molti dubbi e troppe domande. E, parallelamente, trasportando se stesso verso una semplice e pura world music, che di popolare possiede davvero assai poco. Molto ritmo, tanta energia, fiati, voci, basso, chitarra, tastiere e una buona razione di batteria e percussioni: la frittura mista spazia immediatamente, senza regole. Scavalcando ogni recinto. Sfiorando persino la disco music, bagnandosi sostanzialmente di funky, di pop e anche di rock e svelando quasi sempre la propria anima (e la propria vocazione) commerciale.
«Voglio che questa sera vi divertiate», comunica Sepe prima di cominciare. E così sia. L’approccio è un po’ congestionato di elettronica e di timbri balcanici. Repentinamente, poi, si emigra in Sud America. E non difetta la riproposta di ritmi realmente popolari come il baião (“Asa Branca” di Luís Gonzaga, peraltro, è rivisitata con impeto rockettaro). Quindi, si rientra in Europa, prima di riattraversare l’Oceano. Sepe dirige con discrezione, ritagliandosi qualche assolo di buon pregio, ma lasciando fare. E strafare. La Brigada ricorda (e, forse, rincorre) l’Orchestra di Piazza Vittorio, la prima formazione multietnica assemblata in Italia, ripercorrendone le finalità e certe argomentazioni di fondo. Il paragone, tuttavia, regge per poco: perché, probabilmente, l’ensemble diretto da Mario Tronco sembra più rigoroso. O se preferite, meno anarchico. Nella gran quantità di note, però, qua e là emerge qualche fraseggio interessante. O la voce decisa e carica di Doris Lavín, vocalist cubana. O, ancora, la chitarra matura e il sorriso divertito di Adnan Hozic, bosniaco di Sarajevo emigrato da anni in Salento, che i più attenti ricorderanno come uno dei principali protagonisti del gruppo Opa Cupa, gestito da Cesare Dell’Anna. E, non ultime, le incursioni frequenti del batterista brasiliano Robertinho Bastos. Il pubblico, intanto, si riscalda e balla: dunque, apprezza. E’ fatta la volontà di Sepe. Ed è gratificata l’iniziativa della Notte Bianca. Così come è appagato lo sforzo organizzativo dell’Adriatic International Festival, che ha convogliato in diverse location della provincia (Selva di Fasano, San Pancrazio, Villa Castelli, Mesagne e, appunto, Erchie) proposte musicali suggestive e originali come il trio del pianista Maurice El Medioni, la voce rom di Esma Redzepova, il cantautorato a stelle e strisce di Elliot Murphy e il rockabilly delle periferie belgradesi dei Kal. E che non si dica, allora, che l’estate pugliese non racconta storie interessanti. Girando, si trova. Più o meno puntualmente.
Daniele Sepe (sassofono) & Brigada Internazionale
Erchie (BR), piazza Umberto I
Adriatic International Festival
(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)
venerdì 25 luglio 2008
Teresa Salgueiro, una pagina nuova
Forse è una svolta, forse è un capriccio passeggero. Probabilmente, svicola la voglia di misurarsi. Con se stesessa e con la musica. Il mondo di Teresa Salgueiro, ora, è un repertorio che non concede troppo all’originalità (diciamo pure già largamente adoperato e facilmente apprezzabile dal grande pubblico), ma che si rivaluta con la grazia e la naturalezza, con lo charme e con la semplicità, con l’intensità e il sorriso. E, ovviamente, con la felicità di espressione. Del resto, lo spessore di Teresa è immutato. E la sua maturità artistica è assolutamente inattaccabile. E poi Teresa è bella, come sempre. Forse, anche più di prima. Ed è elegante, come sempre. Anzi, più di un tempo. Ed è raffinata, come e più che in passato. Raffinata, ma non sofisticata.. Non è un personaggio artefatto, cioè. E, magari, questo può bastare. Il resto è voce: solare, limpida, acuta, senza tempo. Che argina quella punta di delusione che avrà aggredito quanti avrebbero voluto riascoltare “Ainda”, “Céu da Mouraria” oppure “Haja O Que Houver”. E che, invece, hanno incrociato “La Vie en Rose”, “Avec le Temp”, “Caruso”, “Paloma Negra”, la piazzollana “Vuelvo al Sur”, “Leãozinho” (produzione di Caetano Veloso) e la bossanoviana “Se Todos Fossem Iguais a Você”, della “dupla” Jobim-De Moraes. Che la Salgueiro, sia detto per inciso, interpreta con regole fonetiche rigidamente brasiliane: non male, per una lisbonese. Accanto, peraltro, scivolano spartiti di gran pregio come “Estranha Forma de Vida”, vecchio successo della Rodrigues, la “Cantiga da Seifa”, antico canto popolare della Beira Alta, regione portoghese del centro nord, “Nom de Rua” oppure “La Serena”, una testimonianza del canzoniere iberico sefardita.
