venerdì 1 ottobre 2010

Il cedro e la rosa


Il cantautorato oltre lo stereotipo. Oltre le parole, cioè. Perché anche la voce e il canto pulsano e reclamano diritti. Oltre la staccionata della frivolezza. Un cantautorato sodo, riflesso nella mediterraneità delle storie, perso nelle curve del tempo. Speziato, di gusto profondamente popolare, ma dai contorni eruditi, vergato di striature etniche, decisamente morbido. E dichiaratamente pugliese: nell’esecuzione. Di Voce in Voce torna ogni anno, con puntualità. E Bari Vecchia è il suo palcoscenico naturale. Dove la rassegna dell’associazione Radicanto (una di quelle iniziative che definiremmo di nicchia, quindi tra le più indovinate: i cultori delle note più scontate non si adombrino, è la verità) si sviluppa interamente, approfittando dell’accoglienza dell’auditorium della Vallisa.
Quattro date dall’impronta delicata, ma anche decisa. E un po’ di artisti di questa terra rigogliosa di idee: come il Claudio Prima Ensemble e i Radicanto, formazione che gioca in casa, rispettivamente prima e ultima attrazione di una quattrogiorni che concede al panorama nazionale solo il break di Teresa De Sio, protagonista di un reading in terza serata. Esattamente ventiquattr’ore dopo l’esibizione di un Fabrizio Piepoli accattivante, espressivo, persuasivo. Niente affatto sorprendente: almeno per chi lo conosce. E per quanti ne apprezzano, da tempo, il profilo musicale e l’itinerario sonoro. Ma sicuramente maturo, poliedrico. Tanto da presentarsi, davanti alla platea, da solo. Con chitarra, pianoforte e santur, strumento della tradizione persiana. E con la sua voce modulata, calda, ricercata, melodica. Cantando in italiano, portoghese, spagnolo e aramaico.
Il lavoro è, praticamente, l’esecuzione dal vivo di Il Cedro e la Rosa, il suo recentissimo album. Fedele allo stile dell’autore barese, gravido di atmosfere marcate, di tonalità scandite, di teatralità essenziale. Piepoli, come del resto confessa candidamente, insegue la luce meridiana, armandosi di testi di ampia sensibilità e ricordando con devozione figure inscalfibili come Amália Rodrigues. Anzi, la passione per il fado, ovvero per la musica popolare lusitana, gli permette di aprire il concerto proprio con uno spartito in portoghese. Idioma che, peraltro, riprenderà spesso, prima del bis. E che alternerà, tra le altre proposte, ad un’ave maria siriana, a un canto sefardita e a un ricordo di Giuni Russo. “Per Rosa”, invece, è un omaggio alla siciliana Rosa Balistreri. Meglio ancora, un gioco di vocalità esaltato da un sapiente uso della loop machine, che surroga senza ripensamenti l'assenza di musica da accompagnamento.
Lo spettacolo è ben strutturato, da sùbito. E lascia emergere la voce, la composizione. «Muovendosi – racconta in sede di presentazione Giuseppe De Trizio, anima della rassegna e compagno di avventure di Piepoli da oltre dieci anni – tra confini labili come sono il cedro e la rosa, che contengono tutto e il contrario di tutto. E diventando un percorso multigeografico di musica immaginata mediterranea, in cui distanze e frontiere si annullano e dove l’istinto della tradizione, mescolato alla musica d’autore, diventa un pretesto per guardare al domani». E, aggiungiamo noi, per vivere meglio la musica di questi tempi.

Fabrizio Piepoli (voce, chitarra, pianoforte, santur e loop machine)
Bari, Auditorium Diocesano Vallisa
Di Voce in Voce 2010

martedì 21 settembre 2010

Giovanni Baglioni e la chitarra differente


Il cognome è un po’ ingombrante. Anche se, molto spesso (o quasi sempre), sui palcoscenici aiuta a carburare e a farsi spazio. Ma non a crescere, ovviamente. Facile pensare, perciò, che Giovanni Baglioni, figlio di Claudio, disponga di un passaporto buono per tutte le frontiere. E per tutte le situazioni. Invece, il ragazzo ha talento indelebile e tecnica finissima: e l’etichetta che si trascina non incide sul suo diritto di residenza nel panorama musicale di questo Paese. Di Claudio, peraltro, Giovanni non lascia ricordare molto, nonostante alcune esperienze dal vivo (le prime) si consumino proprio al fianco del padre. Innanzi tutto, perché non canta: deludendo, magari, quanti non lo conoscono e vanno incontro al concerto cercando assonanze. E poi perché il chitarrista romano ha scelto un percorso arduo, quello delle note di nicchia. Che, però, non gli impedisce di raccogliere, nel corso dei suoi concerti, estimatori fedeli.
Giovanni Baglioni, a volte, è debordante. Perché è uno di quelli che vive con lo strumento. E per lo strumento. Debordante, al limite del leziosismo. Che, piuttosto, chiameremmo studio maniacale della chitarra acustica. Perché maniacale appare, sin dai primi accordi, il lavoro speso sulle corde, negli anni, da questo ventottenne ricercatore di timbriche differenti. Debordante, certo: ma anche rigoroso. Pignolo, pure. E fantasioso: nella composizione e nell’ideazione. Nonché dotato di buone capacità comunicative con la platea: frutto copioso di personalità spiccata e buona padronanza di linguaggio. Che è tanta roba, di questi tempi. E non solo in ambito musicale. Ed è, innanzi tutto, chitarrista un po’ fuori dagli schemi. Probabilmente, perché il fingerpicking (arte di pizzicare la chitarra con le dita: ma la traduzione, presentata così, è riduttiva) non è per tutti.
Indubbiamente, il ragazzo si costruisce lo spettacolo da solo: non ha bisogno di altro, neppure di una loop station, per intenderci. O dell’elettronica. Riempie il silenzio con i suoni marcati della sua Martin, chitarra che diventa anche strumento da percussione. Quando si esibisce, incalza se stesso, non si placa mai. E pure la composizione è sufficientemente sostenibile, da tutti i tipi di orecchie: dettaglio non trascurabile. Idealmente, viene dalla musica di un californiano andato via molto presto, Michael Hedges, che non dimentica mai di citare e riverire. Permettendosi di riproporre almeno tre pezzi del maestro. Le altre composizioni (tra i diversi titoli, “Get Up!”, “Quando Cade una Stella”, “Sirena”, “Toro Seduto Ascendente Leone”, “Bijou”, “L’Insonne”, brano emerso quasi per caso, proprio in una notte difficile) sono produzione propria: la maggior parte delle quali integrano una raccolta di dieci tracce pubblicata già da tempo, Anima Meccanica, che è poi il titolo anche di un singolo, dedicato alle figure dei carillon o degli orologi a figure.
Artista differente, Giovanni Baglioni. Come, orgogliasemente, tiene a ribadire appena può. «Anche perché utilizzo accordature alternative e una maniera di espressione differente. Risvolti particolari che lasciano transitare chi esegue e chi ascolta in un universo non convenzionale». Esattamente l’obiettivo dichiarato del Tour Differente, concluso proprio a Cisternino, l’ultima di dodici tappe consumate in altrettanti borghi storici di tutta Italia. «Il mio obiettivo – spiega ancora Baglioni – non è solo quello di concatenare una serie di note. Le mie composizioni cercano soprattutto di raccontare una storia, pur senza servirsi delle parole. Sono convinto, del resto, che la musica debba trasportare la nostra mente in una dimensione parallela».
La chitarra virtuosa è fonte di energia, sempre. «Una volta, scrivendo un nuovo spartito, “Bloody Finger”, mi accorsi all’improvviso di essermi ferito ad un dito. Le corde della chitarra erano insanguinate. Mi sono sentito felice: era il segno che ero riuscito ad ottenere quello che volevo». Differente, determinato. Ossessionato dallo stile. Ma l’ossessione, talvolta, porta buoni risultati. «Avevo una passione. Meglio, un’ossessione: il cubo di Rubik. Nello stesso periodo, stavo lavorando ad una composizione che non riuscivo a chiudere. Mi sentivo vicino alla soluzione, ma non ci arrivavo. Poi, un giorno, dopo applicazione lunghissima, la risoluzione del caso: un accordo maggiore». Sì: perché, certe volte, basta un semplice accordo.

Giovanni Baglioni (chitarra acustica)
Cisternino (BR), piazza Garibaldi
Tour Differente 2010

venerdì 27 agosto 2010

Gezziamoci, jazz tra la gente


Ventitre anni. Gezziamoci, dal millenovecentoottantasette, è il jazz di Lucania. Senza contare i ventiquattro mesi precedenti di associazionismo puro: cioè, non dichiaratamente operativo. E’ il jazz che torna puntuale, anno dopo anno. Restringimento (dei contributi) dopo restringimento. E’ il jazz che si ramifica in quest’angolo di Italia. E che, da un po’, ha cominciato a infiltrarsi tra la gente, per le strade. Condividendone i luoghi. Che, poi, sono gli angoli, le strade e le piazze di una Matera ancora fiabesca, quella che l’Unesco difende. E che, da un certo punto di vista, anche la musica sta provvedendo a pubblicizzare.
Ventitre anni sembrano pochi. E, invece, sono tanti. Anzi, di questi tempi valgono molto di più: perché, oggi, è sempre più difficile assicurare e assicurarsi continuità. Che non è un punto di vista, ma un dato di fatto. Prima ancora della qualità: che resta un requisito soggettivo. E, in ventitre anni, la rassegna (ormai liofilizzata nei dodici mesi, ovvero spalmata in tre grandi sezioni: quella estiva, quella autunnale e quella invernale) dell’Onyx Jazz Club ha somministrato innumerevoli nomi, situazioni e rotte (questa volta, ad esempio, è quella del rock che si fonde con gli spartiti più propriamente jazzistici). Garantendo, nel tempo, una progettualità meritevole di migliore visibilità e di maggior rispetto.
E’ in estate, però, che Gezziamoci vive il momento più affascinante. E, se ci concedete il termine, più popolare. Perché le note si sposano al territorio. I banditori e le marching band, formazioni cariche di ottoni e buon umore, si mescolano al flusso di residenti e turisti, coinvolgendoli. E lasciandosi accompagnare nei pomeriggi. Lo struscio è solcato da soste brevi: in alcuni punti della principale arteria della città nuova e in quelli tra i più interessanti del borgo antico. La musica unisce. E conduce: verso le postazioni fisse in cui si sviluppano i concerti in programma. Più breve quello di prima serata, di propozioni standard il secondo.
La Conturband, quattordici elementi che arrivano dalla vicina Puglia (da Turi, per la precisione) e il banditore Rino Locantore aprono la seconda delle cinque giornate previste ad agosto: si sale, si cammina, si scende e si arriva tutti assieme nel piazzale antistante la Chiesa di San Giovanni, dove attendono Giacomo Maragno (alla chitarra), Vincenzo Cristallo (seconda chitarra) e il contrabbassista Gianfilippo Direnzo. La reunion, tutta lucana, s’incrocia con il sassofono del giovanissimo Giovanni Di Giacomo, siciliano di Piazza Armerina (l’incontro è frutto del gemellaggio tra Gezziamoci e Piazza Jazz). In scaletta, standard di Gerry Mulligan (che, con Chet Baker, dette vita al pianoless), brani degli anni cinquanta, ma anche composizioni attinte dal repertorio italiano (“Senza Fine”, di Gino Paoli).
Quarantacinque minuti in intimità, mentre la luna ancora piena spunta dalla gravina e i Sassi si illuminano. Poi, la marcia con la Conturband riprende tra gradini, vicoli, archi e larghi. Destinazione finale è il giardino del Complesso Le Monacelle, a ridosso del Duomo: l’omaggio alla musica manouche e, di conseguenza, al suo manifesto (Django Reinhardt) è affidato al Tolga Trio. Tra brani originali (due, “Liberdjango” e “Point of View”, fanno parte dell’ultimo lavoro discografico firmato da Tolga During) e composizioni largamente affermate, la formazione (con il leader, alla chitarra doppio manico, anche Lorenzo Lucci alla chitarra ritmica e il contrabbassista Alessandro Lo Mele) si concede volentieri alla contaminazione di diversi linguaggi musicali, sfruttando le atmosfere di una location senza tempo. La stessa location che, nel segmento estivo di Gezziamoci, ospita anche il Jazzentinean Project (26 agosto), il quintetto di Paola Arnesano (che ripropone in versione jazzata il sonngbook dei Police, 28 agosto) e l’Elettric Quartet di Giovanni Falzone (il 29). Lasciando alla casa grotta di via Casalnuovo l’esibizione del Complanare Acoustic Trio capitanato dal fasanese Martino Palmisano e, soprattutto, alla chiesa rupestre di Cristo La Selva il concerto per violoncello solo di Vito Paternoster, momento di grande effetto scenico che saluta l’alba del 29 agosto sotto le note di Bach.

