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sabato 3 agosto 2013

Experimenta, sei set tra stili e tendenze

Experimenta, per la natura del progetto stesso e per tradizione, ma anche per convinzione, esplora, sonda. E, molto spesso, naviga oltre la musica di maggior consumo, varcando i recinti delle note più scontate. Muovendosi tra stili e tendenze, senza ingabbiarsi tra le etichette. Percorrendo l'arte delle sette note (o dodici, fate voi) da un punto cardinale all'altro. E preoccupandosi di sposare la ricerca di nuovi aromi con una base artistica qualitativamente solida, i profili squisitamenti musicali di ogni singola performance con la sete di spettacolo che tanto - più della musica nuda - attira e coinvolge il pubblico. Soprattutto quello che circola nelle sere d'estate. La rassegna, ormai storica, di Gianluigi Trevisi non promette di stupire: ma, questo sì, cerca continuamente nuovi percorsi. O, quanto meno, variazioni sul tema. Riuscendoci, generalmente. Accostando a determinate scelte, talvolta, anche qualche buon nome della scena nazionale e internazionale: che viene dal jazz o dalla world music, dall'etnica o dalla popolare, dal pop o dal rock. E offrendo puntualmente, anno dopo anno (sono quindici, contandoli dall'inizio del viaggio), un prodotto credibile e sufficientemente genuino, molte volte intrigante, saporito per diversi palati. Al di là delle piazze o delle amministrazioni locali che ospitano la manifestazione, sbocciata ad Alberobello (e lì cullata per tredici stagioni) e, quindi, trasferita lo scorso anno a Polignano.
Experimenta, anche nel duemilatredici, non delude. Consegnando sei differenti situazioni musicali in tre giorni, tutte rigorosamente condizionate dall'originalità. Prima tocca alle sonorità popolari dei Rondeau de Fauvel, tre donne (voce, liuto ed arpa) e due uomini (piva, batteria e basso elettrico) che attingono parecchio dal repertorio tradizonale celtico, ma anche e soprattutto da quello medievale, rivisitati con l'apporto di strumenti più vicini ai giorni nostri e dell'elettronica, che si fa penetrante solo in prossimità della conclusione del live. Il gruppo, non tragga in inganno il nome, arriva da Vicenza e trascina con sè una miscela di suoni già concettualmente sperimentata da altri, in passato, ma equilibrata e facilmente sostenibile. Più rustico e di maggiore impatto, anche visivo (i protagonisti sono balticamente piazzati e si muovono molto, pure bruscamente), è il secondo set della prima serata, affidato alle cinque cornamuse, ai due tamburi, alla batteria etnica e ad un parente del contrabbasso degli Auli, formazione che arriva dalla Lettonia proponendo canti, danze e rituali di quelle terre, ma anche composizioni contemporanee riarrangiate. Energia a parte, colpisce l'amalgama cromatico degli strumenti portanti, cioè le cornamuse, versatili e plastiche.
Al secondo appuntamento si gira pagina. Ecco, allora, un progetto in esclusiva nazionale, quello degli Amine & Hamza Trio, due fratelli tunisini (all'oud e al qanun) e uno svizzero (al violino). Le tonalità terragne del Mahgreb si muovono, anche in questo caso, attraverso diverse composizioni contemporanee, ricche di timbri, ma assistite da una forte impronta della tradizione (e l'oud e il qanun, in questo, aiutano non poco) e dall'influenza di altre culture musicali mediterranee. A seguire, poi, il quartetto dell'emergente contrabbassista romana Caterina Palazzi, trentunenne con un passato remoto rockeggiante (con lei, sul palco, Maurizio Chiavaro alla batteria, Piero Delle Monache al sassofono e Giacomo Ancillotto alla chitarra elettrica). Il jazz dell'ensemble è fortemente venato di rock, che entra ed esce dagli spartiti, e spesso spruzzato di elettronica. Gli incipit, solitamente invasivi, precedono stati di tranquillità assoluta. Ad ogni accelerazione, corrisponde la stasi totale e il repertorio alterna tinte forti a sonorità più soft. Sudoku Killer, il disco recentemente licenziato dal gruppo, poggia le fondamenta, del resto, sugli enigmi matematici giapponesi e sulla reazione del cervello umano di fronte ad ognuno di essi.
La terza ed ultima serata, infine, è un'altra storia ancora. Anzi, due. Quello dei Cinedelika è un progetto interamente dedicato alle colonne sonore (di Morricone, Rota, Umiliani, Dalla, Piccioni, Carlos, Micalizzi e altri), un percorso ultimamente battuto da diverse formazioni italiane. Il quartetto abruzzese (Matteo Di Battista alle chitarre, Fabio D'Onofrio alle tastiere, Michelangelo Brandimarte al contrabbasso e Luca Di Battista alle percussioni) seleziona e riarrangia brani di successo, sconfinando in diverse correnti musicali. Mentre, dal proiettore, sgorga un montaggio di diversi fotogrammi. Infine, tre attori (Giorgio Tirabassi, il barese Paolo Sassanelli e Luciano Scarpa) si scoprono musicisti e, rispettivamente, imbracciano chitarra solista, chitarra ritmica e contrabbasso, facendosi accompagnare da Luca Giacomelli (altra chitarra solista) e Alessandro Golino (al violino). Ne esce un divertito e anche ironico omaggio a Django Rinhardt e alle sonorità manouche, ma anche una produzione leggera e, al contempo, impegnata. Che, di fatto, suggella la predisposizone di Experimenta ad abbracciare le anime diverse della musica del Duemila. Quell'epoca in cui, lo ripetiamo ancora una volta, non esiste più niente da inventare. Ma dove, però, c'è ancora spazio per guardare ed ascoltare da angolature sempre differenti.

01/02/03.08.2013
Polignano a Mare (BA), Piazza San Benedetto
Experimenta 2013

venerdì 19 aprile 2013

Far Libe, yiddish con stile

I colori del canto e il garbo del pianoforte. La cultura yiddish e la voce sicura di Giovanna Carone, che coltiva un passato vissuto sulla sponda delle note barocche, e la buona educazione musicale di Mirko Signorile, sempre più versatile e orientato verso accordi e scenari diversi da quelli squisitamente jazzistici che pure continua proficuamente a frequentare tra un progetto e l'altro. Il desiderio di ripercorrere un certo tragitto già calpestato (il precedente si chiama Betam Soul, la prima produzione realizzata in sinergia, anno duemiladieci) e il vezzo di voler accostare al progetto di partenza nuove emozioni, nuove suggestioni. Far Libe ("Per Amore" è la traduzione) è un disco di quindici brani, quasi tutti espressamente coniati per l'occasione dallo stesso Mirko Signorile (allo spartito) e nei testi da Luca Basso, paroliere e voce ufficiale dei Fabularasa, da Giovanna Carone e da Marisa Romano, una vera e propria autorità, in ambito yiddish, ma popolarmente conosciuta con lo pseudonimo di Marishe. Tracce che, peraltro, traggono linfa e giovamento dai canti della tradizione e, talvolta, anche dall'elaborazione di composizioni della metà del secolo scorso (il singolo "Far Libe", ad esempio, poggia la propria scrittura sul tema di un compositore russo, Dmitri Kabalevskij). Oppure (è il caso di "Chanson d'Amour") dal bagaglio musicale di Fauré, opportunamente ritoccato. Mentre Wiegala si presenta sotto la forma di una ninnananna e il godibilissimo "Ver Vet Blaybn" non è altro che un testo aggiunto ad un pezzo esclusivamente strumentale ("Tra Luci e Stelle") firmato da Mirko Signorile e inserito in Clessidra, album a proprio nome di qualche inverno fa.
Firmato dall'etichetta Digressione Music, realizzato in studio nel maggio del duemiladodici e presentato ufficialmente a Bari non troppo tempo addietro, dopo una decina di repliche il lavoro transita dal palcoscenico di Art 'n Jazz, contenitore itinerante (tra Polignano, Rutigliano, Conversano e Mola, per la precisione) artisticamente diretto da un altro pianista, Donatello Dattoma, che ha voluto riunire nella sua seconda edizione la mostra pittorica di Vito Savino, una presentazione (del volume C-Minor Complex, omaggio di Marco Di Battista a Lennie Tristano), visite guidate al polo museale di Conversano e, innanzi tutto, performance live di artisti di diversa estrazione (Nicola Tariello e gli Organik 3, Cinzia Eramo e Gianni Lenoci, il quartetto di Emanuele Cisi e Giuseppe Delre, che prossimamente proporrà dal vivo il suo ultimo cd, di cui abbiamo avuto occasione di parlare recentemente su queste stesse colonne). Le sale della Pinacoteca Finoglio di Conversano, così, diventano un punto di passaggio appropriato («e un luogo degno, dal punto di vista artistico», sottolinea Pasquale Sibilla, leader del locale assessorato alle Politiche Culturali) per accogliere una raccolta di composizioni dal taglio decisamente sobrio ed elegante.
Far Libe si muove tra l'idioma yiddish, l'italiano (rappresentato, appunto, dalla vena poetica di Luca Basso), il francese, l'inglese e lo spagnolo dei sefarditi, mescolando momenti di vera e propria letteratura in musica a storie dal sapore vagamente fiabesco. «Il nostro primo lavoro - certifica Giovanna Carone - offriva probabilmente meno spazio alla nostra lingua, puntando più corposamente sulla cultura yiddish, da cui sgorga il progetto». E Far Libe, sotto questo punto di vista, cerca allora di allargare l'orizzonte, apparendo al primo ascolto un prodotto sicuramente più maturo e rodato di Betam Soul. Puntando sulla delicatezza e anche su un rapporto più diretto e intimo con l'ascoltatore. E provando, soprattutto, a coniugare tradizione e modernità, musica popolare e contemporanea. Con molto stile.