Il progetto (impresso, per la cronaca, anche in un disco, datato duemilasette) omaggia diverse culture artistiche e, soprattutto, cinque lingue: portoghese a parte, lo spagnolo, l’italiano, il francese e l’inglese. Il viaggio chilometrico, tuttavia, non è caotico e neppure superficiale. Curare il dettaglio è sempre operazione sana e redditizia: e Teresa e il Lusitania Ensemble spigolano tra i particolari. La qualità, si sa, sopravvive all’idea. E si esalta con gli arrangiamenti sobri, in linea con la figura di riferimento. L’accompagnamento, giudiziosamente, non è ingombrante. Il centro del palco è la voce di Teresa Salgueiro. Punto e basta. Ma non sia detto che alla piccola orchestra non venga tributato il giusto spazio: come tre pezzi interamente strumentali (uno, ad esempio, è “Casa da Mariquinha”) suggeriscono. L’atmosfera, infine, è quella più indicata per una piazza signorile come quella del Plebiscito, a Putignano, contenitore sfruttato nel miglior modo possibile (prima del concerto, eravamo sinceramente diffidenti della scelta: ci siamo ricreduti). Attorno, intanto, fluttua la voce del Portogallo di oggi e di domani, che è pure una voce della Lusitania che è stata. E, sembra di capire, anche la voce di qualche altro angolo di mondo. L’abbiamo riascoltata volentieri, Teresa. E non ci ha tradito.
Teresa Salgueiro (voce) & Lusitania Ensemble (Jorge Vergoso Gonçalves: violino; Antônio Figuereido: violino; Vensislav Grigorov: viola; Luís Claude: violoncello; Duncal Fox: contrabbasso e piano; Ruca Do Bordão: percussioni)
Putignano (BA), piazza Plebiscito
Primitivo 2008 – La Provincia dei Suoni
(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)
lunedì 18 febbraio 2008
Il violino che scavalca il tempo
Lino Cannavacciuolo Ensemble & Elena Ledda (voce)
Taranto, Teatro Orfeo
Stagione Concertistica dell'Orchestra Ico della Magna Grecia di Taranto
(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)
giovedì 11 ottobre 2007
Il Mediterraneo di Savina
Savina Yannatou (voce) & Primavera in Salonico
Bari, Teatro Kismet OperA
Soul Makossa 2007
(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)
martedì 21 agosto 2007
Il ritorno di Girotto
Javier Girotto (fiati) & Vertere String Quartet (Giuseppe Amatulli: violino; Angelo Berardi: violino; Domenico Mastro: viola; Giovanna Buccarella: violoncello)
Noci (BA), Piazza Plebiscito
Nocincanta '07
(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)
martedì 7 agosto 2007
Dalla memoria necessaria al futuro possibile
Inti Illimani
Martignano (LE), Piazza Della Repubblica
(pubblicato sul sito www.levignepiene.com)
domenica 22 luglio 2007
Sapore di Capoverde
Lura (voce), António Vieira (pianoforte, percussioni e cori), Aurélio Santos (chitarra e cori), Guillaume Singer (violino, percussioni e cori), Edevaldo Figuereido (basso e cori), Carlos Paris (batteria e cori) e Paulino Nunes De Pina (percussioni e cori)
Locorotondo (BA), Piazza Convertini
Locus Festival 2007
(pubblicato sul sito www.levignepiene.com)
martedì 12 giugno 2007
Di tutto, di più. In libertà
Zina
Avetrana (TA), Piazza Giovanni XXIII
Festeggiamenti di Sant’Antonio da Padova
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venerdì 29 settembre 2006
Ritmi senza confini
L’Orchestra di Piazza Vittorio diretta da Mario Tronco
Bari, Fiera del Levante
Mediterre 2006
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sabato 15 luglio 2006
Emozioni da palcoscenico
Radiodervish (Nabil Ben Salameh: voce e chitarre; Michele Lobaccaro: basso e chitarre; Alessandro Pipino: piano e tastiere; Giovanna Buccarella: violoncello)
Torre Egnazia di Fasano (BR), Area degli Scavi Archeologici
Egnazia Estate 06
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