Conturband & Rino Locantore (banditore) in concerto itinerante
Matera, centro cittadino

Reunion Project (Cosimo Maragno: chitarra; Vincenzo Cristallo: chitarra; Gianfilippo Direnzo: contrabbasso). Guest Giovanni Di Giacomo (sax tenore)
Matera, Piazzale antistante la Chiesa di San Giovanni

Tolga Trio (Tolga During: chitarra doppio manico; Lorenzo Lucci: chitarra ritmica; Alessandro Lo Mele: contrabbasso)
Matera, Giardini del Complesso “Le Monacelle”

Gezziamoci 2010

mercoledì 25 agosto 2010

Dal folklore al tango


Dalle tradizioni di un’Italia povera e pure un po’ sbandata al nuovo mondo, sanguigno e nostalgico, costruito su fatiche e speranze. Dalle terre amare consegnate ai ricordi al miraggio dell’Argentina, nuova realtà di una generazione accatastata sulle navi. E pronta a ripartire dalla terra ferma di un Sudamerica che si consolida e si evolve. Tango También... Dal Folklore al Tango è il racconto sonoro di un’epoca. Di un travaglio. E della storia di molti. Ed è un viaggio nella musica di due generazioni. Forse, anche di tre. Nella musica di due continenti, di due universi culturali. E, a pensarci bene, di uno stesso popolo. E’ il viaggio verso il tango. Che è (pure? Soprattutto?) il tango di Piazzolla, figlio d’emigrante e nipote perduto di una Puglia ancora arcaica. Un viaggio segnato da un ritorno emozionale, ma non geografico. Che solca le origini, raggruppandole. Un percorso dai profumi forti, dove molte malinconie si confondono. E premono. Tango También è il viaggio che il poliedrico Rocco Capri Chiumarulo, il Nuevo Tango Emsemble (ovvero il bandoneonista foggiano Gianni Iorio, il pianista Pasquale Stafano e il bassista Pierluigi Balducci), il polistrumentista altamurano Nico Berardi e il percussionista Pippo D’Ambrosio intraprendono tra gli ulivi di Cristo delle Zolle per l’Estate Monopolitana 2010, sotto la supervisione dell’associazione culturale Terrae. Che, idealmente, parte dalle parole dello scrittore e drammaturgo Manuel Puig: «I messicani discendono dagli aztechi, i peruviani dagli inca, gli argentini discendono dalle navi». E che sintetizza le tappe di una migrazione dai contorni drammatici, eppure capace di trascinare per l’oceano l’energia del folklore e delle genti del meridione d’Italia, ma anche «la poesia e lo struggimento per un tempo passato che non tornerà mai più». Diventando la causa (o il pretesto) di un fenomeno di meticciato assolutamente originale.
Rocco Capri Chiumarulo guida, istruisce, spiega. La sua voce si intreccia immediatamente con la zampogna di Nico Berardi. La modugnana Amara Terra Mia è l’inizio della storia. E del viaggio. E’ quello che resta alle spalle, è la motivazione che spinge a cercarsi un futuro altrove, lontano. Si unisce Pippo D’Ambrosio e cominciano a scorrere i fotogrammi immaginari, vergati dai versi di Peteco Carbajal, Alfonsina Storni e Jorge Luís Borges, dai tanghi di Gardel, dalle note bagnate di huayno, vals, candomble, chacarera, zamba, milonga. Il Nuevo Tango Ensemble sale sul palcoscenico più tardi, disegnando una sorta di staffetta: scenograficamente corretto. E’ la prospettiva che cambia. E’ l’Argentina che cresce. E’ il nuovo che avanza. Iorio, Stafano e Balducci indugiando sull’universo piazzolliano. Poi, prima che il concerto si concluda, si ritrovano tutti assieme. Perché l’Argentina è la somma di due popoli, di due culture. O il concentrato di una storia dolente. Nata, anche e soprattutto, nelle terre di Puglia. E, infine, raccontata da pugliesi. Un omaggio al tango. Un omaggio alla musica. Alle nostre coscienze. E alla nostra memoria storica.

Rocco Capri Chiumarulo (voce), Nico Berardi (zampogna, charango, flauto dolce e chitarra), Pippo “Ark” D’Ambrosio (percussioni) & Nuevo Tango Ensemble (Gianni Iorio: bandoneón; Pasquale Stafano: pianoforte; Pierluigi Balducci: basso acustico e basso elettrico) in “Tango También… Dal Folklore al Tango”
Cristo delle Zolle di Monopoli (BA), Anfiteatro
Estate Monopolitana 2010

venerdì 20 agosto 2010

Il cuore nordico di Prelude


Va, viene. Riparte, ritorna. Francesco Angiuli è uno di quei musicisti di Puglia che hanno scelto le emozioni dell’esperienza all’estero. Che hanno scelto di confrontarsi, lontano dalle comodità di casa propria. Con culture musicali diverse, con profili di vita differenti. E con altrui scuole di pensiero. Naviga da tempo nel panorama jazzistico olandese: del quale, magari dopo qualche comprensibile apprensione (niente è scontato, nulla è dovuto), è ormai parte integrante. Muovendosi, però, abbastanza spesso: un po’ di qua e un po’ di là. Osservando con attenzione i palcoscenici dell’est dell’Europa. E senza aver mai reciso, tuttavia, i contatti con la sua terra. Anzi: Angiuli, contrabbassista monopolitano che ama le venature più moderne del jazz, in queste contrade scende di frequente. Trascinandosi, talvolta, alcuni pezzi del suo nuovo mondo musicale, che orbita nelle pieghe della musica nordica, ma anche nell’universo (tutto da scoprire) di paesi jazzisticamente emergenti come la Serbia o la Polonia.
Il ragazzo, questa volta, si fa accompagnare da Walter Wolff, pianista finlandese misurato ed essenziale, non ancora trentenne, e da Andreas Fryland, batterista ventisettenne che arriva da Copenhagen e che sa essere presente ed incisivo, pur senza picchiare su piatti e tamburi. L’occasione è utile a presentare Prelude, il recentissimo lavoro dell’European Trio, formazione che coniuga stile e sostanza, esibitasi in due date distinte: la prima a Valenzano e la seconda a Polignano, nel contesto di Persevisioni, manifestazione che incoraggia i filmaker, consumatasi in piazza San Benedetto. Prelude, ancora in attesa di essere commercializzato dall’etichetta Challenge, sarà stampato in autunno (il tempo di limare qualche dettaglio), ma offre sin da adesso un jazz corposo e attento alle linee melodiche: un particolare che la forte matrice nordica della formazione non lascerebbe sospettare. Il trio, ormai decisamente rodato, cura i dettagli, dedicandosi spazi abbondanti per assoli e improvvisazioni. Il palco, così, si divide equamente per tre, dispensando note di sicuro impatto e di sicura eleganza. Eleganza mai stantìa: e che mai corre il rischio di impantanarsi nella ricerca testarda di soluzioni impreviste o di effetti sonori esasperati, che talvolta macchiano le produzioni di questi tempi, spesso obbligate a rincorrere il gusto della novità a qualsiasi prezzo. «Ci conosciamo da un po’ – assicura Francesco Angiuli – e abbiamo ormai raggiunto un nostro equilibrio. Con Walter e Andreas abbiamo cominciato a girare per l’Europa e, oltre tutto, tutti assieme abbiamo condiviso con un vibrafonista di assoluto livello come Teddy Charles l’esperienza di un album registrato dal vivo, al Bimhuis di Amsterdam, editato di recente. Questo progetto, del resto, ha radici sufficientemente lontane: diciamo che nasce tre anni fa, mese più, mese meno». Ma non è tutto. «E sì, perché, prossimamente è previsto un live recording con Paolo Fresu, al quale abbiamo già fatto ascoltare diverse tracce del nostro lavoro. Ne è rimasto favorevolmente impressionato: l’accordo è di risentirci. E di confrontarci sul palco».

Walter Wolff (pianoforte), Francesco Angiuli (contrabbasso) & Andreaa Fryland (batteria) in "Prelude"
Polignano a Mare (BA), piazza San Benedetto
Persevisioni 2010