Giovanna Carone (voce) & Mirko Signorile (pianoforte) in "Far Libe"
Conversano (BA), Pinacoteca "Finoglio"
Art 'n Jazz 2013

lunedì 31 gennaio 2011

Uhuru Wetu, aria di Giamaica. E di Africa


Infine, il progetto diventa disco. Dopo aver percorso una strada impegnativa. Parto di lunga attesa, verrebbe da dire: per le ordinarie difficoltà di reperimento di una etichetta che assicuri nel contempo una distribuzione soddisfacente e per altri dettagli della quotidianità. Camillo Pace e Connie Valentini, più o meno tre anni dopo la presentazione ufficiale del lavoro, comunque riebolarato e modellato nel tempo, presentano Uhuru Wetu, cioè la musica e il verbo di Bob Marley rivisitati in jazz. Progetto, appunto, portato un po’ dovunque, dal vivo, per mesi interi. E, adesso, condensato in otto tracce griffate Koinè, una label di Dodicilune (bella la copertina e suggestive le foto che la disegnano: una prerogativa dell’etichetta di Gabriele Rampino).
Ma il disco, in realtà, va oltre. Nel senso che arricchisce l’idea di partenza, pensata per una situazione di duo (voce, quella di Connie, e contrabbasso, quello di Camillo), e – proprio per questo – sufficientemente stimolante da accattivare simpatie. Infatti, le emozioni di una soluzione, passateci il vocabolo, minimalista (contrabbasso e voce da soli, senza orchestrazione, devono faticare tanto e bene, sottolineamolo) si aprono, in sala di registrazione, ad altri strumenti e altri artisti, che ruotano attorno al nucleo di base: ecco, allora, il romagnolo Marco Tamburini, uno dei più apprezzati trombettisti della penisola, il sax soprano di Roberto Ottaviano, la chitarra del barese Nando Di Modugno, le percussioni di Pippo “Ark” D’Ambrosio, le voci afro di Nyamal Anthony Mukoko e Likono Alexaner Ashivaka, oltre alla tromba modificata di Vincenzo Deluci, sfortunatissimo musicista di casa nostra che torna a registrare in studio dopo aver recentemente riallacciato i contatti con l’universo musicale (suo il marchio sulla versione di “No Woman no Cry”).
Il prodotto finale, cioè, toglie qualcosa all’originalità, ma acquista in visibilità o, se preferite, in commerciabilità: un dato piacevole per l’etichetta e, ovviamente, anche per i protagonisti. E meno, magari, per chi preferisce apprezzare la progettualità, nel senso più stretto del termine. Amarezza, peraltro, prontamente liofilizzata dalle dinamiche e dalla fluidità del disco, ma anche dalla puntualità e dall’attendibilità del sound. Oltre che dalla completezza dei musicisti chiamati a collaborare. I quarantadue minuti dell’album (realizzato nel duemilanove al Sorriso Studio di Tommy Cavalieri, a Bari, e completamente arrangiato da Camillo Pace) sono, in verità, un omaggio all’indimenticato artista giamaicano, ma anche un tributo sentitissimo all’Africa, continente a cui il contrabbassista martinese è solidamente ed emotivamente legato, da anni. Come testimoniano, del resto, alcune note di copertine affidate a Reuben Kanake, missionario in Tanzania e amico personale di Pace. Che è poi autore dell’unico pezzo originale, il delicatissimo “Il Volo dell’Angelo”, interpretato in italiano, che si aggiunge ad “I Shot the Sheriff”, “Get Up Stund Up”, “One Love”, “People Get Ready”, “Jumming” e “Redemption Song” di Marley, alla mitica“No Woman No Cry” di Vincent Ford e ad “Hallelujah” di Leonard Cohen.

Connie Valentini (voce), Camillo Pace (contrabbasso), Marco Tamburini (tromba), Vincenzo Deluci (tromba), Roberto Ottaviano (sax soprano), Nando Di Modugno (chitarra), Pippo “Ark” D’Ambrosio (percussioni), Nyamal Anthony Mukoko (voce) & Likono Alexaner Ashivaka (voce)

Uhuru Wetu – The Music of Bob Marley (Koinè - Dodicilune, dicembre 2010)

venerdì 9 luglio 2010

Cinque corde per improvvisare


Di qua e di là. Spaziando tra i ritmi, senza freni. Con una tecnica persino debordante. E, forse, anche ingombrante. Con la sua musica esuberante, voluminosa. Oltre lo steccato dello spartito, sempre. Giocando a improvvisare. E, probabilmente, pure a compiacersi. Toccando ovunque, per poi fuggire. E poi, magari, tornare. Attorcigliandosi attorno ad un tema: per entraci, corteggiarlo e, infine, per tradirlo. Per modificarne la struttura, per avvolgerlo e per abbandonarlo, battendo nuove strade. Quelle che partono dall’emozione. O dall’emotività del momento. Dal cuore, certo. Ma anche dal freddo calcolo di uno studio attento. Perché, sotto l’improvvisazione, c’è sempre una pianificazione serrata, robusta. Talvolta, maniacale. Dal cuore e dalla testa, allora. Cioè, dalla mediazione tra sensi e applicazione. Dove l’istinto forma e, alla fine, guida. Aggrappandosi, però, ad un lavoro di fondo sostanzioso e aggressivo.
Francesco Del Prete e il suo violino. Un violino francese a cinque corde, di vetroresina. Il risultato dell’addizione è Corpi d’Arco, progetto che vanta già un anno di vita, diverse esibizioni dal vivo e, ovviamente, anche un disco. E che Collepasso In Veste d’Arte, rassegna organizzata da Cantieri Ideali, ha voluto ospitare nell’atto conclusivo del suo cartellone estivo all’interno del Palazzo Baronale del piccolo centro salentino. Progetto che, giura lo stesso Del Prete, primo violino dell’orchestra della Notte della Taranta con un ricco pedigrée nell’ambito della musica popolare di Terra d’Otranto, ma ormai stabilmente affacciatosi su palcoscenici più ampi, si trasforma in ogni appuntamento live. Proprio perché, mai come in questo caso, l’improvvisazione è punto nodale e valore imprescindibile. Anzi, necessario.
«Corpi d’Arco –spiega – è un percorso nato attraverso le sfumature e i colori che un violino a cinque corde può garantire, anche in veste assolutamente alternativa. Un progetto che mi coinvolge totalmente e che si modella con una pedaliera e una loop machine, tributo all’elettronica utilissimo per costruire sul momento tonalità supplementari». I suoni, così, si moltiplicano, si sdoppiano, si incrociano, formando un tappeto sonoro variegato. «Corpi d’Arco è, al momento, la mia massima espressione musicale. Ma mi piace sottolineare l’istantaneità del percorso. In pratica, compongo sul momento. Ovviamente, nei concerti, anche per un biosogno contingente, preparo delle strutture sulle quali, successivamente, posso lavorare. Altrimenti, non basterebbe un’ora per un solo pezzo».
In realtà, nei settancinque minuti dal vivo, si alternano una decina di composizioni: da “Alta Lena” a “Girandola”, da “Arpeggio di Luna” a “Respiro Elettrico”, da “Il Cappello di Latta” (preceduto da alcuni versi di Maria Pia Romano, con la quale Del Prete ha condiviso più volte la scena) a “Rosso di Tango”, da “Un’Allegra Maitresse” (il titolo è provvisorio, non fa parte del disco) a “Di Lei”, da “La Corsa del Cavallo a Dondolo” a “Rivers in Reverse” (dove utilizza, appunto, il reverse, un effetto timbrico particolare che duplica le note al contrario). Il violino, così, è punto di riferimento, ma anche spalla di se stesso. E strumento di percussione, talvolta. Certe volte, si elettrifica. Altre, sembra frantumarsi in rivoli differenti e convergenti. Non c’è schema che lo limiti: la libertà è inseguire l’ispirazione. L’elettronica, certo, offre un contributo corposo. Decisivo, ai fini dell’ascolto. Ma le intuizioni compositive, la fantasia, le esecuzioni nette, l’elasticità e anche il coraggio scrivono intrecci sonori accattivanti. Quello che, probabilmente, il contenitore di Cantieri Ideali cercava: puntando sugli artisti del territorio. Ma, soprattutto, sulla creatività e la progettualità. Scommessa vinta.

Francesco Del Prete (violino, pedaliera e loop station) in “Corpi d’Arco”
Collepasso (LE), Palazzo Baronale,
Collepasso InVeste d’Arte

lunedì 5 luglio 2010

Penelope, profumo di Adriatico


Nuove strade, percorrendo vecchi sentieri. Centrifugando emozioni e affinità eletive, suoni e retaggi culturali. Le frontiere della musica popolare e anche quella della tradizione si sono allargate da tempo. Guardando a sud, a nord, ad ovest. E ad est: da dove provengono tonalità che si allacciano volentieri alla cultura mediterranea della Puglia. E, da tempo, la radice salentina si è ramificata oltre l’Adriatico, in luoghi dove sa nutrirsi per tornare rimodellata, arricchita. Gli Adria, per esempio, sono tra quelli che, sempre più spesso, oltrevarcano quel mare che unisce: riapprodando, infine, sulle sponde di Puglia. Scambiando con quel mondo vicino e ancora un po’ misterioso idee, sensazioni, esperienze. Claudio Prima, il suo leader, sperimenta, accosta, rischiando soluzioni anche imprevedibili: da anni. Con la sua Bandadriatica, che poi è l’evoluzione orchestrale del progetto di base, e con questa formazione di soli quattro elementi: più intima, meno invadente, più attenta alle sfumature. Il viaggio di andata e ritorno verso sponde diverse, dunque, è datato. E non si ferma mai. Adria, cioè, è l’intuizione di partenza che non si sgretola. Ma che, anzi, si fortifica. Che vanta molte situazioni dal vivo e buona fama. E che, nonostante tutto, sino a maggio scorso non si sorreggeva su alcun supporto discografico. Stranamente.
Ma il difetto - da maggio, appunto - è cancellato. Con Penelope, il primo album del consolidato quartetto salentino: che gli Adria hanno presentato nel cortile del Palazzo Baronale di Collepasso, da quelle parti chiamano più confidenzialmente castello. E che, in realtà, è una location recentemente ristrutturata, un contenitore assolutamente adatto ad ospitare le situazioni culturali che transitano. Come Collepasso InVeste d’Arte, una sei giorni approntata dall’associazione Cantieri Ideali che coniuga musica, teatro, letteratura e fotografia. Penelope, registrato alla Fabbrica dei Gesti di San Cesario, a pochi chilometri da Lecce, e supervisionato da Valerio Daniele, è quindi un disco che raccoglie parte della produzione già eseguita dal vivo in differenti occasioni. Complessivamente, undici tracce alle quali, nel corso del concerto di Collepasso, si sono affiancati altri titoli. Da "Moulinette" ad "Aujourd’hui", da "25 Trecce" (canto di matrice albanese) a “Non Ti Ho Detto” («scritto – rivela Claudio Prima – con la malinconia di chi non ha avuto il tempo di dire tutto»), da “Penelope” (è il brano che suggerisce il nome all’intera raccolta) a “Canto” («brano sviluppato in italiano, ma pensato in dialetto, dedicato alla musica popolare: nella speranza di conservarne la semplicità»), da “G24”( «quando la musica del mare si mescola al traffico dele città che si affacciano sui porti dell’Adriatico, si fa nervosa, caotica») a “Pa Llegar Hasta tu Lado” (unica cover, della messicana Lhasa De Sela). Per finire con Napoloni, un sunto delle danze che accompagnano gli interminabili matrimoni albanesi.
«Cercare la musica in Adriatico – scherza Claudio Prima – è come cercare la principessa in questo castello. Bisogna passeggiare lentamente, stanza per stanza, con passione: certi che il suo sguardo, prima o poi, premierà le fatiche della navigazione o del cammino». L’incrocio di trame musicali dove diverse identità musicali si incrociano senza scontrarsi è affidato all’organetto del suo capitano, al violoncello di Redi Hasa, arrivato in Salento da Tirana, ai sassofoni del galatinese Emanuele Coluccia e alla voce elastica e senza tempo di Maria Mazzotta, che allarga gli orizzonti, offrendo compiutezza ad un lavoro che Prima non esita a definire tritatutto. Non a caso: perché il punto nodale della questione è reinventare e reinventariare suoni e accordi, improvvisare, trascinare il patrimonio musicale di un porto verso un altro, mescolare, shekerare. Lasciandosi cullare e spalleggiare da quell’Adriatico che dà e pretende. Che tutto prende e tutto concede. E che non sta fermo mai.

Adria (Claudio Prima: organeto e voce; Maria Mazzotta: voce; Emanuele Coluccia: sassofoni; Redi Hasa: violoncello)
Collepasso (LE), Palazzo Baronale
Collepasso InVeste d’Arte

venerdì 2 luglio 2010

La prima di Bandervish


Un progetto a rimorchio dell’altro. Prima che il tempo cancelli la scia di quello precedente. Prima che ne spazzi il profumo e ne azzeri il flusso emotivo. Il disegno è giusto. Ed è quello che paga meglio. L’idea, cioè, è puntualmente premiata. Soprattutto se la musica dei Radiodervish, ormai, è materia di culto. Forse, non solo dentro i confini della Puglia: da dove il gruppo trascinato da Nabil Salameh è salpato verso un’avventura che, già da tempo, ha saputo coinvolgere l’attenzione di diversi angoli dell’intero Paese. Dettaglio che, peraltro, spiega quanto questa formazione possa persino liberarsi dalla necessità di ricorrere al marketing robusto: che, però, in tempi di poca sostanza e molta apparenza, non infastidisce affatto. Anzi, aiuta. Tanto più se i progetti si alimentano di energie nuove, come l’apporto di Teatri Abitati e, dunque, dell’ente regionale.
L’ultima scommessa di Nabil e soci (Michele Lobaccaro e Alessandro Pipino) si chiama Bandervish. Che è poi la fusione tra il nucleo storico dei Radiodervish e la Banda di Sannicandro di Bari: il cui castello – non dimentichiamolo - raccoglie da qualche stagione molte intuizioni e diversi concerti dell’ensembe italopalestinese. Bandervish, ovvero più di una trentina di musicisti su un unico palco. A condividere, come si dice in queste occasioni, esperienze e suggestioni, spartiti e arrangiamenti. Niente di straordinariamente innovativo, d’accordo: perché l’incrocio tra i sapori bandistici (e, più in generale, orchestrali) e la canzone, anche d’autore, è una manovra ultimamente ben lubrificata, che attira e rende parecchio in termini di audience. Il prodotto, tuttavia, rimane abbastanza suggestivo e questo va riconosciuto. E poi, in fondo, il bisogno di novità indirizza anche e soprattutto i sentieri della musica.
Bandervish, peraltro, è un progetto (e, ovviamente, anche un disco) che possiede anche un altro padre, il giovane (e intraprendente) Livio Minafra: figlio d’arte (di Pino), pianista, fisarmonicista, compositore e arrangiatore con la passione per la contaminazione e per la rilettura delle note già rassegnate. Un padre, in verità, assente nella prima di Putignano (era a Bolzano, impegnato in una contemporanea esibizione). E, comunque, rappresentato dal già citato Pino Minafra, uno dei due guest del live di piazza Moro (appena dopo di lui salirà sul palcoscenico pure il sassofonista Roberto Ottaviano). Guest che, per inciso, collaborano pure nella realizzazione del cd (uscito il 25 giugno), al pari di un altro sassofonista, Gaetano Partipilo. Le direttrici del concerto, essenzialmente, sono due: alcune nuove proposte e, innanzi tutto, la rielaborazione dei motivi più celebrati dei Radiodervish: privatisi, per l’occasione, degli archi. Rielaborazione che, però, non sboccia immediata. E che, invece, si arrampica con il tempo.
Il lavoro è corposo: e, da principio, i Radiodervish e la Banda di Sannicandro sembrano seguire binari paralleli, che non convergono. Che non si completano a vicenda. L’avvicinamento, cioè, è graduale. E si manifesta quando Nabil, Lobaccaro e Pipino assumono stabilmente il comando delle operazioni, dopo una ventina di minuti. Quando, per intenderci, i Radiodervish attingono compiutamente dal vecchio repertorio. Il concerto, dalla sua metà in poi, conquista forma e sostanza, equilibrio e ritmo, robustezza e impatto. Arricchendosi, anzi, di qualche venatura speziata. Magari, è vero, ci saremmo attesi qualche tirolo nuovo in più: ma il passato, certe volte, non stanca mai. E, allora, ben venga il restyling. E ben vengano le vie alternative di rivisitazione. Al di là dell’opportunità di limare ulteriormente e otttimizzare il progetto. Senza, per questo, perderne gli aromi di festa patronale in bilico tra Oriente ed Occidente, di Mediterraneo arcaico e contemporaneamente moderno.

Radiodervish (Nabil Salameh: voce; Michele Lobaccaro: chitarra e basso; Alessandro Pipino: fisarmonica e organetto) & la Banda di Sannicandro di Bari in “Bandervish” Guest Pino Minafra (tromba) e Roberto Ottaviano (sax tenore e sax soprano)

Putignano (BA), piazza Aldo Moro

sabato 2 gennaio 2010

La nuova alba di Bregović

Alcool. Non per dimenticare, ma per essere ricordati. E per ritrovare il (grande) pubblico delle piazze o dei teatri. D’Italia, ma non solo. Anzi. Goran Bregović, peraltro, continua a solcare le rotte del mondo. Da Buenos Aires a San Pietroburgo, da Tel Aviv a Beirut, come sottolinea con un narcisismo malamente nascosto. Passando, ovviamente, per le nostre contrade: abbastanza spesso. La voce di Bosnia, del resto, è nuovamente in tournée. Quella stessa tournée che, dice, non gli ha premesso di festeggiare l’ultima notte del duemilanove e l’alba dell’anno appena entrato ad Otranto, crocevia ormai stereotipato dei flussi migratori che arrivano dall’est e dall’oriente più prossimo. Dove, però, il musicista slavo è ugualmente approdato, con due giorni di ritardo, per offrire robustezza all’ormai tradizionale cartellone dell’Alba dei Popoli, che ha accompagnato le serate accalcatesi tra la fine di dicembre e il principio di gennaio ai margini del centro storico idruntino.
Tra Goran Bregović e Otranto, poi, esiste un legame consolidato nel tempo, affettivamente saldo: logico, dunque, che il prodotto più esportato di Sarajevo dovesse, prima o poi, ripresentarsi a Porta Terra con la sua Wedding & Funeral Orchestra (ridotta, questa volta, a due trombe, un sassofono, percussioni, due ottoni e due sole voci bulgare). Magari, per presentare ll’ultima produzione discografica: Alkohol, appunto. Produzione (doppia: la prima parte, Sljivovica, è già commercializzata; la seconda, Champagne, deve ancora entrare sul mercato) che ha giustamente invaso la scaletta con ritmi alti e con sonorità sincopate, facilmente fruibili (e la gente accorsa, infatti, ha ballato e saltato, spingendosi e strattonandosi tra schegge di bottiglie ormai vuote, fiumi di primitivo e molta birra). E che, così, al primo ascolto, ci sembra musicalmente meno raffinata delle proposte precedenti (scivolate, per la cronaca, nell’ultima parte del live), ma sicuramente adatta ad accompagnare la giornata di festa. Perché di festa popolare, in fondo, si è trattato. Una festa alla quale Bregović si è presentato, ancora più che in passato, nel ruolo di maestro concertatore, più che di cantore o chitarrista. Lasciando ad altri il compito di coinvolgere e tenendo per sé quello di catalizzatore mediatico e di narratore.
«Il mio concerto, però, è sempre lo stesso. Qui, in Italia, come altrove – rivela lui stesso - . E questo perché non possiedo la cultura dello show-business. Canto e suono quello che mi piace, da sempre. Coltivando una piccola responsabilità, ogni volta: perché è una responsabilità affronatare tanta gente che ha deciso di dedicarti due ore del proprio tempo. Così come è una responsabilità essere messaggero di una cultura e di un Paese, la Jugoslavia, che non esiste più, disgregatosi in tante piccole repubbliche. Ecco: io sono espressione di un territorio emozionale, che però non si esprime con un genere musicale molto originale, perché ampiamente radicato nelle tonalità dell’est d’Europa e, quindi, fortemente condizionato». Ma la musica, si sa, è materia particolare. «Vero. La musica è strana. Arriva dalla parte di noi stessi più profonda ed è il primo linguaggio usato dall’uomo. Ma, fortunatamente, c’è sempre gente curiosa di ascoltare proposte differenti, di misurarsi con culture diverse, di scoprire cosa c’è al di là della propria porta. In tutto il mondo e anche in Italia: dove ho avuto anche l’occasione di formarmi. Ho cominciato ad esibirmi a sedici anni proprio nel vostro Paese, in un bar meglio conosciuto come streep-tease. E ho conosciuto la realtà di una cità come Napoli. Certo, allora non immaginavo di avere, un giorno, la possibilità di suonare un repertorio, diciamo così, più elegante. E, comunque, ancora oggi ritengo un miracolo esibirmi in Italia e riscuotere tanti attestati di stima, davanti a molta gente».