giovedì 12 agosto 2010

Sulla spiaggia con Giovanni Block



«Quello del cantautore è il mio mestiere. Un mestiere che, talvolta, mi ha deluso. In un’epoca in cui non è facile esserlo. In un momento in cui ci impongono molte cose e, tra queste, anche la musica. Proprio mentre qualcuno dice che i cantautori, oggi, non hanno niente da raccontare. Anche se, evidentemente, non sono d’accordo». Giovanni Block è un napoletano guadente e scanzonato come molti figli della propria terra. Ma, tra le righe dei suoi testi, nasconde qualche piccola (o grande) verità. E qualche ritaglio di un certo tumulto interiore. Come qualsiasi cantastorie dei giorni nostri. O di un certo disagio, dissimulato con molta autoironia. Con quella simpatia semplice e diretta, talvolta vagamente clownesca. E con quella faccia da bravo ragazzo: lontano, per intenderci, dal maledettismo e dal pessimismo della canzone profondamente impegnata degli anni settanta. Cantautore inserito nel contesto, ecco. Nel contesto di questi tempi. Dove il cantautorato non rinuncia aprioristicamente al gusto del frivolo: senza offesa, s’intende. Dove i grandi temi sociali e culturali sono spesso sostituiti da un’osservazione abbastanza asciutta della quotidianità. Che è meno profonda di ieri, in certi dettagli. Ma che, in fondo, spiega come quasi niente sia cambiato, in quarant’anni. E di quanto, invece, si sia ulteriormente deteriorato: nei costumi, nella mentalità, nei comportamenti della gente e di chi ne disegna le sorti. Chiariamo sùbito: Block non viaggia sul solco segnato da un Guccini (ci sembra, anzi, di aver colto che non ne condivida il cliché artistico) e tanto meno da un Lolli, nè da un De Gregori o un De Andrè. Talvolta, piuttosto, potrebbe ricordare Concato, ma i paragoni – questo tipo di paragoni – non ci piacciono affatto. Perchè sanno di superficialità. E, certe volte, il suo modo di approcciarsi al palco rivela qualche simpatia per la formula di teatro-canzone: ma navigheremmo ugualmente fuori rotta. L'autore, ventiseienne, vive soltanto il suo stesso personaggio e, magari, non insegue nessun mito. Il suo cantautorato si affaccia timidamente anche sul pop, ma non è propriamente musica leggera. E il suo rapporto particolarmente confidenziale con la platea rifugge dalla figura un po’ snob dell’intellettuale prestato alla musica. I suoi testi, oltre tutto, non sono affatto ermetici. E, inoltre, il gruppo che lo accompagna s’intrattiene spesso su un tessuto sonoro gravido di venature jazzistiche, pronte però ad accettare influenze decisamente moderne (chitarra e basso elettrico, del resto, non cooperano per caso). Già, il jazz: contorno saporito, ancorchè seminascosto, un gradino sotto il suo leader. Al quale, peraltro, spesso piace appartarsi con la gente, in compagnia della sola chitarra. Il jazz che è il trait d’union tra Giovanni Block, già Premio Tenco nel 2007, e Argojazz 2010. L’esibizione sulla spiaggia dell’esclusivo Porto degli Argonauti, resort di diffuso buon gusto del versante jonico di Lucania, non fiorisce casualmente, cioè. La rassegna ammicca, da sempre, ad un certo tipo di sonorità. E ad un certo tipo di musica, strettamente collegata al jazz. Di più: Block è il vincitore della settima edizione di Argojazz, che ogni anno promuove la figura di un musicista rampante (nel recentissimo passato, ad esempio, è stato premiato anche il nostro Mirko Signorile). Condizione, questa, che non impedisce al musicista partenopeo (a proposito, è anche flautista) di delimitare il live con la leggerezza (e, ogni tanto, con l’effervescenza) delle parole. Anche di quelle rovesciate con quell’impeto giovanile che - prima a poi, chissà - riuscirà a gestire con esperienza, a dosare con maggiore sicurezza. E che, soprattutto, non gli impedisce di giocare con le storie e, perchè no, con la mitologia di questo secolo (tronisti e bulli latini compresi, a cui è dedicata una canzone divertita) e con i parolieri più celebrati (l’unica cover proposta è “It’s Wonderful", di Paolo Conte). Due modi come altri per non prendersi troppo sul serio. E per colorare una notte sulla spiaggia, quella del dodici agosto, assolutamente intrigante. Buona, si sarebbe detto, per catturare le stelle e lasciar fruttare qualche desiderio. Anche se, in realtà, dal cielo non sono piovuti segnali importanti. Oppure, se sono piovuti, non ce ne siamo accorti. Il tempo, però, è transitato ugualmente. E non è transitato invano: questione di atmosfera, ci viene da pensare.

(foto Angelo Nicola Caroli)

Giovanni Block (voce, chitarre e flauto), Carlo Castellano (pianoforte e tastiera), Simone Sessa (chitarra elettrica), Pasquale Bellocaso (basso elettrico) & Ron Grieco (batteria)
Marina di Pisticci (MT), Porto degli Argonauti di Lido Macchie
Argojazz 2010

lunedì 9 agosto 2010

E, sulla strada di Lenoci, spunta Murray


Gianni Lenoci e la ricerca. La ricerca e lo studio. L’introspezione di una passione. La passione per l’improvvisazione, per le forme alternative di interpretazione: quelle un po’ meno convenzionali, un po’ più ardite. Per quel jazz di confine che si perde nei meandri della musica contemporanea e anche di quella classsica: assumendo, perché no, i contorni di una sfida. O per quel jazz di avanguardia capace, tuttavia, di recuperare le proprie radici. L’artista monopolitano, tra introspezione e approfondimento, persegue un proprio percorso musicale. Che si smista in tanti rivoli sonori. Talvolta ostici, talvolta colti, talvolta ermetici, talvolta estremi. Abbandonandosi, sempre più spesso, a progetti affascinanti e differenti. Di difficile accesso o di più semplice approccio: dipende. Mettendosi, però, al servizio del panorama musicale pugliese con idee e coraggio, sempre. Con fantasia e , forse, con un pizzico di lucida follia.
L’ultima proposta è l’incontro dal vivo tra una delle versioni della sua formazione (l’Hocus Pocus, ensemble variabile particolarmente attivo anche nei territori della didattica, questa volta asciugatosi in trio) e uno dei big dell’universo jazzistico statunitense. Cioè David Murray, sassofonista di culto e parte integrante, a pieno diritto, di quel contingente di protagonisti dell’avanguardia afroamericana: così vicini, peraltro, ai concetti fondamentali e alla formazione culturale del pianista pugliese. Ed è una proposta più prossima ai gusti popolari, sicuramente. Come, peraltro, è quasi logico attendersi da una rassegna estiva, quella dell’associazione Euterpe, ideata a stretto contatto con l’amministrazione comunale di Monopoli, e consumata nell’anfiteatro all’aperto di Cristo delle Zolle, davanti alla chiesa del piccolo borgo rurale poggiato al lato della strada che guida verso Alberobello.
L’Hocus Pocus, per l’occasione, si avvale della presenza dell’affidabilissimo Pasquale Gadaleta al contrabbasso e di Giacomo Mongelli, batterista ormai pienamente assorbito dalla progettualità lenociana, rispondendo a quei criteri di essenzialità che punteggiano il live, profondo e – allo stesso tempo – sostenibile per chiunque. Paragonato ad altre esperienze musicali del recente passato griffate Lenoci, il sound è decisamente più morbido, arricchito di tratti delicati, intriso di atmosfere e di grande equilibrio. Da ascoltare in silenzio. E, tuttavia, non difetta (malgrado l’impossibilità di collaudare più attentamente l’inedito quartetto prima del concerto) il viaggio alla riscoperta di certe influenze sonore e delle loro origini. Al di là degli schemi.
L’esibizione non è soltanto una raccolta di composizioni (alcune ben conosciute ad un pubblico più vasto, come “Honk Kong Song”) di Murray e dello stesso Lenoci, affiancate da due standard di largo successo (“Body and Soul” e “In a Sentimental Mood”): ma un tragitto di gusto solcato da fraseggi e assoli di tecnica pulita, assolutamente significanti. Il resto è nel fiato e nella facilità di esecuzione di Murray, compositore che ama la rilettura e interprete di linguaggi trasversali: quanto di meglio per coniugare le esigenze di una programmazione estiva (che, necessariamente, deve guardare ad un certo coinvolgimento emozionale di residenti e turisti) con una certa sete di qualità. Della quale, sempre più spesso, ci si dimentica. Soprattutto dietro le scrivanie di un assessorato alla cultura.

David Murray (sassofono) & Hocus Pocus Trio (Gianni Lenoci: pianoforte; Pasquale Gadaleta: contrabbasso; Giacomo Mongelli: batteria)
Cristo delle Zolle di Monopoli (BA), Anfiteatro
Estate Monopolitana 2010

giovedì 5 agosto 2010

Kapedani, pianismo balcanico dagli orizzonti vasti


Il mondo è sempre più piccolo, raccolto. E le sue impronte ritmiche sembrano riassumersi e fondersi tra le tastiere di Markelian Kapedani, trentottenne che arriva dalle tradizioni sonore di un’Albania ancora ancestrale e che, ormai, si esprime compiutamente in italiano. Pianista forbito, Kapedani: uno che possiede doti intuitive e compositive. Che miscela tecnica e orizzonti vasti. Che divaga tra spartiti, ad un primo ascolto, impegnati. Eruditi, persino. Ma che, in realtà, attinge ad un ventaglio vasto di proposte dall’animo fortemente popolare. Proposte che rielabora e che ci restituisce con eleganza. Kapedani è uno di quegli artisti che, ultimamente, attirano tanto: anche e soprattutto perché il suo è un pianismo che viene definito contemporaneo. Che entra facilmente nel cuore del pubblico e della critica: e che, quindi, diventa di tendenza. Ma il talento è cristallino. Tutte argomentazioni che non sono sfuggite a Bass Culture, ovvero la mente organizzativa del Locus Festival, la rassegna locorotondese che, solitamente, si diverte a catturare questo genere di situazioni e che, difatti, si è chiusa proprio con il solo dell’artista di Scutari, esibitosi a queste latitudini per la prima volta in assoluto. L’arte di Kapedani, ovvio, è solidamente temprata da ritmi e dinamiche di provenienza balcanica. Lì ci sono le radici, lì sgomita l’ispirazione. Lì nasce il progetto che, poi, si allarga, si completa, si corrompe. Dentro c’è l’Albania da cui non ha saputo separarsi. E dentro ci sono i suoi primi studi musicali, forgiati dal padre Djon Kapedani, scomparso un anno fa, forse l’espressione più autorevole della musica popolare del proprio Paese. E lì ci sono i timbri di una certa scuola musicale, la passione e la conoscenza per certe danze, per certe sonorità. Che sconfinano, peraltro, in Bulgaria, in Grecia. Anche in Egitto. O a Cuba.
La circumnavigazione del globo è agile. Ma l’esibizione dal vivo è sempre molto densa. Markelian ha tocco, ma anche temperamento. Le sue linee espressive si concedono, per alcuni momenti, pure alle illusioni flamenche. Anche se, poi, la strada punta nuovamente sui Balcani e alle sue tradizioni ("Ortensia" è uno standard della sua terra, non può mancare). L’esibizione, tuttavia, va seguita attentamente: del resto, una certa freddezza melodica può renderla vagamente ostica alle orecchie meno allenate. Ma la pulizia d’esecuzione non può lasciare indifferenti. Come non lasciano indifferenti la fluidità pianistica e il lavoro ricerca speso sin qui. La qualità è anche questo. E’ innanzi tutto questo. Quelli del Locus, dunque, possono pubblicizzare tutta la loro soddisfazione: anche per il livello medio del cartellone, indiscutibilmente alto. Come gli altri anni. Anzi, forse di più.


Markelian Kapedani (pianoforte)
Locorotondo (BA), piazza Convertini
Locus Festival 2010