Goran Bregović (voce e chitarra) & la Wedding and Funeral Orchestra
Otranto (LE), Porta Terra
Alba dei Popoli 2009/2010

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

mercoledì 4 marzo 2009

Una di quelle strane occasioni

La musica senza recinti è una miscela senza schemi. E quello che esce è una situazione di frontiera: tra gli stili, i patrimoni musicali di ciascuno e la fantasia che li sorregge. Che può adombrare i puristi dei generi, oppure solleticare il pubblico. Forse solo perché il già sentito e il già visto sono negli archivi mnemonici: e l’aria nuova stimola sempre. Oppure perché la commistione, se suffragata da un progetto fondato e convincente nella sostanza, sa inevitabilmente regalare qualche emozione. Questa volta interagiscono la tradizione delle bande dell’area balcanica (ormai largamente gradita, nelle platee del Paese: e le esperienze recenti di Goran Bregovic e della sua originalissima formazione incoraggiano le proposte), il flusso delle tonalità di matrice popolare e, ovviamente, l’inventiva personale, cioè le intuizioni di interpreti ormai abituati al palco e alle evoluzioni sonore. Per i quali, oltre tutto, parla saggiamente il curriculum. O, se preferite, le storie pregresse. Questa volta viaggiano assieme la Koçani Orkestar, ensemble macedone che calca i palcoscenici italiani con regolarità da qualche tempo, il trombettista Paolo Fresu (musicista di culto che può permettersi di esplorare nuovi spazi e allacciare nuove alleanze e che, soprattutto, non fallisce mai un progetto) e Antonello Salis, animo libero che recentemen te abbiamo ascoltato a Latiano, da solo, e nella circostanza debilitato da un malanno muscolare. Quindi, privato di parecchia verve, ma non per questo meno incisivo. Tutti assieme, appassionatamente, all’Orfeo di Taranto, in uno degli appuntamenti firmati dall’Associazione Amici della Musica “Arcangelo Speranza”, alla sua sessantacinquesima rassegna.
L’evoluzione dell’esibizione sembra non possedere regole, né conoscere barriere. Il tessuto sonoro fluttua tra l’etnico e il jazz, tra il popolare e la musica contemporanea dettata dal pianoforte di Salis, i cui arrangiamenti curano atmosfere più dettagliate. Fresu è un incursore spigliato che s’insinuia nell’improvvisazione globale. E gli undici elementi della Koçani Orkestar (molto maturati, con il tempo) si agitano versatili tra melodie della tradizione balcanica e composizioni più occidentali (apprezzabilissima, tra le altre, la versione de «Il Bombarolo», uno degli spartiti del De Andrè più impegnato, agli inizio degli anni settanta). «Non solo – aggiunge Paolo Fresu -. Personalmente, mi sono accorto delle affinità che collegano certe tematiche dell’est alla musica popolare della mia regione, la Sardegna. E, allora, ci siamo divertiti a scoprire come due mondi apparentemente così diversi siano in realtà molto più prossimi di quanto si possa supporre. Proprio perché è la musica ad avvicinarli. Per esempio, in questa breve viaggio attrraverso l’Italia, maturato a Milano, Bologna e Taranto, abbiamo riproposto un antico ballo sardo, opportunamente riarrangiato. Divagando anche oltre». Per quasi due ore, frizzanti e toniche. «E malgrado l’insolita tranquillità di Antonello. Mai visto, così – spiega Fresu - . Conseguenza di un colpo duro avvertito ventiquattr’ore prima. Problemi di stagione, càpitano». Anche per questo, dopo il concerto, insolita deviazione per l’albergo. E neppure un calice di rosso robusto, per sigillare la serata. E una di quelle strane occasioni. «E sì, cose che càpitano». Ma che non intaccano l’atmosfera di festa, proseguita per un quarto d’ora abbondante, a live già ufficialmente concluso. In mezzo alla gente, dove la Koçani ha sfilato, suonando ancora. Per ringraziare. E per recuperare gli ultimi applausi. Ampiamente guadagnati.

Paolo Fresu (tromba e flicorno), Antonello Salis (pianoforte) & Koçani Orkestar (Ajnur Azizov: voce; Suad Asanov: basso tuba; Redzai Durmisev: tuba baritono; Sukri Zejnelov: tuba baritono; Nijazi Alimov: tuba baritono; Dzeladin Demirov: clarinetto; Durak Demirov: sassofono; Turan Gaberov: tromba; Sukri Kadriev: tromba; Vinko Stefanov: fisarmonica; Saban Jasarov: tapan)
Taranto, Teatro Orfeo
65ma Stagione Concertistica dell’Associazione Amici della Musica “Arcangelo Speranza”

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domenica 19 ottobre 2008

Una mattina con Marley. Guardando l'Africa

Punto primo: ormai quasi ovunque – e da tempo – pubblico e privato propongono, la domenica, matinée musicali: in ambito classico e lirico, ma non solo. E i riscontri sono assai più che incoraggianti. La formula piace e la gente risponde. E, se poi le note confluiscono nell’aperitivo, meglio ancora. E, allora, perché non provarci anche in queste contrade? L’Associazione Carlo Orff si accolla l’idea e presenta Cantieri Aperti, rassegna di sei appuntamenti senza una precisa collocazione stilistica (si passa dal reggae riveduto e corretto alla classica, passando per il jazz e per il gospel) equamente divisi tra il restaurato Teatro Margherita di Putignano (di sera) e la Biblioteca Comunale, sempre a Putignano (le domeniche mattina, appunto). Il progetto del violoncellista Vito Amatulli, cioè l’anima organizzatrice, e dell’amministrazione comunale copre così uno spazio temporale largamente inutilizzato e garantisce visibilità nuova a due location interessanti. Offrendo spazio, peraltro, ad artisti di sicuro affidamento e di prospettive larghe come il violinista polacco Robert Kowalski, il pianista argentino José Gallardo, la violoncellista croata Jelena Ocic, il trombettista romagnolo Marco Tamburini, il Vertere String Quartet, il violinista nocese Giuseppe Amatulli, il pianista Massimiliano Conte e il Wake Up Chorus : ovvero, i prossimi protagonisti, da qui a dicembre, del percorso musicale.
Punto secondo: si può proporre il ritmo, la sfrontatezza e l’indole ribelle del reggae in uno spazio discreto come un auditorium? Senza strumenti elettrici e sound system e con un impianto di amplificazione essenziale? Anzi: con una voce (plastica e, a momenti, commossa) e un contrabbasso, supportati da poche percussioni, peraltro inattese, perché fuori programma? Sì, si può. E il prodotto è assolutamente sorprendente. Per la leggerezza con cui si ramifica, sin dai primi accordi del live. Esattamente quello che accade nella prima delle tre matinée di Cantieri Aperti, dove si dividono il palco la vocalist Connie Valentini e Camillo Pace: che, già da un po’, lavorano sul tributo a Bob Marley, un progetto arroccatosi sull’intuizione di avvicinare il jazz (quello unversalmente più conosciuto) alle sonorità africane e al sound inconfondibile del rasta giamaicano e, in seguito, sviluppatosi anche per sorreggere un futuro progetto umanitario in Africa. Terra, detto per inciso, alla quale il contrabbassista martinese è culturalmente assai legato, anche per avervi preparato una tesi di laurea in Etnomusicologia.
«Intanto – assicura Connie Valentini – arriverà presto un disco, ormai in via definizione. Con l’aiuto del quale prevediamo di poter costruire qualcosa di utile, laggiù. Ma, al di là di questo, l’esperienza in duo è ormai collaudata, datata. Sicuramente, la proposta è particolare e può apparire persino avventurosa. Diciamo pure che, all’inizio, abbiamo immaginato di suonare esclusivamente per noi, come si fa su una spiaggia, magari tra le palme. Poi, abbiamo pensato di esportare il messaggio di una personalità forte come Bob Marley, un uomo che ha inseguito l’utopia con coerenza». Non attendetevi, però, l’atmosfera tipica di quelle feste-concerto. Né il mare di gente sul prato, tra rum e marijuana. Connie Valentini e Camillo Pace, tuttavia, garantiscono un concerto non convenzionale, dai toni morbidi e addirittura confidenziali, che vive di energia propria e per niente devitalizzato dall’assenza diella strumentazione musicale più cara al reggae. Cioè, sessanta minuti credibili, lievi. E niente affatto rigidi o stantii, come potremmo essere facilmente orientati a pensare. Anche quando fluiscono le tonalità di “No Woman, No Cry”. E pure quando sgorga la più delicata “Il Volo dell’Angelo”, brano originale e cantato in italiano: una finestra sul mondo di Bob Marley e sulla Giamaica. E un ponte verso l’Africa.

Connie Valentini (voce) & Camillo Pace (contrabbasso). Guest Nico Vignola (percussioni)
Putignano (BA), Biblioteca Comunale
Cantieri Aperti

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venerdì 3 ottobre 2008

Navigando sull'Adriatico

Navigando sull’Adriatico. Sulle onde di un mare che aggrega. Attingendo da ogni sponda, passando per ogni porto, sfondando l’orizzonte. Cavalcando ritmi popolari e balcanismi, cercando nel passato e allargando il presente. Bandadriatica è l’equipaggio di una nave immaginaria, che freme di partire e che freme di arrivare. E’ un equipaggio che si emoziona, perché partire è un’emozione, perché il viaggio è l’avventura, e ogni avventura è una storia che insegue particolari nuovi, dettagli sconosciuti. E solo chi parte può capire.
Bandadriatica è un progetto che non si ferma, che si evolve. Ogni volta che si parte. E l’Adriatico è la sua prateria, la sua ispirazione e il suo fine. Claudio Prima è il capitano istrionico di una nave che salpa da Brindisi, porta d’Oriente che trascina l’arcaica cultura salentina e i suoi sapori, le sue tradizioni. Che lasciano la terraferma e sconfinano. Perché Bandadriatica è la musica della tradizione che va ad incontrare altre strade. Una tradizione che arriva dal mare e che, per il mare, emigra ancora. E, per mare, la pizzica si balcanizza, si contamina, si spezia. In Montenegro o in Albania, a Dubrovnik come a Valona, abbraccerà ritmi irregolari, danze rom e altro ancora. Le note confluiranno in un unico spazio, senza confini. E potrà anche capitare di imbattersi in brani bulgari tradotti nel dialetto del Salento.
L’ottetto punta sul ritmo, sui fiati. Quelli di Emanuele Coluccia, sassofonista che, solitamente, orbita attorno al jazz, del trombettista Andrea Perrone, di Gaetano Carrozzo, trombonista ercolano, e di Vincenzo Grasso, al sassofono e al clarinetto. Punta sulla tradizione e sull’innovazione. Che è un po’ l’idea fissa di Claudio Prima, voce ufficiale della formazione e organettista temprato da differenti esperienze (Manigold, Tabulé, Radicanto, Adria). La solida batteria di Ovidio Venturoso, le incursioni armoniche di Redi Hasa, violoncellista albanese e salentino d’adozione, e il basso di Giuseppe Spedicato amalgamano e completano un tessuto sonoro sempre aggressivo, frizzante. Quando la navigazione si fa più difficile e sorge la necessità di una guida, però, soccorre la voce di Maria Mazzotta, tra le più intense e affinate del panorama popolare di Terra d’Otranto. Voce terragna e plastica, duttile e avvolgente. Nulla è scontato, neppure il repertorio. Che reinterpreta, mettendoci del suo. E, allora, arriva pure la produzione originale, consacrata nell’album d’esordio, Contagio, che possiede già un suo tragitto, che ha già polarizzato un consenso abbastanza largo. Un consenso dignificato anche dalla notte di Galatina, consumata a fine agosto, nel concerto di piazza San Pietro che preannunciava l’altra notte imminente, quella della Taranta di Melpignano. E che si riserva, peraltro, anche un sèguito: in primavera, uscirà il nuovo lavoro discografico, supportato da un dvd realizzato in occasione della tournée realizzata recentemente proprio attraverso i luoghi dell’Adriatico, in compagnia della Koçani Orchestar, di Naat Velov e di altri musicisti arrivati dalle due sponde dell’Adriatico.
Bandadriatica, in definitiva, è una banda dei giorni nostri. Che attinge anche dal patrimonio storico e culturale delle bande che si esibivano – e ancora si esibiscono – nelle casse armoniche, nei giorni di festa. Una banda che ama parlare di musica, ma anche della gente. Anzi, di quelle genti che, come recita un vero e proprio manifesto programmatico dell’ensemble, «per secoli lontane, si sono incontrate raramente per voglia, più spesso per necessità. E le musiche, figlie illegittime della stessa tradizione, hanno percorso sempre strade diverse». Quelle genti attorno alle quali si è edificata la nostra storia e si è modellata la nostra cultura. Quelle genti attraverso le quali Bandadriatica si insinua, cercando di catturare segreti e buone idee.

Bandadriatica (Claudio Prima: voce e organetto; Redi Hasa: violoncello; Giuseppe Spedicato: basso; Emanuele Coluccia: sassofoni; Vincenzo Grasso: sassofono e clarinetto; Andrea Perrone: tromba; Gaetano Carrozzo: trombone; Ovidio Venturoso: batteria). Guest Maria Mazzotta (voce)

Villa Castelli (BR), piazza Municipio

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domenica 27 luglio 2008

La world music multietnica di Sepe

Evidentemente, il movimento che gravita attorno alla canzone popolare fatica sempre più ad accontentarsi dell’antico processo di autocombustione. E sente la necessità crescente di sollecitazioni sempre più marcate. Occorre altro, cioè: l’interazione con un ventaglio ampio di culture e di soluzioni musicali, il contagio con uomini e spartiti che testimoniano esperienze differenti, ma contingenti. In una sola parola, stimoli. Stimoli nuovi, ovvio. Per questo, sembra logico parlare di tradinnovazione e, soprattutto, di mescolanza. Talvolta fascinosa, talvolta ardita. E, talvolta, un po’ sbracata. Ma la musica, si dice, deve andare. E deve entrare nella gente. Perché, poi, è la gente che la consuma. Di fatto, però, la canzone popolare si trasforma. E si sfigura, molto spesso. L’esibizione dal vivo di Daniele Sepe, nome storico dell’universo popolare in Italia, irrobustisce il concetto. Segnando una tappa in più del percorso artistico di un musicista che non ha mai lesinato approcci con realtà più o meno distanti da quella in cui ha cominciato a misurarsi trent’anni fa.
Anzi: il concerto ercolano del sassofonista campano (inserito in due distinte ma, anche in questo caso, convergenti manifestazioni: l’Adriatic International Festival, voluto dall’amministrazione provinciale di Brindisi, e la Notte Bianca, organizzata dal comune di Erchie) diventa dichiaratamente l’occasione di un incontro (o di un incrocio) di esperienze. Meglio: di una commistione di tonalità e di idee, centrifugate secondo i gusti correnti, dove i confini sonori non coincidono con quelli geografici e con quelle nuove barriere che la politica sembra voler riproporre. In piazza, Sepe condivide il palco con la Brigada Internazionale, ensemble di tredici elementi che rappresentano Paesi differenti (anche e soprattutto non comunitari: Brasile, Cuba, Argentina, Senegal, Romania, Tunisia, Bosnia, Svezia e, ovviamente, Italia), ed aree sociali e musicali di diversa estrazione. Il progetto, neanche un po’ velatamente, prova a rafforzare la speranza del dialogo interculturale e interraziale, sul quale, di questi tempi, continuano a piovere molti dubbi e troppe domande. E, parallelamente, trasportando se stesso verso una semplice e pura world music, che di popolare possiede davvero assai poco. Molto ritmo, tanta energia, fiati, voci, basso, chitarra, tastiere e una buona razione di batteria e percussioni: la frittura mista spazia immediatamente, senza regole. Scavalcando ogni recinto. Sfiorando persino la disco music, bagnandosi sostanzialmente di funky, di pop e anche di rock e svelando quasi sempre la propria anima (e la propria vocazione) commerciale.
«Voglio che questa sera vi divertiate», comunica Sepe prima di cominciare. E così sia. L’approccio è un po’ congestionato di elettronica e di timbri balcanici. Repentinamente, poi, si emigra in Sud America. E non difetta la riproposta di ritmi realmente popolari come il baião (“Asa Branca” di Luís Gonzaga, peraltro, è rivisitata con impeto rockettaro). Quindi, si rientra in Europa, prima di riattraversare l’Oceano. Sepe dirige con discrezione, ritagliandosi qualche assolo di buon pregio, ma lasciando fare. E strafare. La Brigada ricorda (e, forse, rincorre) l’Orchestra di Piazza Vittorio, la prima formazione multietnica assemblata in Italia, ripercorrendone le finalità e certe argomentazioni di fondo. Il paragone, tuttavia, regge per poco: perché, probabilmente, l’ensemble diretto da Mario Tronco sembra più rigoroso. O se preferite, meno anarchico. Nella gran quantità di note, però, qua e là emerge qualche fraseggio interessante. O la voce decisa e carica di Doris Lavín, vocalist cubana. O, ancora, la chitarra matura e il sorriso divertito di Adnan Hozic, bosniaco di Sarajevo emigrato da anni in Salento, che i più attenti ricorderanno come uno dei principali protagonisti del gruppo Opa Cupa, gestito da Cesare Dell’Anna. E, non ultime, le incursioni frequenti del batterista brasiliano Robertinho Bastos. Il pubblico, intanto, si riscalda e balla: dunque, apprezza. E’ fatta la volontà di Sepe. Ed è gratificata l’iniziativa della Notte Bianca. Così come è appagato lo sforzo organizzativo dell’Adriatic International Festival, che ha convogliato in diverse location della provincia (Selva di Fasano, San Pancrazio, Villa Castelli, Mesagne e, appunto, Erchie) proposte musicali suggestive e originali come il trio del pianista Maurice El Medioni, la voce rom di Esma Redzepova, il cantautorato a stelle e strisce di Elliot Murphy e il rockabilly delle periferie belgradesi dei Kal. E che non si dica, allora, che l’estate pugliese non racconta storie interessanti. Girando, si trova. Più o meno puntualmente.

Daniele Sepe (sassofono) & Brigada Internazionale
Erchie (BR), piazza Umberto I
Adriatic International Festival

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venerdì 25 luglio 2008

Teresa Salgueiro, una pagina nuova

Da Lisbona alla Francia di Edith Piaf. Dal fado di Amália Rodrigues al Brasile e all’Argentina. Da Alfama all’Angola e a Capo Verde. Dal Tago all’Italia di Lucio Dalla. Dal Portogallo al Messico di Jiménez. Il mondo di Teresa Salgueiro si allarga. E sconfigge le distanze oceaniche. Non ci sono frontiere, ma solo orizzonti. E non c’è più la sua musica. Quella che l’ha proiettata, dieci anni fa, sui palchi europei. Dunque, quella che che l’ha accompagnata in un’ascesa agile, prepotente. Non c’è più la nuova canzone lusitana, accudita dalla tradizione e rivisitata dai Madredeus: che l’hanno saputa rimodellare e ridistribuire dal 1994 in poi, aggrappandosi saldamente a «Lisbon Story», la fortunatissima pellicola firmata da Wim Wenders. E non ci sono più neppure i Madredeus. Adesso (per adesso, almeno), cè la musica del mondo. C’è la musica di sempre. E, con Teresa, c’è un nuovo gruppo, sintetizzato in un quintetto d’archi affiancato da piano e percussioni.
Forse è una svolta, forse è un capriccio passeggero. Probabilmente, svicola la voglia di misurarsi. Con se stesessa e con la musica. Il mondo di Teresa Salgueiro, ora, è un repertorio che non concede troppo all’originalità (diciamo pure già largamente adoperato e facilmente apprezzabile dal grande pubblico), ma che si rivaluta con la grazia e la naturalezza, con lo charme e con la semplicità, con l’intensità e il sorriso. E, ovviamente, con la felicità di espressione. Del resto, lo spessore di Teresa è immutato. E la sua maturità artistica è assolutamente inattaccabile. E poi Teresa è bella, come sempre. Forse, anche più di prima. Ed è elegante, come sempre. Anzi, più di un tempo. Ed è raffinata, come e più che in passato. Raffinata, ma non sofisticata.. Non è un personaggio artefatto, cioè. E, magari, questo può bastare. Il resto è voce: solare, limpida, acuta, senza tempo. Che argina quella punta di delusione che avrà aggredito quanti avrebbero voluto riascoltare “Ainda”, “Céu da Mouraria” oppure “Haja O Que Houver”. E che, invece, hanno incrociato “La Vie en Rose”, “Avec le Temp”, “Caruso”, “Paloma Negra”, la piazzollana “Vuelvo al Sur”, “Leãozinho” (produzione di Caetano Veloso) e la bossanoviana “Se Todos Fossem Iguais a Você”, della “dupla” Jobim-De Moraes. Che la Salgueiro, sia detto per inciso, interpreta con regole fonetiche rigidamente brasiliane: non male, per una lisbonese. Accanto, peraltro, scivolano spartiti di gran pregio come “Estranha Forma de Vida”, vecchio successo della Rodrigues, la “Cantiga da Seifa”, antico canto popolare della Beira Alta, regione portoghese del centro nord, “Nom de Rua” oppure “La Serena”, una testimonianza del canzoniere iberico sefardita.
Il progetto (impresso, per la cronaca, anche in un disco, datato duemilasette) omaggia diverse culture artistiche e, soprattutto, cinque lingue: portoghese a parte, lo spagnolo, l’italiano, il francese e l’inglese. Il viaggio chilometrico, tuttavia, non è caotico e neppure superficiale. Curare il dettaglio è sempre operazione sana e redditizia: e Teresa e il Lusitania Ensemble spigolano tra i particolari. La qualità, si sa, sopravvive all’idea. E si esalta con gli arrangiamenti sobri, in linea con la figura di riferimento. L’accompagnamento, giudiziosamente, non è ingombrante. Il centro del palco è la voce di Teresa Salgueiro. Punto e basta. Ma non sia detto che alla piccola orchestra non venga tributato il giusto spazio: come tre pezzi interamente strumentali (uno, ad esempio, è “Casa da Mariquinha”) suggeriscono. L’atmosfera, infine, è quella più indicata per una piazza signorile come quella del Plebiscito, a Putignano, contenitore sfruttato nel miglior modo possibile (prima del concerto, eravamo sinceramente diffidenti della scelta: ci siamo ricreduti). Attorno, intanto, fluttua la voce del Portogallo di oggi e di domani, che è pure una voce della Lusitania che è stata. E, sembra di capire, anche la voce di qualche altro angolo di mondo. L’abbiamo riascoltata volentieri, Teresa. E non ci ha tradito.