sabato 31 luglio 2010

Locomotive, il festival che nasce tra i binari


Il Locomotive Festival nasce al tramonto e si esaurisce a notte inoltrata. E, almeno una volta, non si ferma neppure. Perché le note salutano anche l’alba che spunta, a ridosso della basilica di San Mauro, che sorveglia il borgo di Gallipoli e la sua baia. E’ una delle storie che solcano il percorso di una rassegna giovane, ma già radicata nel territorio che la ospita (il Salento) e nei gusti degli appassionati del jazz. E, magari, anche a quelli del jazz un po’ più moderno. Un po’ più estremo, verebbe da dire. Cinque anni di festival, del resto, non sono tanti. Eppure, sono già abbastanza: considerati i problemi sparsi sulla strada dell’organizzazione, le crescenti difficoltà economiche in cui versano i privati e anche gli enti pubblici e il calo di sensibilità di certe amministrazioni locali. Ostacoli oggettivi che, talvolta, colpiscono duro, facendo abbassare la saracinesca. E che, altre volte, consigliano scorciatoie meglio praticabili (un cartellone ridotto o meno pregiato). Oppure operazioni di sinergica sopravvivenza: come la delocalizzazione e l’apertura della manifestazione ad un’area comprensoriale più vasta.
Ecco, a Sogliano Cavour (che è poi la patria e il cuore pulsante, da sempre, del Locomotive) è accaduto proprio questo. Raffaele Casarano, musicista rampante e ideologo dell’iniziativa, e i suoi compagni di avventura hanno intuito la convenienza del concetto di delocalizzazione. Approdando, massicciamente, al di fuori dei confini comunali: come già accennato, sulle alture di Sannicola, ma anche nell’alto Salento di Cellino San Marco, nella marina di Salve, in agro di Cutrofiano (in questo caso, però, si tratta di una conferma: la Masseria L'Astore aveva già ospitato alcuni capitoli delle precedenti edizioni) e persino sulla linea ferrata che unisce Bari a Lecce, gestita dalle Ferrovie del Sud Est. Lasciando, peraltro, a Sogliano due serate piene. Ma il risultato si è rivelato, ancora una volta, soddisfacente, malgrado certi timori e l’indebolimento ineluttabile della proposta (accade, quando la volontà si scontra con la realtà dei costi). Una proposta che, tuttavia, si è articolata in quattordici differenti situazioni dal vivo, in un night party coordinato da Max Baccano, Alessio Bertallot e Radio Deejay, in una rappresentazione teatrale (Iancu, produzione Koreja, con Fabrizio Saccomanno), in un fashion show curato da Federico Primiceri e, infine, in un happening di pittura (la personale di Francesco Cuna).
Il più insolito dei quattordici live, tuttavia, è proprio il primo, quello del ventiquattro luglio. Insolito, perché itinerante. Scorre sui binari di un treno e parte da Bari. Destinazione finale, Lecce. La musica dei Jazz Moments di Mino Lacirignola e dei Bandita attraversa il sudest barese e la Valle d’Itria. A Locorotondo, Martina, Manduria e Nardò, poi, le due formazioni scendono e improvvisano il proprio repertorio, in stazione. Quando, cioè, la sosta aggrega. Il giorno dopo, invece, il sassofono di Javier Girotto e il bandoneon del foggiano Gianni Iorio si incontrano sùbito dopo il live per piano solo di Roberto Cipelli, mentre il 27 luglio Raffaele Casarano (al Feelgood di Cellino) presenta il suo ultimo lavoro, Argento, di cui abbiamo parlato recentemente, proprio su queste colonne. Ancora note dal vivo al Kaibo di Marina di Salve (29 luglio): in riva allo Jonio si esibiscono il Gemma Live Project, il quartetto di Francesco Pennetta e Roberto Cecchetto.
Il giorno seguente, poi, ecco l’incontro tra il sassofonista Francesco Bearzatti e il trio di Giampaolo Laurentaci (al contrabbasso), accompagnato dal romeno George Dimitriu e dall’indonesiano Elfa Zuhlam. Il concerto nasce nel buio di prove mai consumate (Bearzatti sbarca in Salento al pomeriggio, a ridosso dell’esibizione), ma cresce per la perizia dei protagonisti. A seguire, il segmento probabilmente più godibile della manifestazione. E, sicuramente, il più ironico. Gianluigi Trovesi (ai fiati) e Gianni Coscia (organetto) si divertono ad autocelebrarsi e a ironizzare sui propri spartiti che toccano le disparate strade stilistiche disseminate nell’universo del jazz. Chiude la serata, invece, il gruppo che ha accompagnato sino al ritiro dalle scene Nicola Arigliano, a cui la quinta edizione del Locomotive Festival è stata dedicato. Ovviamente, senza il crooner di Squinzano è tutta un’altra storia: anche per questo, va detto per inciso, il live non decolla e non appaga. Come non convincono quegli inediti presentati dal quartetto: in sostanza, un progetto da rivedere e correggere. L’elenco degli ospiti si ferma con il concerto-degustazione della Brown Sugar Blues Band (alla Masseria L’Astore di Cutrofiano) e con l’atto conclusivo del quartetto di Luca Aquino, trombettista beneventano insignito del Top Jazz 2009 (Lunaria, fatica discografica uscita proprio l’anno scorso, è un disco sufficientemente elettrico, che si inserisce nel filone del jazz moderno). Niente male per una rassegna che si sta abituando a combattere con le problematiche della quotidianità. Che, peraltro, non piegano l’organizzazione, né il concetto di totale gratuità delle varie proposte. Un dettaglio di cui vantarsi.


Locomotive Jazz Festival 2010
Sogliano Cavour (LE), Cutrofiano (LE), Marina di Salve (LE), Cellino San Marco (BR), Sannicola di Lecce (LE), 24.07.2010 – 31.07.2010

sabato 17 luglio 2010

Classico Carioca, con garbo


La sensibilità verso l’universo musicale brasiliano cresce. E, estate o inverno non fa differenza, si moltiplicano progetti e omaggi sulla mpb, la música popular brasileira. Praticamente ovunque. Gli appassionati (crescono anche loro) ringraziano. E i più esigenti, adesso, possono persino permettersi di soppesare, spigolare e scegliere nel mare delle opzioni. Anche queste contrade sembrano aver scoperto (definitivamente) un genere che era (e, magari, rimane) sostanzialmente e fortunatamente di nicchia. E che non profuma solo dell’abusatissima (e, forse, anche un po’ stantia) bossa: perché, sì, dietro (anzi, avanti) alla bossa c’è tutto un mondo: quarant’anni di autori importanti, spartiti eleganti, testi di impegno sociale incomparabile e accordi accattivanti. Anche se molta gente pare essersene accorta solo di recente: in tempi di globalizzazione reale, quando – probabilmente – non è più necessario che l’arte, la cultura e anche la musica debbano necessariamente passare prima per gli Stati Uniti e poi in quel che resta del pianeta.
Comunque, ormai, di Brasile e di musica brasiliana se ne occupano in molti, prima o poi. E Brindisi in Jazz Summer 2010, cartellone breve varato dal Saint Louis College of Music, che in Puglia ha sede proprio nel capoluogo adriatico, ha deciso di aprire la sua duegiorni davanti al mare con un tributo al cantautore più titolato del Paese sudamericano, Chico Buarque de Hollanda. Che, ormai, preferisce spendere i suoi giorni nella scrittura (vanta quattro romanzi di assoluto rilievo: l’ultimo, Latte Versato, è appena uscito anche da noi), più che nella musica. Ma che, talvolta, torna ad esibirsi e a comporre: un’occupazione che lo coinvolge sin dalla metà degli anni sessanta e che, in un certo periodo, gli ha pure procurato qualche problema con la censura e con la dittatura militare (un paio di anni di esilio a Roma testimoniano efficacemente). L’introspezione del mondo buarquiano al porticciolo turistico brindisino si chiama Classico Carioca ed è un lavoro condiviso dalla vocalist Susanna Stivali (tradizionalmente assai vicina alle sonorità afroamericane, gospel compreso), dalla pianista romana Stefania Tallini (che al Brasile è legata particolarmente, considerati i vincoli personali con Guinga, peraltro sistemato in platea), dal bassista Marco Siniscalco e dal batterista abruzzese Nicola Angelucci. Quattro personalità sui sentieri di un intellettuale prestato alla musica o di un musicista prestato al patrimonio sociale brasiliano: il dibattito è aperto da anni e sarà difficile decifrare la realtà.
Del quartetto (e di Brindisi in Jazz), tuttavia, piace la scelta di Buarque. Scelta non convenzionale, proprio perché oltrevarca i limiti dell’abitudine (non sappiamo quanti siano in Puglia e in Italia, ad esempio, gli omaggi – più o meno convincenti – a Jobim e a João Gilberto. Che, spesso, deludono. E che, se non deludono, finiscono (o finiranno) per stancare. Non che la produzione buarquiana sia, in quest’angolo di Europa, totalmente sconosciuta, ci mancherebbe: ma pochi, pochissimi, hanno voluto o saputo scavare e concentrarsi esclusivamente sulle composizioni (non solo quelle di impatto alto, fortemente legate al filone della canzone di protesta degli anni sessanta, settanta e ottanta e, più tardi, ad una disamina disincantata della quotidianità, ma anche quelle più morbide) dell’autore carioca. Figlio, vale ricordarlo, di una delle personalità di spicco del modernismo brasiliano (Sérgio Buarque), fratello di una delle muse della bossa (Miúcha), cognato del già citato João Gilberto, suocero di Carlinhos Brown e padre (come Geraldo Vandré, Milton Nascimento, Edu Lobo e lo stesso Caetano Veloso) di una certa forma di canzone di rottura: con il passato e non solo.
“Tem Mais Samba”, “Morena dos Olhos d’Agua”, “Quem Te Viu” (eseguita strumetalmente), Valsinha (che qui cantò Mia Martini), “Samba do Grande Amor” (ovvero il pezzo cronologicamente più recente, tra quelli scelti per il progetto): il repertorio, in fondo, non fluttua tra i testi più impegnati, ma è arrangiato con ricercatezza, cura. Unica eccezione, la geniale “Construção”, a cui la Stivali offre un’impronta affascinante. Le versioni sono rigorosamente in italiano, nel solco delle traduzioni di Sergio Bardotti (e di Fossati, nel caso di “O Que Será”, sdoganata con forti venature jazzistiche). Unico testo in portoghese, eseguito con sola voce e piano, quello di "Beatriz", scritto a quattro mani con Edu Lobo, cioè il brano più titolato del Grande Circo Místico. Complessivamente, un concerto dai tempi sintetici (quarantacinque minuti, prima dell’esibizione del trombettista Flavio Boltro, accompagnato da Giovanni Mazzarino al piano, Marco Micheli al contrabbasso e Francesco Sotgiu alla batteria), ma partorito con garbo: come sarebbe piaciuto a Chico Buarque.

Susanna Stivali (voce), Stefania Tallini (pianoforte), Marco Siniscalco (basso) & Nicola Angelucci (batteria) in “Classico Carioca”
Brindisi, Porto Turistico
Brindisi in Jazz Summer 2010

lunedì 12 luglio 2010

L'argento vivo di Casarano


Raffaele Casarano, tra le altre, possiede l’abilità di comporre. Cioè, di comporre spesso. Sempre più spesso. La sua produzione, nel tempo, si è fatta decisamente copiosa. A ventinove anni, festeggia già il terzo disco realizzato a proprio nome. Un nome già abbastanza ricorrente anche lontano dal suo Salento: per il proprio evidente talento e, perche no, anche per l’ormai collaudata partnership con l’ amico e maestro Paolo Fresu, uno dei musicisti più ricercati del momento in ambito jazzistico e, sicuramente, uno dei più richiesti dal mercato discografico e dai festival di tutta Italia e di gran parte d’Europa. Partnership, è giusto rammentarlo, gravida di occasioni importanti, come due dischi (Legend e Replay, i primi due) e la conduzione del Locomotive Festival di Sogliano Cavour, rassegna creata proprio da Casarano nella sua città (che, a proposito, tornerà proprio nella seconda metà del mese di luglio).
L’antica intesa, anzi, si fa sempre più salda: e lo dimostra proprio il terzo album del sassofonista salentino. Che per la cronaca, si chiama Argento e che è stato appena prodotto proprio da Fresu. Diventando, per la precisione, il lavoro che apre la collana dell’etichetta Tuk Music, ora ufficialmente sul mercato. «Sinceramente – rivela Raffaele Casarano – dubitavo che Paolo Fresu potesse essere profondamente interessato a questo progetto. Un progetto un po’ particolare, ricco di sonorità elettroniche, lontano da certi arrangiamenti più tradizionali. Invece, gli ho mandato il demo e gli è piaciuto. E, infine, ha deciso di metterci sopra il nuovo marchio». Sorpreso, dunque: ma felice. E orgoglioso di queste undici tracce (tutte firmate da lui) dagli accenti forti e dal vigore diffuso, in cui l’apporto dell’elettronica è assolutamente decisivo e anche le percussioni incidono abbastanza.
La prima dal vivo di Argento, uscito proprio in questi giorni (i tempi, in realtà, hanno sofferto uno slittamento, comunque complessivamente accettabile), si consuma a Cisternino, nel quadro di Itria Jazz, la (nuova) manifestazione estiva ideata e coordinata da Mino Lacirignola, trombettista fasanese ormai emigrato in Valle d’Itria da qualche anno. L’impatto sonoro è possente, talvolta ruvido, tuttavia ammorbidito dalle tonalità calde dei sassofoni del leader e dalla chitarra flamenca di Checco Leo (aprezzato l’assolo che non è parte integrante del cd, ma che in realtà sostituisce quello elettronico, improponibile nella cornice di piazza Vittorio Emanuele). Le fondamenta sono jazzistiche, ma gli arrangiamenti e le evoluzioni di ciascun brano le stravolgono. L’impronta è profondamente rockeggiante. Il ruolo di Marco Rollo, alle programmazioni, è irrinunciabile e incessante. Il percorso di Raffaele Casarano, del resto, accarezza già da un po’ timbri aggressivi: e Argento, semmai, estremizza certe tendenze degli ultimi tempi. Confermando, intanto, la personalità, la curiosità e le idee del suo autore, in costante maturazione artistica.
Il disco, sia chiaro, non segue la traccia di Replay, il titolo che lo precede cronologicamente. E’ un’altra cosa, punto. La novità, invece, alberga nella formazione. Questa volta non ci sono i Locomotive, il gruppo che storicamente accompagnava Casarano (il pianista Ettore Carucci e il batterista Alessandro Napolitano, però, intervengono rispettivamente in tre e quattro tracce dell’album). La band è totalmente made in Salento: Marco Bardoscia, al basso elettrico e al contrabbasso, è il filo rosso che collega Legend e Replay ad Argento (oltre tutto, si accolla l’ arrangiamento per archi di “Via dei Corbezzoli”). Alla chitarra elettrica c’è Salvatore Cafiero, alla tastiera il giovanissimo William Greco, alle percussioni Alessandro Monteduro. Il disco, comunque, si avvale di altre collaborazioni: quella di Giuliano Sangiorgi dei Negramaro (suo il solo di chitarra in “Trilogy”), di Valerio “Combass” Bruno, della vocalist Carla Casarano, dei Vertere String Quartet e di Daniele Di Bonaventura (il suo bandoneón è presente in quattro pezzi). Simone Borgia, infine, cura gli arrangiamenti per archi in “Trilogy” e “Binario X”, cioè il brano che apre Argento, titolo dalle origini misteriose. «Perché Argento? Non lo so – spiega Casarano -, Paolo Fresu ha scelto così». E Argento sia, allora.