Teresa Salgueiro (voce) & Lusitania Ensemble (Jorge Vergoso Gonçalves: violino; Antônio Figuereido: violino; Vensislav Grigorov: viola; Luís Claude: violoncello; Duncal Fox: contrabbasso e piano; Ruca Do Bordão: percussioni)

Putignano (BA), piazza Plebiscito
Primitivo 2008 – La Provincia dei Suoni

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lunedì 18 febbraio 2008

Il violino che scavalca il tempo

L'interpretazione intensa, il ritmo serrato, il guizzo. C'è un violino che taglia trasversalmente la scena e la musica, il palco e il repertorio. Che si rincorre, incalza, che frena e riparte, che detta i tempi e si accoda e irrompe ancora. Libero e avido. Tenace e leggero. C'è la grazia e la forza, dentro. E il piacere denso di condizionare l'ascolto. C'è un violino protagonista e c'è un violinista sanguigno e partenopeo. Lino Cannavacciuolo è personaggio di temperamento e mestiere. Replicato anche al Teatro Orfeo di Taranto, per il sedicesimo cartellone dell'Orchestra della Magna Grecia. E, di fronte, appare per un po' la voce ufficiale di Sardegna, Elena Ledda, timbro e passato da soprano ed esperienza consumata nell'alveo del folk e della musica popolare dei cantadores, frequentatrice antica delle piazze del Logudoro, guest dalla presenza scenica e caratteriale. Il sodalizio, in realtà, è datato, già amalgamatosi in «Amargura», album del 2005 che traffica tra i meandri tradizionali di Napoli e quelli di Gallura e dintorni: e, quindi collaudato, rodato, saldo, verace, viscerale. La finestra sull'isola della Ledda, seppur breve, è incisiva, robusta. E' un lampo, un topazio. E il suo contributo è ricco, saturo di atmosfere, di un'espressività fascinosa: anche quando la musica non l'accompagna, lasciando al palcoscenico solo alla voce. Attorno, poi, c'è un gruppo di musicisti animati da istinti un po' ancestrali, viaggiatori tra note che arrivano da lontano e che scavalcano il tempo. L'ensemble di Lino Cannavacciuolo inventa un programma arioso e fantasioso, delicato e sapido, febbrile e dolce, scandito dall'arroganza tecnica del suo leader, tra sentimento e melodia. L'apporto dell'elettronica non disturba, ma aggira solo gli schemi predefiniti. E un'ora e tre quarti di concerto, bis compreso, è un dato di quantità che non scalfisce né la qualità, né l'ampio respiro del repertorio, che ammara infine nella tarantella montemaranese, sùbito prima che cali il sipario. Tra la partecipazione discreta di un pubblico abituato a esibizione più classiche e più compassate.

Lino Cannavacciuolo Ensemble & Elena Ledda (voce)
Taranto, Teatro Orfeo
Stagione Concertistica dell'Orchestra Ico della Magna Grecia di Taranto

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giovedì 11 ottobre 2007

Il Mediterraneo di Savina

Il Mediterraneo si apre. Sempre di più. Alle relazioni interetniche, all’interscambio artistico. Il processo di confronto e condivisione (di ideali: musicali e, quindi, culturali) procede sicuro, s’intensifica. Ne hanno parlato e ne parlano diffusamente, ne parliamo anche noi: da tempo. La novità non esiste. Registriamo, piuttosto, il fiorire di iniziative che tendono a consolidare i rapporti tra genti di estrazione e provenienza diversi: oggi assolutamente necessari e conseguenziali, a fronte dei mutamenti sociali del ventesimo e, soprattutto, del ventunesimo secolo. Il Mediterraneo si apre e, perciò, si restringe. Nel senso che le distanze si abbattono e che quel mare un po’ chiuso e bollente non è più frontiera, ma campo aperto. Malgrado certe occlusioni mentali resistano forte, un po’ ovunque. E nonostante lo scenario politico non produca troppi argomenti per rallegrarsi. Il Mediterraneo può essere attraversato anche nello spazio di qualche canzone, da una riva all’altra. Incrociando le rotte dei fenici e gli istinti migratori dei giorni nostri. Accompagnando l’esigenza di plasmare peculiarità differenti, abitudini diverse e religioni oppostre. Del resto, la canzone (tradizionale oppure no: fa lo stesso) e, più in generale, la musica hanno insegnato e insegnano a riunire. Obiettivo che anima anche la produzione di Savina Yannatou, greca minuta dalla voce duttile e marcata. Una di quelle voci abili a dispensare atmosfere senza tempo, a scavare in profondità, a strappare dalla terra – da tutte le terre – le nostalgie ancestrali, il dolore quotidiano, la bellezza dei momenti più semplici. Che, poi, sono i fotogrammi di una storia, di una storia comune. La storia di tutti noi: musulmani, cristiani, ebrei, atei e maroniti, conservatori e progressisti. Il fascino mediterraneo e l’eleganza spontanea di Savina Yannatou è riapparso sui palcoscenici di Puglia. Per l’occasione, su quello del Teatro Kismet OperA di Bari, che ha ospitato la terza puntata di “Soul Makossa”, la (ormai rituale) rassegna approntata dal dinamico Centro Interculturale Abusuan di Bari, un contenitore attento all’importanza e alla complessità del vocabolo “contaminazione” e del concetto di interscambio. Il live dell’artista ateniese, oltre tutto, costituiva uno dei cardini del cartellone dell’ottava edizione, interamente dedicata alla figura femminile. Scelta, peraltro, dettata da una particolarità del duemilasette, anno europeo per le pari opportunità e l’uguaglianza tra uomini e donne, direttamente promosso dal Parlamento di Strasburgo. E, allora, in un’ora e mezza ben strutturata, partendo proprio dalla Grecia, Savina e la “Primavera en Salonico”, formazione che la accompagna (contrabbasso, fisarmonica, violino, percussioni, chitarra, bouzouki e fiati) hanno immediatamente sconfinato nel repertorio dei canti del sud dell’Italia (dalla Sicilia alla Sardegna), dell’Armenia, delle terre arabo-andaluse, della Galizia, delle genti israelite e della Palestina (con una canzone tradizionalemnte eseguita nel corso delle ricorrenze di nozze). Non dimenticando la delicatezza terragna e quella leggerezza penetrante che attualizza il passato, riproposto con giochi vocali ricorrenti, ma non ingombranti. E regalando momenti di musica autentica, agile. Buona a sostenere l’idea di Mediterraneo su cui insistere e applicarsi ancora: anche se ne parlano tutti. Anche se le rotte che lo solcano possono rivelarsi eccessivamente sfruttate, prigioniere di una moda o, peggio ancora, di un’assuefazione. Nemici subdoli dai quali diffidare. Vigilando con cura.

Savina Yannatou (voce) & Primavera in Salonico
Bari, Teatro Kismet OperA
Soul Makossa 2007

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martedì 21 agosto 2007

Il ritorno di Girotto

In Puglia, Javier Girotto è ospite puntuale. Ci sta bene e ci torna volentieri. Forse perché le sue radici argentine confluiscono a Fasano. Forse perché il movimento musicale, tra lo Jonio e l'Adriatico, è sempre vivido, stimolante: e, pertanto, le possibilità di esibirsi riescono sempre a moltiplicarsi. Forse perchè l'ampia base dei musicisti pugliesi è di caratura assolutamente soddisfacente e, al loro fianco, si può ipotizzare, costruire, progettare. E, probabilmente, anche perché il sassofonista di Córdoba, negli ultimi tempi, ha allacciato rapporti strettissimi con il Vertere, quartetto rigorosamente pugliese di estrazione classica, ma dotato di ampi orizzonti. Impalcando un sodalizio artistico ormai cementato da un certo numero di live, da affinità evidenti, da sincera amicizia e dalla realizzazione di un lavoro discografico (Nahuel, uscito nello scorso mese di aprile con l'etichetta delle edizioni de "Il Manifesto"): già presentato a livello nazionale a Roma e, in ambito regionale, a Nardò e Noci (in Piazza Plebiscito, nel quadro di Nocincanta '07) e in attesa di essere divulgato dal vivo pure a Polignano (fine mese di agosto), Ruvo (ad inizio di settembre) e Locorotondo (in autunno inoltrato: il concerto farà parte del cartellone di Antiphonae Jazz 2007). Javier Girotto riprende a solcare le strade di Puglia e, di contro, questa terra lo accoglie con premura, ogni volta. Sicuramente perché la sua arte è indiscutibile, certamente perchè il suo sound è carico di vigore, di energia, di lucida esuberanza. Ma anche perché ciascuna performance (in duo con Biondini, oppure con i Córdoba Reunion, oppure al fianco dei Vertere String Quartet: il prodotto, al di là dei compagni di viaggio, non cambia) si rivela ricchissima di suggestioni. In cui l'artista non si risparmia mai, regalando note penetranti, fraseggi arditi, momenti di musica sempre viva. E intimamente argentina. Attorno alla quale ruotano i progetti, paralleli e convergenti. E solitamente fortunati, peraltro. «L'ultimo, quello realizzato con il Vertere String Quartet - fa sapere lo stesso Girotto - è un progetto che si poggia su composizioni originali del sottoscritto, partorite negli anni novanta, nel periodo in cui arrivai in Italia, arrangiate dal cerignolano Luigi Giannatempo e musicate in maniera più cameristica. Nel disco, tuttavia, ci permettiamo di presentare un brano, "Fíar", estrapolato dal repertorio di Astor Piazzolla: ma questa è l'unica cover». Il quartetto d'archi (due violini: il nocese Giuseppe Amatulli e il ruvese Angelo Berardi; una viola: il martinese Domenico Mastro; un violoncello: quello della barese Giovanna Buccarella) offre sponda alla creatività del leader, dignificandone ulteriormente temi e talento, irrobustendo un repertorio di per sé apprezzabilissimo e fortemente impreziosito da assoli dispendiosi e persino temerari. Repertorio che, tra le altre, prevede "La Poesía", una delle composizioni più robuste di Girotto, la già citata "Fíar" (per la quale il cordobés si affida al flauto moxeño, di fabbricazione artigianale, costruito nel remoto villaggio di Umajuaca, a quattromila metri di altitudine, e legato ad una storia di altri tempi: l'indigeno che lo ha costruito non pretese - in cambio - denaro, ma l'impegno di risarcire la terra con vino e cibo, versati in una buca scavata da Javier), la ribelle "Para la Abuela Elisa", "Nahuel" (brano che condiziona il titolo dell'intero album, dedicato alle popolazioni della Patagonia) e "La Luna", ispirata dall'omonima opera poetica di Borges. Ma che, anche e soprattutto, traduce motivazioni infinite, calore, passioni ardenti e originalità. Segni distintivi di un argentino capitato sulle rotte di Puglia. E che, da queste parti, ritornerà, molto presto. Lo attendiamo, felici di farlo.