Raffaele Casarano (sax alto e sax soprano), William Greco (tastiera), Checco Leo (chitarra acustica), Salvatore Cafiero (chitarra elettrica), Marco Bardoscia (basso elettrico e contrabbasso), Alessandro Monteduro (percussioni) & Marco Rollo (programmazioni) in “Argento”
Cisternino (BR), piazza Vittorio Emanuele
Itria Jazz 2010

sabato 10 luglio 2010

Tre solisti per il Locus


Locus Duemiladieci trova momenti difficili, che sono i momenti impervi di chiunque, in questi mesi affannati. Stringe i denti e sgomita, patisce come tutti, temendo persino la paralisi o, almeno, il ridimensionamento dei contributi pubblici e, quindi, del programma. Ma, alla fine, si presenta, per il sesto anno consecutivo. Sempre in un paio di piazze e all’interno della Cantina Sociale di Locorotondo, con otto situazioni dal vivo pianificate in poco meno di trenta giorni: dal dieci luglio (data del concerto inaugurale firmato dall’insolito trio formato da Paolo Fresu, Trilok Gurtu e Omar Sosa) al cinque agosto. Attraverso i quali sfileranno anche i live di Gil Scott-Heron, di Bobo Rondelli, Esperanza Spalding, dei Quiet Nights Orchestra, di Markelian Kapedani (tutti ad ingresso gratuito), dei King of Convenience e di Malika Ayane (a pagamento). Superando, peraltro, problemi supplementari e assolutamente inattesi (la recentissima scomparsa del sindaco del centro valditriano, a cui simbolicamente la rassegna è stata dedicata).
Dura, la vita. Perchè sempre più complicata è la strada della promozione musicale. Ma tant’è: e, allora, in questi casi, diventa più gradificante godere di qualche data di buona qualità, quando piove alle nostre latitudini. Come, appunto, quella che ha aperto la manifestazione, in piazza Mitrano. Al centro, tre solisti dal curriculum ormai robusto e prestigioso. Tre solisti capaci, però, di formare una squadra. Di assemblare un’esibizione credibile sino in fondo. Concerto vero, dunque: non una semplice reunion di protagonisti incociatisi per solleticare la curiosità della gente e per attirare il grande pubblico, che poi è ormai un segno distintivo del Locus Festival (anche questa volta platea gremita, malgrado una contemporanea finalina del Mondiale tra Uruguay e Germania, tra l’altro niente male). Ma un live ben assemblato, equilibrato e, soprattutto, ben arrangiato. Curato nei dettagli, non vaporoso.
A sinistra del palco, il pianista cubano Omar Sosa, quarantacinquenne eclettico, abituato a condividere progetti con personalità di primo piano (il suo ultimo lavoro discografico, Ceremony, realizzato con Jaques Morelembaum e altri sodali, è uscito da pochi mesi). Al centro, il trombettista sardo Paolo Fresu, sempre più pugliese d'adozione (da noi, si vede sempre più spesso: al Locomotive Festival di Sogliano è addirittura di casa e, al Locus, è una presenza praticamente fissa). Alla destra, Trilok Gurtu, percussionista che viene da Bombay ma che è, da sempre, cittadino del mondo e che può fregiasi delle collaborazioni intrattenute con gente come Zawinul e Metheny, custodite all’ombra di un bagaglio tecnico assolutamente raffinato. Tutti assieme, dunque, per una serata dai timbri moderni, ma ugualmente caldi. Dove anche la forma scenica (certe torsioni, certe gestualità) ha un proprio diritto di asilo.
Il progetto mescola tradizione e nuovi dialoghi, diventando una sfida amichevole tra tre talenti che sanno cercarsi e che si trovano con puntualità, per poi procedere uno al fianco dell’altro. Tra le note, c’è molto di ognuno di loro e tanto delle esperienze indiviuali di ciascuno. E c’è, ovviamente, la Cuba di Sosa, l’India di Gurtu e l’Italia di Fresu. Talvolta, il concerto assume sonorità tipicamente latine, poi si fa più intimo e introspettivo, poi si concede alle atmosfere, quindi diventa più istrionico. Altre volte, invece, le sfumature diventano più etniche e, spesso, si affacciano gli effetti dell’elettronica, ai quali – ormai – i musicisti, di qualunque provenienza (geografica e artistica), non sanno più sottrarsi. Il primo approccio con la sesta edizione di Locus, cioè, è anche sufficientemente originale: quanto di meglio si può chiedere ad un festival. Partito tra i disagi dell’incertezza. Ma partito bene.
(foto di Massimo Mantovani)

Omar Sosa (pianoforte, fender rhodes ed elettronica), Paolo Fresu (tromba, flicorno ed electronica) & Trilok Gurtu (batteria e percussioni)
Locorotondo (BA), piazza Mitrano
Locus Festival 2010

venerdì 9 luglio 2010

Cinque corde per improvvisare


Di qua e di là. Spaziando tra i ritmi, senza freni. Con una tecnica persino debordante. E, forse, anche ingombrante. Con la sua musica esuberante, voluminosa. Oltre lo steccato dello spartito, sempre. Giocando a improvvisare. E, probabilmente, pure a compiacersi. Toccando ovunque, per poi fuggire. E poi, magari, tornare. Attorcigliandosi attorno ad un tema: per entraci, corteggiarlo e, infine, per tradirlo. Per modificarne la struttura, per avvolgerlo e per abbandonarlo, battendo nuove strade. Quelle che partono dall’emozione. O dall’emotività del momento. Dal cuore, certo. Ma anche dal freddo calcolo di uno studio attento. Perché, sotto l’improvvisazione, c’è sempre una pianificazione serrata, robusta. Talvolta, maniacale. Dal cuore e dalla testa, allora. Cioè, dalla mediazione tra sensi e applicazione. Dove l’istinto forma e, alla fine, guida. Aggrappandosi, però, ad un lavoro di fondo sostanzioso e aggressivo.
Francesco Del Prete e il suo violino. Un violino francese a cinque corde, di vetroresina. Il risultato dell’addizione è Corpi d’Arco, progetto che vanta già un anno di vita, diverse esibizioni dal vivo e, ovviamente, anche un disco. E che Collepasso In Veste d’Arte, rassegna organizzata da Cantieri Ideali, ha voluto ospitare nell’atto conclusivo del suo cartellone estivo all’interno del Palazzo Baronale del piccolo centro salentino. Progetto che, giura lo stesso Del Prete, primo violino dell’orchestra della Notte della Taranta con un ricco pedigrée nell’ambito della musica popolare di Terra d’Otranto, ma ormai stabilmente affacciatosi su palcoscenici più ampi, si trasforma in ogni appuntamento live. Proprio perché, mai come in questo caso, l’improvvisazione è punto nodale e valore imprescindibile. Anzi, necessario.
«Corpi d’Arco –spiega – è un percorso nato attraverso le sfumature e i colori che un violino a cinque corde può garantire, anche in veste assolutamente alternativa. Un progetto che mi coinvolge totalmente e che si modella con una pedaliera e una loop machine, tributo all’elettronica utilissimo per costruire sul momento tonalità supplementari». I suoni, così, si moltiplicano, si sdoppiano, si incrociano, formando un tappeto sonoro variegato. «Corpi d’Arco è, al momento, la mia massima espressione musicale. Ma mi piace sottolineare l’istantaneità del percorso. In pratica, compongo sul momento. Ovviamente, nei concerti, anche per un biosogno contingente, preparo delle strutture sulle quali, successivamente, posso lavorare. Altrimenti, non basterebbe un’ora per un solo pezzo».
In realtà, nei settancinque minuti dal vivo, si alternano una decina di composizioni: da “Alta Lena” a “Girandola”, da “Arpeggio di Luna” a “Respiro Elettrico”, da “Il Cappello di Latta” (preceduto da alcuni versi di Maria Pia Romano, con la quale Del Prete ha condiviso più volte la scena) a “Rosso di Tango”, da “Un’Allegra Maitresse” (il titolo è provvisorio, non fa parte del disco) a “Di Lei”, da “La Corsa del Cavallo a Dondolo” a “Rivers in Reverse” (dove utilizza, appunto, il reverse, un effetto timbrico particolare che duplica le note al contrario). Il violino, così, è punto di riferimento, ma anche spalla di se stesso. E strumento di percussione, talvolta. Certe volte, si elettrifica. Altre, sembra frantumarsi in rivoli differenti e convergenti. Non c’è schema che lo limiti: la libertà è inseguire l’ispirazione. L’elettronica, certo, offre un contributo corposo. Decisivo, ai fini dell’ascolto. Ma le intuizioni compositive, la fantasia, le esecuzioni nette, l’elasticità e anche il coraggio scrivono intrecci sonori accattivanti. Quello che, probabilmente, il contenitore di Cantieri Ideali cercava: puntando sugli artisti del territorio. Ma, soprattutto, sulla creatività e la progettualità. Scommessa vinta.