Javier Girotto (fiati) & Vertere String Quartet (Giuseppe Amatulli: violino; Angelo Berardi: violino; Domenico Mastro: viola; Giovanna Buccarella: violoncello)
Noci (BA), Piazza Plebiscito
Nocincanta '07

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martedì 7 agosto 2007

Dalla memoria necessaria al futuro possibile

E' vero: nell’immaginario collettivo la storia e la musica degli Inti Illimani si raggomitolano alle date, alle situazioni. Al momento storico e alla brutalità di un regime, alle pieghe dolorose di un Paese. Musica e storia sopravanzate dagli accadimenti sociali e politici che hanno spazzato la paura, la repressione, i progetti di riconquista, gli istinti della rivoluzione. Accadimenti indissolubilmente legati al passato prossimo di una terra (il Cile) e, in generale, di un continente (il Sud America) in bilico eterno tra lotta e sofferenza. E, soprattutto, dipendenti da anni oscuri e da un'afflizione pesante. Ma quel Cile sanguinario di Pinochet non esiste più e non esiste più neppure la sua criminale negazione di qualsiasi diritto personale. E, sulla Moneda, ora sventola la democrazia al femminile targata Bachelet. Sì, quei tempi sono un incubo mal cicatrizzato: eppure andati. E, con essi, si è sbiadita tutta una letteratura. Della quale la produzione degli Inti Illimani fa parte legittimamente. Come un certo movimento musicale degli anni settanta o l'eterna figura di Victor Jara.E’ vero: quel gruppo di impavidi (anche se, della formazione originaria, sono rimasti in tre) si trascinava con dignità il peso di una storia e degli anni, ma anche l'ammirazione di una parte (schierata) di una generazione: che, trentacinque anni fa, avrebbe voluto modificare e plasmare il mondo, guadagnando - in cambio - troppe disillusioni. Alla quale, però, le canzoni degli Inti Illimani rievocavano ancora travagli e passioni, barbarie e resistenze. E producevano ancora emozioni. Una parte di una generazione che, molti anni dopo, popolava testardamente i loro concerti, alzando quel pugno sinistro e rincorrendo le strofe di rabbia, lacerate dal tempo. Perché vibrava ancora qualcosa, di fronte a quelle note, a quelle parole. Perché quella storia pulsava sempre e quella febbre continuava a crescere. Non era solo la nostalgia, ad agitarsi. C'era, piuttosto, una forza viva che proseguiva a sgomitare: e ogni esibizione dal vivo della formazione cilena, rifugiata in Italia negli anni della dittatura, abbatteva il muro dell'archeologia ideologica e i vincoli temporali. Rafforzandosi di energia propria, vivida, sempre giovane. Difficile spiegarlo, difficile crederlo: ma la tensione, neppure troppo tempo fa, era fresca e si arrampicava possente. E quella musica sapeva trascinare come prima: chi, trentacinque anni fa, viveva la quotidianità degli eventi e anche chi non c'era ancora. Ma il tempo passa. E qualcosa cancella, obbligatoriamente. Gli Inti Illimani hanno già deciso di varcare l’epoca. Sentite Horácio Durán, il leader del gruppo: “La nostalgia è un brutto sentimento, quando diventa sociale. E la nostra formazione deve rappresentare un ponte tra la memoria necessaria e un futuro possibile. Ormai siamo un ottetto multigenrazionale: fra di noi c’è chi è nato dopo il golpe, dopo i primi vagiti del terrore. E, soprattutto, non vogliamo essere il museo di noi stessi: ma un’espressione di un continente molto vivo”. Allora, il progetto si ammoderna, si trasfigura, si allarga. Cambia. Differenziando il passo, mutando tratti somatici. Quello che è stato, è stato. Dopo, c’è altro. La frase magica (“el pueblo unido jamás será vencido”), con la musica che le ruota attorno, resta un tributo doveroso, al quale è impossibile sottrarsi, ma solo a fine concerto. E un tributo al passato è anche “Rin del Angelito”. Due rarità, ormai. Il repertorio attuale, proposto a Martignano, è però assolutamente nuovo e, sostanzialmente, taglia i rapporti con il retroterra emozionale. Proiettando un live ben curato, sobrio (anche troppo), ricco di motivi attinti dal patrimonio tradizionale sudamericano, vicinissimo al concetto di world music. Eppure lontano dai sentimenti partoriti un tempo e dalle scenografie già viste e vissute. In una parola, raffreddato. Forse anche per la scelta (lodevole, ci mancherebbe) della locale amministrazione comunale di sistemare davanti al palco un numero consistente di sedie: se non altro, per celebrare degnamente il ventunesimo compleanno di Piazza della Repubblica, la location dell’evento che, proprio dagli Inti Illimani, fu inaugurata nel 1986. Ma un concerto come quello del gruppo cileno, correggeteci se sbagliamo – andrebbe vissuto in piedi, popolarmente. Come, riteniamo, sia sempre accaduto, dovunque. E’ il nuovo corso, gente. Occorre guardare avanti. E cade, probabilmente, un altro mito. Certo, dentro la nuova storia c’è ancora il legame forte con le proprie radici. C’è la cultura dell’appartenenza, l’orgoglio, il sentimento, una certa leggerezza che accomuna tutti gli artisti sudamericani, il gusto di proporsi, una giovialità naturale. Gli Inti Illimani si divertono ancora. Affacciandosi deferentemente sull’Italia che li ha protetti, salvaguardati e, forse, anche incoraggiati: “Buonanotte Fiorellino” di De Gregori e una versione interessante della tarantella sono, del resto, due maniere di esprimere la propria gratitudine verso un popolo che hanno sentito e sentono sempre amico e di prepararsi il cammino verso il futuro possibile. Due maniere per non dimenticare che la loro musica non possiede frontiere, perché mai le ha possedute. Anche quando la formazione, alla fine degli anni sessanta, si costituì, confrontandosi con i canti popolari boliviani. Da allora, sì, il tempo è passato in fretta, infilandosi nello sconvolgimento dei costumi e nella frenesia dei rinnovamenti del ventesimo secolo. E’ passato, cancellando qualcosa. E’ il nuovo corso, gente. E gli Inti Illimani, persino loro, si adeguano. Il tempo è andato. Lasciando, sul fondo, uno strato di tristezza.

Inti Illimani
Martignano (LE), Piazza Della Repubblica

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domenica 22 luglio 2007

Sapore di Capoverde

La ragazza accompagna sicura il suo fascino già maturo e profondamente consapevole, ma praticamente naturale. Ha corpo e voce. E movenze. E una sensualità che affonda, si insinua, attacca, coinvolge. Senza violentare chi la ascolta e la guarda. Non una sensualità feroce. Il sorriso è aperto e l’istinto di comunicazione è solare, come la terra che rappresenta e canta, da una diecina di anni o poco più: Capoverde, arcipelago dominato dai portoghesi e stato sovrano da pochissimi decenni, geograficamente parte dell’Africa, ma universo culturale nutrito da peculiarità proprie, forti, vitali. La ragazza prova anche il passo di danza che attira il popolo, ma dimenticando saggiamente di caricare i toni, bagnandosi di semplicità. Amplificando ugualmente lo spettacolo e, soprattutto, l’audience. Aggiungendo al folklore, però, anche una buona arte vocale. Che è poi la sostanza della terza tappa del Locus Festival 2007. Lura è una ragazza di trentadue anni che si esibisce ovunque (spesso anche in Italia e in Puglia: l’anno scorso era a Diso, in Salento) e che ovunque riscuote compiacimenti: e non solo per le qualità somatiche. Lisbonese di nascita, ma di genitori capoverdiani, sbarca sulla scena internazionale con un fortunatissimo lavoro, «De Corpu Ku Alma», datato anni novanta. Da lì in poi il cammino è segnato. Merito di una simpatia spontanea e di un pop suadente e, magari, anche robusto che, tuttavia, non sgualcisce e non deprezza le atmosfere e le fragranze del suo Paese. Il suo prodotto, sia chiaro, è di sapore moderno (ben più moderno, ovviamente anche per motivi anagrafici, di quello di Cesária Evora o di Hermínia), ma sobrio e composto, ben curato nei dettagli, equamente diviso tra tradizione (il batuco o il funamá, due generi tipicamente capoverdiani che non coincidono con la più conosciuta morna) e progresso. Piazza Convertini, tra le cummerse di Locorotondo, può così appropriarsi di un personaggio positivo e di un sound che lascia trasparire la personalità del suo leader e la versatilità della band, discreta e presente, assolutamente complementare, eppure mai invadente (la batteria non picchia, gli arrangiamenti appaiono mirati, non si concretizzano note elettriche o elettroniche, l’eleganza è costantemente salvaguardata). Particolari, questi, che lasciano volentieri sorvolare sullo spessore – certamente non ricco – dei testi. Che, peraltro, non ha mai caratterizzato il movimento musicale capoverdiano, neppure in passato. Incuriosisce, semmai, l’assenza del cavaquinho, lo storico chitarrino di orgine portoghese, ma il problema non sussiste. Basta ascoltare e vedere Lura, per rimanere soddisfatti. E per compiacersi della scelta del Locus Festival, contenitore che, per l’occasione, ha voluto abbracciare varie direzioni e indirizzi musicali, navigando tra artisti di già solida o solidissima notorietà (Fresu o Battiato, che è poi il prossimo guest della rassegna, il trenta luglio), interpreti ancora rampanti (Chiara Civello o Gianluca Petrella) o, appunto, espressione di altri universi culturali. Come questa ragazza di Lisbona, tornata alle proprie origini per offrire un nuovo tassello del mosaico musicale di questo secolo, privo di confini artistici e sociali. A qualcuno, forse, l’idea non piace e non piacerà neanche domani. Ma così è. Il mondo cambia e ci siamo dentro. Interamente.

Lura (voce), António Vieira (pianoforte, percussioni e cori), Aurélio Santos (chitarra e cori), Guillaume Singer (violino, percussioni e cori), Edevaldo Figuereido (basso e cori), Carlos Paris (batteria e cori) e Paulino Nunes De Pina (percussioni e cori)
Locorotondo (BA), Piazza Convertini
Locus Festival 2007

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martedì 12 giugno 2007

Di tutto, di più. In libertà

Niente balcanismi, questa volta. Chi li attendeva o pretendeva, non è ripagato. Il progetto Zina (o meglio, il nuovo progetto Zina), che è poi uno dei ramificanti progetti di Cesare dell’Anna, è – invece – parte di tutto e, chissà, anche di più. E’, cioè, pop arabeggiante (la voce del gruppo è, non a caso, tunisina), rock addolcito dai fiati e dai ritagli di etnica, rock esuberante di molta elettronica (anche troppa, forse): e dimentichiamo sicuramente qualcosa. Ad esempio, qualche venatura di latin jazz e qualche accenno di rap. Insomma, è world music: termine utile per definire il non facilmente classificabile. Quello che è scomodo etichettare: perché l’etichetta scolorisce, evapora. Lasciando sensazioni senza nome, molto spesso. Niente balcanismi, no. Ma un caleidoscopio di colori ed intenzioni. Un contenitore di suoni (anche tosti, “sparati”) che si aggrappa ad un unico filo conduttore: la musica, punto di riferimento sovrano in mezzo all’anarchia delle note. Zina è un gruppo salentino che orbita oltre i confini geografici, oltre le frontiere sonore, senza bavagli, senza misteri. E senza schemi. Tutto o quasi viene centrifugato, digerito e ridistribuito con nonchalance, liberamente. L’orchestra acquista forza dall’impatto sonoro che genera e dalla personalità errante della sua stessa idea. Che non possiede limiti geografici, culturali e musicali. Il sound è ricco e moderno, volubile, spazioso: in cui la prima tromba, quella di Cesare Dell’Anna, può navigare, scorazzare, interferire, divagare, improvvisare, impartire il percorso, assecondare il ritmo, rilanciare. Senza essere accentratrice. Almeno, non in questa occasione. Il live, preparato da Rodolfo Renna, vecchio amico dei palcoscenici di casa nostra, e presentato ad Avetrana (Piazza Giovanni XXIII, nel quadro dei festeggiamenti per la ricorrenza di Sant’Antonio da Padova), è di difficile catalogazione, ma vitale e corposissimo. Sfrenato, anche. Dove certi sud del mondo si incontrano e incontrano altre esperienze, altre latitudini. Confrontandosi, evolvendosi. Certo, l’apporto delle basi elettroniche è – soprattutto in coda al concerto – esiziale, inarrestato. Oseremmo dire, anche un po’ esagerato, perché aggressivo. Tanto da togliere qualcosa alla verve e alla tecnica dei protagonisti (Dell’Anna a parte, Davide Arena è un ottimo musicista e il resto della band conosce i tempi e sa affrontare la platea). Condizionando il cliché dell’intero programma, che talvolta si svela ripetitivo. E che non rinuncia a caricare i toni, appena può. Dicevamo: di tutto e di più, in libertà. Quella libertà di espressione attorno alla quale l’evoluzione artistica del trombettista leccese, da diverso tempo, sta circumnavigando, aprendo nuovi sentieri e allacciando nuove collaborazioni (anche un altro suo progetto, quello legato al nome degli Opa Cupa, sta valutando nuove soluzioni sonore). Rispondendo all’animo nomade e istrionico dell’ispiratore e del caudillo di un’espressione musicale alternativa, forse un po’ trasgressiva, inconsueta, colorata. Uno di quegli interpreti che vivono meglio misurandosi continuamente: con la musica, con gli intrecci, con se stesso, con il mondo che galoppa, con la progettualità, con la varia umanità che scavalca gli ostacoli disseminati sulla strada dell‘integrazione e dell’interazione. E, infine, con la notte. Quella porzione di vita che misura e decodifica la lista delle sfide.

Zina
Avetrana (TA), Piazza Giovanni XXIII
Festeggiamenti di Sant’Antonio da Padova

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venerdì 29 settembre 2006

Ritmi senza confini

Dall’Esquilino, con ritmo. Mescolando note, stili, culture e linguaggi. Ma proponendosi con una musica comune, priva di schemi. E di confini. L’Orchestra di Piazza Vittorio è un laboratorio perenne, in formazione ed evoluzione costanti. Sedici musicisti (variabili, come il numero), prodotto di undici paesi diversi (dall’Italia all’Ungheria, da Cuba all’Ecuador, dagli Stati Uniti al Senegal, dal Brasile e dall’Argentina alla Tunisia): pronti ad autofinanziarsi per ritrovarsi, esibirsi e, magari, garantirsi il permesso di soggiorno. Roma (anzi, piazza Vittorio, incrocio autentico di uomini e razze: all’Esquilino, appunto) li accoglie. Mario Tronco, pianista degli Avion Travel, li raccoglie e li coordina. E, sul palco, li dirige. «Facciamo del meticciato la nostra poetica», dice. Ironia, ma anche progetti di integrazione, non solo musicale. Puntualmente esportati sulle altre piazze d’Italia. O, come accaduto a Bari, all’interno della Fiera del Levante e, più precisamente, di «Mediterre 2006», fiera dei parchi del Mediterraneo e contenitore attento al concetto di avvicinamento di popoli e identità diverse. Il sound è composito, anarchico. Sonorità molteplici si fondono e confondono: il pop abbraccia le tonalità arabeggianti, il rock si unisce alle atmosfere sudamericane, il mambo è sparato immediatamente prima di quelle indiane. Sì, sparato: perché il ritmo è sempre ben sostenuto, corposo, presente. Trascinante. E impastato di improvvisazione, puntuale e abbondante. Eppure, il repertorio cambia spesso. «Perché qualcuno, prima o poi, ci lascia. Anzi, deve lasciarci. I permessi di soggiorno sono veramente un problema e c’è chi deve necesseriamente rientrare in patria. E, con lui, si disperde anche una parte del patrimonio che ci ha portato in dote». Mario Tronco deve navigare anche nel mezzo dell’incertezza. Pur sapendo che la precarietà è uno dei motori dell’ensemble. Che, intanto, ha ispirato una pellicola («L’Orchestra di Piazza Vittorio», regia di Agostino Ferrante), documentario presentato all’ultimo Festival Internazionale di Locarno già in distribuzione in alcune sale cinematografiche italiane (a Bari, ad esempio, è già passato). Ovviamente, si parla di immigrazioni ed emigrazioni, ma anche e soprattutto di musica. La musica partorita in Piazza Vittorio e perfettamente inseritasi nel programma di «Mediterre», che per la quarta edizione ha saputo riunire anche l’algerino Khaled, i Radiodervish, Les Tambours du Bronx, Nando Citarella & i Tamburi del Vesuvio e l’Orchestra di Nazareth, formazione composta da israeliani, arabi musulmani e cattolici. Nonostante i venti di guerra, frequenti e impetuosi.

L’Orchestra di Piazza Vittorio diretta da Mario Tronco
Bari, Fiera del Levante
Mediterre 2006

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sabato 15 luglio 2006

Emozioni da palcoscenico

Non è sempre agevole assistere a concerti in equilibrio puntuale tra note ed emozioni, tra musica e parole. E non è sempre facile imbattersi in live ben confezionati, che sanno costruire l’atmosfera, alimentando lo spessore del prodotto. Anzi, non è neppure semplice ritrovarsi di fronte a concerti dosati nei particolari, curati nei dettagli. Dove non basta esibirsi. Dove, invece, vince l’esigenza di confrontarsi con se stessi: e, quindi, di migliorarsi. Eppure, a volte succede. Ed è successo: ultimamente, a metà luglio, a Torre Egnazia di Fasano, nell’area degli scavi archeologici, in occasione di Egnazia Estate ’06, dove i Radiodervish (Nabil Salameh: voce; Michele Lobaccaro: basso e chitarre; Alessandro Pipino: tastiere; Anila Bodini: violino) hanno replicato le tappe più significative del loro percorso artistico. In attesa di presentare – più avanti, quando i tempi saranno maturi – il prossimo lavoro discografico, in via di ottimizzazione.Nel frattempo, l’esibizione dei Radiodervish, mai incensati per quello che, in realtà, meriterebbero, ci ha convinti. Nuovamente, fortemente. Così come, già nello scorso mese di aprile, a Brindisi, quando l’incontro con l’attore (e la voce recitante) di Giuseppe Battiston generò il riuscitissimo spettacolo (griffato Teatro Pubblico Pugliese) Amara Terra Mia - Tra Parole e Musica, contenitore di sonorità (quelle consuete del gruppo appulo-palestinese) e riflessioni, di versi disperati e sensazioni crude, di umori e poesia profonda. Sì, ci ha convinti. Definitivamente. Tanto da poter urlare la certezza di considerare la formazione assolutamente in grado di poter reggere il confronto (ogni confronto) in ambito nazionale. Cioè molto al di là degli strettissimi confini regionali, dentro i quali sembrano ancora relegati dall’immaginario collettivo. Senza dubbio alcuno. Per la qualità delle sonorità prodotte, per la capacità di prendere per mano il concerto e, dunque, il pubblico, per l’eleganza nell’inseguire il particolare, per la bontà dei testi, per la precisa alchimia con cui vengono misturati impegno sociale e concetto di solidarietà, fragranze mediterranee ed orientali, parole di speranza e rispetto delle tradizioni. Tradizioni musicali e non: del resto, «Amara Terra Mia» è stato anche (o soprattutto) un omaggio a Modugno, oltre che un diario sviluppatosi nella quotidianità degli ultimi quindici anni italiani, segnati da quegli avvenimenti tragici che hanno aperto una discussione ancora irrisolta, legata indissolubilmente all’irraggiungibile piattaforma della tolleranza razziale e religiosa. Un diario in cui, al centro di ogni storia, ci sono l’uomo, i suoi ideali, il suo futuro, la fuga e l’approdo. E la convivenza. Motivi, questi, che rendono la musica dei Radiodervish vitale, istruttiva, irriverente, obbligatoria. E, probabilmente, anche scomoda. Particolare utile per continuare ad inseguirla. E incoraggiarla.

Radiodervish (Nabil Ben Salameh: voce e chitarre; Michele Lobaccaro: basso e chitarre; Alessandro Pipino: piano e tastiere; Giovanna Buccarella: violoncello)
Torre Egnazia di Fasano (BR), Area degli Scavi Archeologici
Egnazia Estate 06

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