Francesco Del Prete (violino, pedaliera e loop station) in “Corpi d’Arco”
Collepasso (LE), Palazzo Baronale,
Collepasso InVeste d’Arte

lunedì 5 luglio 2010

Penelope, profumo di Adriatico


Nuove strade, percorrendo vecchi sentieri. Centrifugando emozioni e affinità eletive, suoni e retaggi culturali. Le frontiere della musica popolare e anche quella della tradizione si sono allargate da tempo. Guardando a sud, a nord, ad ovest. E ad est: da dove provengono tonalità che si allacciano volentieri alla cultura mediterranea della Puglia. E, da tempo, la radice salentina si è ramificata oltre l’Adriatico, in luoghi dove sa nutrirsi per tornare rimodellata, arricchita. Gli Adria, per esempio, sono tra quelli che, sempre più spesso, oltrevarcano quel mare che unisce: riapprodando, infine, sulle sponde di Puglia. Scambiando con quel mondo vicino e ancora un po’ misterioso idee, sensazioni, esperienze. Claudio Prima, il suo leader, sperimenta, accosta, rischiando soluzioni anche imprevedibili: da anni. Con la sua Bandadriatica, che poi è l’evoluzione orchestrale del progetto di base, e con questa formazione di soli quattro elementi: più intima, meno invadente, più attenta alle sfumature. Il viaggio di andata e ritorno verso sponde diverse, dunque, è datato. E non si ferma mai. Adria, cioè, è l’intuizione di partenza che non si sgretola. Ma che, anzi, si fortifica. Che vanta molte situazioni dal vivo e buona fama. E che, nonostante tutto, sino a maggio scorso non si sorreggeva su alcun supporto discografico. Stranamente.
Ma il difetto - da maggio, appunto - è cancellato. Con Penelope, il primo album del consolidato quartetto salentino: che gli Adria hanno presentato nel cortile del Palazzo Baronale di Collepasso, da quelle parti chiamano più confidenzialmente castello. E che, in realtà, è una location recentemente ristrutturata, un contenitore assolutamente adatto ad ospitare le situazioni culturali che transitano. Come Collepasso InVeste d’Arte, una sei giorni approntata dall’associazione Cantieri Ideali che coniuga musica, teatro, letteratura e fotografia. Penelope, registrato alla Fabbrica dei Gesti di San Cesario, a pochi chilometri da Lecce, e supervisionato da Valerio Daniele, è quindi un disco che raccoglie parte della produzione già eseguita dal vivo in differenti occasioni. Complessivamente, undici tracce alle quali, nel corso del concerto di Collepasso, si sono affiancati altri titoli. Da "Moulinette" ad "Aujourd’hui", da "25 Trecce" (canto di matrice albanese) a “Non Ti Ho Detto” («scritto – rivela Claudio Prima – con la malinconia di chi non ha avuto il tempo di dire tutto»), da “Penelope” (è il brano che suggerisce il nome all’intera raccolta) a “Canto” («brano sviluppato in italiano, ma pensato in dialetto, dedicato alla musica popolare: nella speranza di conservarne la semplicità»), da “G24”( «quando la musica del mare si mescola al traffico dele città che si affacciano sui porti dell’Adriatico, si fa nervosa, caotica») a “Pa Llegar Hasta tu Lado” (unica cover, della messicana Lhasa De Sela). Per finire con Napoloni, un sunto delle danze che accompagnano gli interminabili matrimoni albanesi.
«Cercare la musica in Adriatico – scherza Claudio Prima – è come cercare la principessa in questo castello. Bisogna passeggiare lentamente, stanza per stanza, con passione: certi che il suo sguardo, prima o poi, premierà le fatiche della navigazione o del cammino». L’incrocio di trame musicali dove diverse identità musicali si incrociano senza scontrarsi è affidato all’organetto del suo capitano, al violoncello di Redi Hasa, arrivato in Salento da Tirana, ai sassofoni del galatinese Emanuele Coluccia e alla voce elastica e senza tempo di Maria Mazzotta, che allarga gli orizzonti, offrendo compiutezza ad un lavoro che Prima non esita a definire tritatutto. Non a caso: perché il punto nodale della questione è reinventare e reinventariare suoni e accordi, improvvisare, trascinare il patrimonio musicale di un porto verso un altro, mescolare, shekerare. Lasciandosi cullare e spalleggiare da quell’Adriatico che dà e pretende. Che tutto prende e tutto concede. E che non sta fermo mai.

Adria (Claudio Prima: organeto e voce; Maria Mazzotta: voce; Emanuele Coluccia: sassofoni; Redi Hasa: violoncello)
Collepasso (LE), Palazzo Baronale
Collepasso InVeste d’Arte

venerdì 2 luglio 2010

La prima di Bandervish


Un progetto a rimorchio dell’altro. Prima che il tempo cancelli la scia di quello precedente. Prima che ne spazzi il profumo e ne azzeri il flusso emotivo. Il disegno è giusto. Ed è quello che paga meglio. L’idea, cioè, è puntualmente premiata. Soprattutto se la musica dei Radiodervish, ormai, è materia di culto. Forse, non solo dentro i confini della Puglia: da dove il gruppo trascinato da Nabil Salameh è salpato verso un’avventura che, già da tempo, ha saputo coinvolgere l’attenzione di diversi angoli dell’intero Paese. Dettaglio che, peraltro, spiega quanto questa formazione possa persino liberarsi dalla necessità di ricorrere al marketing robusto: che, però, in tempi di poca sostanza e molta apparenza, non infastidisce affatto. Anzi, aiuta. Tanto più se i progetti si alimentano di energie nuove, come l’apporto di Teatri Abitati e, dunque, dell’ente regionale.
L’ultima scommessa di Nabil e soci (Michele Lobaccaro e Alessandro Pipino) si chiama Bandervish. Che è poi la fusione tra il nucleo storico dei Radiodervish e la Banda di Sannicandro di Bari: il cui castello – non dimentichiamolo - raccoglie da qualche stagione molte intuizioni e diversi concerti dell’ensembe italopalestinese. Bandervish, ovvero più di una trentina di musicisti su un unico palco. A condividere, come si dice in queste occasioni, esperienze e suggestioni, spartiti e arrangiamenti. Niente di straordinariamente innovativo, d’accordo: perché l’incrocio tra i sapori bandistici (e, più in generale, orchestrali) e la canzone, anche d’autore, è una manovra ultimamente ben lubrificata, che attira e rende parecchio in termini di audience. Il prodotto, tuttavia, rimane abbastanza suggestivo e questo va riconosciuto. E poi, in fondo, il bisogno di novità indirizza anche e soprattutto i sentieri della musica.
Bandervish, peraltro, è un progetto (e, ovviamente, anche un disco) che possiede anche un altro padre, il giovane (e intraprendente) Livio Minafra: figlio d’arte (di Pino), pianista, fisarmonicista, compositore e arrangiatore con la passione per la contaminazione e per la rilettura delle note già rassegnate. Un padre, in verità, assente nella prima di Putignano (era a Bolzano, impegnato in una contemporanea esibizione). E, comunque, rappresentato dal già citato Pino Minafra, uno dei due guest del live di piazza Moro (appena dopo di lui salirà sul palcoscenico pure il sassofonista Roberto Ottaviano). Guest che, per inciso, collaborano pure nella realizzazione del cd (uscito il 25 giugno), al pari di un altro sassofonista, Gaetano Partipilo. Le direttrici del concerto, essenzialmente, sono due: alcune nuove proposte e, innanzi tutto, la rielaborazione dei motivi più celebrati dei Radiodervish: privatisi, per l’occasione, degli archi. Rielaborazione che, però, non sboccia immediata. E che, invece, si arrampica con il tempo.
Il lavoro è corposo: e, da principio, i Radiodervish e la Banda di Sannicandro sembrano seguire binari paralleli, che non convergono. Che non si completano a vicenda. L’avvicinamento, cioè, è graduale. E si manifesta quando Nabil, Lobaccaro e Pipino assumono stabilmente il comando delle operazioni, dopo una ventina di minuti. Quando, per intenderci, i Radiodervish attingono compiutamente dal vecchio repertorio. Il concerto, dalla sua metà in poi, conquista forma e sostanza, equilibrio e ritmo, robustezza e impatto. Arricchendosi, anzi, di qualche venatura speziata. Magari, è vero, ci saremmo attesi qualche tirolo nuovo in più: ma il passato, certe volte, non stanca mai. E, allora, ben venga il restyling. E ben vengano le vie alternative di rivisitazione. Al di là dell’opportunità di limare ulteriormente e otttimizzare il progetto. Senza, per questo, perderne gli aromi di festa patronale in bilico tra Oriente ed Occidente, di Mediterraneo arcaico e contemporaneamente moderno.

Radiodervish (Nabil Salameh: voce; Michele Lobaccaro: chitarra e basso; Alessandro Pipino: fisarmonica e organetto) & la Banda di Sannicandro di Bari in “Bandervish” Guest Pino Minafra (tromba) e Roberto Ottaviano (sax tenore e sax soprano)

Putignano (BA), piazza Aldo Moro

venerdì 25 giugno 2010

Bari in Jazz, musica che resiste


«Bari in Jazz è al sesto anno di vita. La speranza è che la prospettiva si allunghi: i tempi, lo sappiamo, sono difficili. Ma la musica resiste agli anni». Roberto Ottaviano è un direttore artistico attento, ispirato. E conosce i problemi del percorso. Oltre tutto, vive sulla pelle propria le incertezze dell’intero movimento musicale di questo Paese. E le disillusioni quotidiane. La rassegna, comunque, si è consegnata all’appuntamento. Puntuale. Nonostante i venti sfavorevoli. Malgrado le incrostazioni che stanno corrodendo l’ingranaggio culturale in Italia. E al di là degli incidenti di percorso: «Una manifestazione arrivata alla sesta edizione – aggiunge Ottaviano – dovrebbe aver guadagnato respiro e serenità. Ma la mancanza di coraggio e di sensibilità strategica di certe istituzioni lascia perplessi. E mi fermo qui». Il riferimento, implicito, è al taglio dei contributi comunali, proprio a ridosso del festival. Tuttavia, certe volte, la presenza conta più di qualsiasi altra cosa. E ci sentiamo sollevati, solo per questo. Ma anche per la qualità delle proposte dell’anno duemiladieci: alta, come sempre. Merito della commistione di professionalità e passione. E, certo, anche delle sinergie: tra il pubblico (la Regione, la Provincia di Bari e la già citata amministrazione comunale del capoluogo) e il privato (la Peroni, partner ormai irrinunciabile). E di un coordinamento puntiglioso (l’associazione Abusuan).
Quattro giorni densi di musica (dal ventidue al venticinque giugno), sedici differenti situazioni live, cinque location diverse (il Teatro Piccinni - preferito al fotofinish al cortile del Castello Svevo per questioni puramente climatiche - , piazza del Ferrarese, l’Auditorium della Vallisa e due chiese della città vecchia), quasi cento musicisti alternatisi sui palchi: sono numeri che rassicurano. Sulla continuità dell’impegno, sulla tenuta del progetto e sulle linee che lo disegnano. «Del resto – continua Ottaviano - abbiamo sempre creduto ad una fusione tra elemento spettacolare e apprendimento critico. Puntando su una scelta musicale forse anche imprevedibile, ma oculata. E toccando, per l’occasione, una tematica particolare, quale il rapporto tra il jazz e la comunicazione. Quindi, i media». Esperimento riuscito. Con l’ormai tradizionale mixaggio tra artisti di respiro internazionale (Mirolasv Vitous, Ivan Lins, Avishai Cohen, Francesco Bearzatti, ma anche Franco Ambrosetti, Frank Wilkins e Nicolas Folmer) ed espressioni significative del territorio (Vendola, D’Ambrosio, Accardi, Casarano, Abbracciante, Signorile, Tosques, Delre, Minafra, Albanese, Bagnato, Bardoscia, Prima, Mazzotta, Coluccia, lo stesso Hasa, albanese di origine ma salentino a pieno diritto, Conte, Partipilo e l’Improbabilband dell’ateneo barese).
Bari in Jazz parte dalla Chiesa di San Giacomo, con il contrabbasso, il basso e la loop station di Giorgio Vendola, sempre più convincente per maturità e musicalità. Un’ora scarsa di composizioni orginali (“La Salita“, “La Rosticceria dei Poeti“, “Io, Sacco e Vanzetti“, “Ninna Nanna“), di improvvisazione e riarrangiamento di temi altrui e due tranche di un lavoro approntato appositamente per il teatro (una rilettura del "Cyrano de Bergerac") da Michele Santeramo e dallo stesso contrabbassista terlizzese. Sùbito dopo, nella cornice del Piccinni, Ottaviano lascia per un po’ la direzione artistica della manifestazione e riabbraccia i sassofoni, incrociandosi con Piero Leveratto (contrabbasso), Salvatore Bonafede (al piano) e il batterista Marcello Pellitteri. In quaranta minuti passa un jazz agile, melodico, accattivante, moderno, ricco di sfumature e di contenuti. A seguire, il quintetto di Avishai Cohen, quarantenne israeliano che canta e si esibisce al contrabbasso, offre “Aurora“, un concerto speziato, caldo, dai tratti morbidi, che guarda apertamente all’area mediorientale e al mondo arabo. L’ultimo capitolo della prima giornata si consuma invece sotto la pioggia di piazza del Ferrarese, dove i Funk Off (marching band che arriva dalla Toscana, nove fiati e quattro percussionisti) propongono l’anarchia organizzata del loro sound, che attinge dal jazz, dal rock, dal blues, dal soul e, ovviamente, dal funky.
La seconda tappa, quella del ventitre giugno, si apre con la performance del barese Pippo “Ark“ D’Ambrosio. Le sue percussioni etniche cercano atmosfere, sfuggendo al pericolo di mettere assieme quanti più suoni possibili. Cioè: la varietà timbrica, invece della quantità. Al Piccinni, invece, si dividono il palco il variegato settetto (quanto di meglio possa offrire, oggi, il panorama musicale pugliese under quaranta) di Fabio Accardi, che presenta l’album Arcoiris, di cui abbiamo diffusamente parlato di recente, proprio su queste colonne, e il gruppo di Ivan Lins (ne abbiamo discusso a parte). Infine, in piazza del Ferrarese, spazio all’allegra e interminabile Improbabilband capitanata da Michele Marzella e ai suoi ospiti (Gabin Dabiré, frequentatore assiduo delle nostre estati, la danzatrice Ana Estrela e Virginia Pavone).
L’Auditorium della Vallisa, giovedì ventiquattro, ospita poi la voce di Beppe Delre e la fisarmonica di Vince Abbracciante. “Different Moods” è un puzzle della canzone italiana d’autore degli anni sessanta che ingloba testi di Tenco (“Averti tra le Braccia”), Lauzi (“Il Tuo Amore”), Piero Ciampi (“Fino all’Ultimo Minuto”), Endrigo (“Canzone per Te”), Modugno (“Che Me Ne Importa a Me”) e un paio di incursioni nel repertorio di Mina (“Noi Due” e “”L’Ultima Occasione”). Il lavoro, di prossima traduzione in disco (ad ottobre), che verrà presentato nell’imminente festival di Castelfidardo, ospita anche una composizione di Richard Galliano (“Viaggio”), alla quale Beppe Delre ha affiancato un proprio testo, e piace per la cura e l’originalità degli arrangiamenti. Quindi, si torna al Piccinni con l’equilibrata esibizione del trio composto da Vito Di Modugno, dal batterista napoletano Masimo Manzi e da un’altra certezza del jazz italiano, il chitarrista Pietro Condorelli (in scaletta le tracce più significative dei due ultimi album dell’hammondista barese, Organ Trio e Organ Groove). Tra un pezzo ed un altro, anche un tributo ai Weather Report, sùbito dopo omaggiati dal concerto del contrabbassista praghese Miroslav Vitous, che di quel gruppo ha fatto parte. Con lui, sul palco, nomi importanti come il trombettista Franco Ambrosetti, il sassofonista Robert Bonisolo e il batterista Fabrizio Sferra: il risultato è un concerto corposo e potente, libero e aggressivo, talvolta esplosivo, ovviamente forgiato dall’esigenza di misturare più esperienze artistiche e una pluralità di stili musicali. In piazza, infine, la Bandadriatica organizzata da Claudio Prima ripercorre i passi del recente cd “Maremoto”, ideato tra le onde dell’Adriatico (la batteria di Ovidio Venturoso batte, i fiati sparano e la gente balla sfrenata).
Sono, invece, tre fisarmonicisti (Livio Minafra, Giorgio Albanese e Walter Bagnato) a presentare alla Vallisa il progetto che apre l’ultima delle quattro giornate e che circumnaviga il tango, anche e soprattutto di Piazzolla. Le tre suite si soffermano su composizioni largamente conosciute (“Oblivion”, “Libertango”, “La Cumparsita”, “Vuelvo al Sur” e altre ancora), ma destrutturate e ricomposte con ironia, che poi è uno dei tratti caratteristici dei lavori firmati da Minafra. Uno abituato pure a giocare, con le note. Completamente differenti, piuttosto, sono le proposte degli Spajazzy (il batterista barese Sergio Bellotti, emigrato a Boston da quindici anni, si fa accompagnare dal bassista salernitano Tino D’Agostino e dall’espressivo Frank Wilkins, all’organo e alle tastiere, in un’esibizione che mette assieme standard nordamericani e jazz italiano) e del Tinissima Quartet di Francesco Bearzatti. L’intervento del sassofonista udinese (con lui Giovanni Falzone alla tromba, il pugliese Danilo Gallo al basso e Federico Scettri alla batteria) si riassume in dieci capitoli (di cui uno, l’ultimo, realizzato elettronicamente) ricchi di suoni, evocazioni, accelerazioni, provocazioni, slanci, riferimenti e visioni interamente dedicati alla figura di Malcom X. L’opera (multimediale, grazie alle illustrazioni di Francesco Chiacchio, che scorrono durante il concerto) è stata concepita appositamente per il Parco della Musica di Roma e presto diventerà un concept album. L’ultimo atto di Bari in Jazz, tuttavia, è affidato al combo di Nicola Conte, che ospita due voci (Alice Ricciardi e Walter Ricci), una presenza inattesa (Stefania Di Pierro) e, va sottolineato, anche un Partitipilo particolarmente carico. Quindi, dopo diciotto ore complessive di accordi, assoli e scale armoniche, il sipario cala. Bari in Jazz, giura Ottaviano, tornerà il prossimo anno. «Con tanta altra musica dal vivo che possa partorire cultura. Perché la cultura è una priorità, non un accessorio».


Bari in Jazz 2010

Giorgio Vendola (contrabbasso, basso acustico e loop station)
Bari, Chiesa di San Giacomo

Roberto Ottaviano (sax tenore e sax soprano), Salvatore Bonafede (pianoforte), Piero leveratto (contrabbasso) & Marcello Pelitteri (batteria)
Bari, Teatro Piccinni

Avishai Cohen (voce e contrabbasso), Karen Malka (voce), Shai Maestro (pianoforte), Amos Hoffman (oud e chitarra) & Itamar Doari (percussioni) in “Aurora”
Bari, Teatro Piccinni

Funk Off Marching Band
Bari, piazza del Ferrarese
22.06.2010


Pippo”Ark” D’Ambrosio (percussioni)
Bari, Chiesa di San Giacomo

Fabio Accardi (batteria), Raffaele Casarano (sax soprano e sax alto), Mirko Signorile (pianoforte), Marco Pacassoni (vibrafono), Antonio Tosques (chitarra), Marco Bardoscia (contrabbasso) & Vincenzo Abbracciante (fisarmonica) in “Arcoiris”
Bari, Teatro Piccinni

Ivan Lins Quintet (Ivan Lins: voce e tastiera; André Sarbib: pianoforte e tastiera; João Moreira: tromba; Alfonso Paes: chitarre; Chris Wells: batteria)
Bari, Teatro Piccinni

Improbabilband diretta da Michele Marzella. Guest Ana Estrela (danza), Virginia Pavone (voce) e Gabin dabiré (voce)
Bari, piazza del Ferrarese
23.06.2010


Giuseppe Delre (voce) & Vince Abbracciante (fisarmonica) in “Different Moods”
Bari, Auditorium Diocesano Vallisa

Vito Di Modugno Organ Trio (Vito Di Modugno: organo Hammond; Pietro Condorelli: chitarra; Massimo Manzi: batteria)
Bari, Teatro Piccinni

Miroslav Vitous (contrabbasso), Franco Ambrosetti (tromba e flicorno), Robert Bonisolo (sax tenore) & Fabrizio Sferra (batteria) in “Remembering Weather Report”
Bari, Teatro Piccinni

Bandadriatica (Claudio Prima: voce ed organetto; Maria Mazzotta: voce; Emanuele Coluccia: sax tenore e sax soprano; Vincenzo Grasso: clarinetto e sax tenore; Andrea Perrone: tromba e flicorno; Gaetano Carrozzo: trombone; Redi Hasa: violoncello; Giuseppe Spedicato: basso; Ovidio Venturoso: batteria)
Bari, piazza del Ferrarese
24.06.2010


Tristango (Livio Minafra: fisarmonica; Giorgio Albanese: fisarmonica; Walter Bagnato: fisarmonica)
Bari, Auditorium Diocesano Vallisa

Spajazzy (Frank Wilkins: organo e tastiera; Tino D’Agostino: basso elettrico; Sergio Bellotti: batteria)
Bari, Teatro Piccinni

Tinissima Quartet (Francesco Bearzatti: sax tenore e clarinetto; Giovanni Falzone: tromba ed effetti; Danilo Gallo: basso acustico; Federico Scettri: batteria) in “Malcom X Suite”
Bari, Teatro Piccinni

Nicola Conte Jazz Combo (Nicola Conte: chitarra; Alice Ricciardi: voce; Walter Ricci: voce; Nicolas Folmer: tromba; Gaetano Partipilo: sax alto e flauto; Pietro Lussu: pianoforte; Paolo Benedettini: contrabbasso; Andrea Nunzi: batteria). Guest Stefania Di Pierro (voce)
Bari, piazza del Ferrarese
25.06.2010

mercoledì 23 giugno 2010

Lins, funky targato Rio


Qualcosa di bossa: il suo profumo e certe sue atmosfere, almeno. Perché, ormai, la bossa è coltivata per davvero solo in Europa. In Italia, soprattutto. Ma in Brasile non più. O assai meno di quanto si creda. E qualcosa (anzi, molto) di funky: verso i cui sentieri Ivan Lins si è ormai abbandonato. Del resto, il compositore di Rio continua a scrivere canzoni. E a vendere. Tutto misturato da una sensibilità fortemente carioca. Anche perché le sue parole e il suo piano insistono spesso su un tema: la sua città, appunto. Tra bossa e funky, però, quella di Lins è essenzialmente musica da ascoltare. E di ottima qualità. E’ così da quarant’anni. L’artista sudamericano, peraltro, vanta estimatori un po’ ovunque, anche al di fuori del proprio Paese. E interpreti importanti che hanno prestato la loro voce a diverse versioni dei suoi brani (ricordate la celebre “The Island” di George Benson? Bene, l’ha scritta Ivan Lins, a quattro mani con Vítor Martins, il socio di una vita. E avete presenti nomi come Sara Vaughan e Quincy Jones? Ecco, hanno condiviso esperienze con lui).
Ha sessantacinque anni, ma non li dimostra. Ed è un personaggio squisito: di antica cortesia. Disponibilissimo: sempre e comunque. Con tutti. Dalla simpatia immediata. Questione di carattere. Brasiliano vero. E carioca anche nell’animo. In Brasile è una delle istituzioni musicali. Meno cerebrale di Chico Buarque, meno impegnato di Edu Lobo, meno terragno di Milton Nascimento, meno imprevedibile di Caetano Veloso. Ma fruibile a tutti. Per quei testi semplici, immediati. E per quelle tonalità chiare, dirette. Jobiniane, ha detto e scritto qualcuno: non a caso. Il maestro, peraltro, era e resta un suo punto di riferimento. Oltre le frasi di circostanza. Anche per questo, i suoi dischi sono tra i più commercializzati, al di là dell’oceano. Meglio di lui, probabilmente, solo Ivete Sangalo, regina delle axé, e pochissimi altri. Numeri imponenti. E non da oggi. Per capirci, può esibire qualche Latin Grammy Award. E una processione di singoli dal successo cristallino. Ascoltati almeno una volta, nella vita. Magari attraverso i Manhattan Transfert. O, appunto, Benson. Oppura Ella Fitzgerald. Ma anche Elis Regina.
Bari in Jazz 2010 l’ha riportato in Puglia. Un po’ di anni dopo. Alla fine degli anni novanta, sbarcò al Teatroteam, in compagnia di Toots Thielemans: con il quale ha elaborato idee per lungo tempo. Questa volta, al Teatro Piccinni, è arrivato accompagnato solo dal suo gruppo. Anzi, dalla sua gente, come dicono da quella parte del mondo: André Sarbin (alla tastiera e al pianoforte), Alfonso Paes (alle chitarre), João Moreira (alla tromba: interessanti le sue tonalità jazzistiche) e Chris Wells (è il batterista). Offrendo un ventaglio di proposte: antiche (“Vitoriosa”, “Madalena”, “Dinorah, Dinorah”, “Começar de Novo”, “Daquilo Que Eu Sei”, “Iluminados”) e più recenti (“Velas”, “Passarela no Ar”, “Nada Sem Voce”: quest’ultima scritta con Ivano Fossati e, ovviamente, tradotta in italiano). C’è, poi, anche un tributo a Jobim, ma è un inciso veloce, ma non formale. Per la tournée italiana (due tappe al sud: Nocera Inferiore e Bari, prima di spostarsi in Norvegia) sceglie un profilo casual, anche nel confezionamento del concerto. Parla poco (in inglese) e suda molto, litigando più volte con un pedale difettoso. Gli arrangiamenti, tutti curati, concedono una veste nuova pure ai pezzi più popolari. Che arrivano sostanzialmente nella parte finale del live, riscaldando l’ambiente. L’evento richiama anche diversi brasiliani di Puglia: e non potrebbe essere diversamente. Ma anche il pubblico di casa non difetta in conoscenza specifica: conseguenza della globalizzazione mediatica, ma anche di un’avvenuta crescita della mpb nell’immaginario collettivo degli italiani. Attraverso i canali della bossa, evidentemente. Che, dopo, ha saputo convogliare la gente verso altri autori. Più o meno tradizionali. Qualche anno fa non ci avremmo scommesso. Oggi ne prendiamo atto. Con soddisfazione.

Ivan Lins Quintet (Ivan Lins: voce e tastiera; André Sarbib: pianoforte e tastiera; João Moreira: tromba; Alfonso Paes: chitarre; Chris Wells: batteria)
Bari in Jazz 2010
Bari, Teatro Piccinni

lunedì 21 giugno 2010

La vita nuova di Vincenzo Deluci


Sei anni duri (e inattesi) non si cancellano. Né si dimenticano. Ma il tempo, talvolta, non passa invano. E, se non restituisce tutto, almeno sa alleviare la sofferenza pura, le difficoltà di ogni giorno, il buio di un tunnel. Premiando il coraggio di vivere. Il coraggio di sperare: malgrado tutto. E la voglia di tornare in trincea: con la musica, nella musica. Per la musica. La voglia di esserci. Di sentirsi parte del sistema. O, più semplicemente, parte della quotidianità. Propria e altrui. Quella quotidianità che ha scolpito i giorni migliori. Quando tutto sembrava facile. Quanto tutto procedeva come doveva. Quando la musica, appunto, riempiva le ore. Tutte le ore della settimana. Quando gli spartiti erano causa ed effetto, esigenza e diversivo, passione e professione. Mistero e certezza. Sostentamento e ambizione.
Vincenzo Deluci suonava. Spesso, molto spesso. E bene. Parola di chi lo frequentava. Di chi lo conosceva. Di chi si avvicinava al suo bop duro, alle sue tonalità suggestive. Parola di spettatori attenti, di appassionati del jazz, di colleghi importanti, di critici consacrati. Componeva (anche il primo disco a proprio nome, interamente originale: La Rana dalla Bocca Larga, lavoro leggero e profondo, frizzante e intenso, delicato e itinerante) e suonava: la tromba e il flicorno. Qui e là, per le rotte di Puglia. Affacciandosi sistematicamente oltre il confine regionale. Preparando l’ingresso definitivo nel circuito nazionale: quello spazio che diluisce le agitazioni della sopravvivenza e che avvicina le gratificazioni economiche. Ma non solo quelle economiche. In attesa di un tour, davvero imminente. E di una conferma: la partecipazione, in Spagna e in Germania, a due festival di spessore. Vincenzo suonava. E pianificava: sogni e futuro. Strategie ed alleanze artistiche. Poi, lo schianto: la strada che svaniva, l’auto che volava nel fossato. Tornava da Maglie, dopo un concerto nel jazz club gestito artisticamente da Maurizio Quarta. E cercava di tornare a casa, a Fasano: era la notte del 23 ottobre del 2004.
Vincenzo si risvegliava a Brindisi, nel nosocomio del Perrino. Dopo molti giorni virtuali. Più tardi, si trasferiva in strutture meglio attrezzate. Ma la funzione delle gambe era persa. E anche quella degli arti superiori. Tetraplegico: si dice così. L’impatto con la realtà diventava violento: forse, ancora di più di quello accusato sulla superstrada. La vita cambiava. Radicalmente. E cambiavano le abitudini. Cambiava tutto. La tromba rimaneva lì, in un angolo: eppure, sempre al centro dei pensieri, nella testa. Ma senza una mano che la guidasse. La musica, a quel punto, sembrava lontana: l’ultimo dei problemi. Con una carrozzina comandata elettricamente, le priorità sono altre. Psicologicamente, però, il ragazzo resisteva, reagiva. Anche se, a trent’anni, il mondo sembrava essersi rivoltato contro. Da un momento all’altro. La famiglia, poi, gli rimaneva vicina. E anche gli amici di un tempo. Iniziava, così, la rincorsa alla normalità. La normalità che si chiama poter pranzare, bere, leggere. E studiare, magari. Vivere, ecco. Con il tempo, Vincenzo si adattava alla novità. Pensando in fretta di ricominciare. A comporre, innanzi tutto: sfruttando i progressi della tecnica e i programmi computerizzati. Buoni per rivalutare intuizioni, talento, capacità. E, infine, a suonare. La tromba. In pubblico.
Tutto vero, questa è storia. E’ la storia di Vincenzo Deluci. Ventuno giugno duemiladieci, quasi sei anni dopo: il palcoscenico è quello della Grave delle grotte di Castellana: scenario unico, senza tempo. E Vincenzo è lì, con un guanto e la sua tromba. Che poi è un trombone adattato: la coulisse sostituisce i tasti. Ma è lì: con la sua tecnica e tutta la sua vita. Davanti, c’è il suo mondo. E anche VianDante, Paradiso - Inferno A/R è un progetto suo. Tutto suo. Un progetto di note e parole. Una suite di quaranta minuti e una composizione conclusiva, innervate di emozioni e intervallate da quasi due minuti di applausi. Continui e convinti. Un progetto pregno di certezze, più che di speranze. Perché, in fondo, è di certezza che Vincenzo ha vissuto, sin qui. La certezza di tornare, un giorno, a suonare. Ad esibirsi. Combattendo a suo modo le asperità del destino. Eccolo, Vincenzo De Luci: con le sue idee, il suo sound creativo. E il suo pubblico. I versi fuori campo, invece, sono quelle registrati da Peppe Servillo, portavoce storico degli Avion Travel, artista raffinato ed eclettico. Le pagine, infine, arrivano dalla Divina Commedia dantesca e avvolgono le composizioni di Vincenzo, preparate e mixate con l’apporto dell’elettronica.
Parole e musica procedono assieme, vibranti. Eteree. Tra stalattiti e stalagmiti, sul palco che sembra sospeso al centro della terra, nella migliore location possibile, VianDante è il viaggio di Vincenzo. Verso gli abissi. E, sùbito dopo, verso la luce. Partendo dal canto terzo dell’Inferno, passando per il Purgatorio. Destinazione Paradiso. Tra note prima oscure, viscerali. E, poi, trasparenti, vaporose. VianDante, diretto da Giuliano Di Cesare, confezionato da ZonaEffe, arrichito dal supporto tecnico di Marcello Di Pace e Vincent Lounguemare, realizzato con il patrocinio delle Grotte e dell’amministrazione comunale di Castellana, tocca nell’intimo e lascia qualcosa. Forse, per la storia che galleggia dietro. Forse, per la forza della musica, che rende tutto più semplice. Anche se il braccio che sorregge la tromba è quello sinistro: l’unico che si permette ancora qualche movimento. Anzi, anche per questo particolare, forse. Ma, sicuramente, perché VianDante è la sintesi di un ritorno in superficie, di una battaglia ardita, di una lotta ostinata. E simbolo di risveglio. E perché, in fondo, è una vittoria. La vittoria di Vincenzo. Godiamocela tutti.

Vincenzo Deluci (tromba ed elettronica) in "VianDante Paradiso-Inferno A/R"
voce narrante fuori campo di Peppe Servillo
Castellana Grotte (BA),
Grave delle Grotte

domenica 20 giugno 2010

Alberobello, il ritorno del jazz


Prima Daniele Di Bonaventura: il suo bandoneón intimo e delicato, i colori morbidi della sua musica e il suo gruppo (Marcello Peghin alla chitarra, Felice Del Gaudio al contrabbasso e Alfredo Laviano alle percussioni: cioè, Band’Union, ovvero un tributo allo strumento e alle sue origini tedesche, alla sua storia nell’universo musicale, ma anche un omaggio a se stesso e al suo percorso artistico, che sempre più spesso lo dirotta in Puglia). Senza che il tango si appropri del palcoscenico, però: del resto, l’artista abruzzese si lascia sedurre dalle proprie composizioni, libere – perché no - di spaziare anche per i sentieri della canzone popolare. Quindi, il giorno dopo, Camillo Pace (contrabbasso) e Connie Valentini (voce), asssistiti da Nico Masciullo (percussioni) e Antonio Lorè (tromba), tutti divorati dalla nostalgia di un Bob Marley rivisitato in chiave jazzistica, dove canto, istinti, slanci e melodia finiscono per essere centrifugati in un progetto intrigante, originale, caldo e solidamente collaudato da oltre due anni di live. E, peraltro, celebrato in Uhuru Wetu (“La Nostra Vita”, nella lingua dei nativi del Kenia), un disco di imminente pubblicazione (con l’etichetta di Roy Paci?), ma già realizzato. E dedicato all’Africa, terra a cui il contrabbassista martinese è visceralmente legato, sotto il profilo artistico, ma anche sotto quello puramente emozionale.. Infine, il nuovo incontro con le note di Javier Girotto, uno che scende spesso a queste latitudini, ma che non stanca mai. Anche se ripropone un lavoro ormai conosciuto come Nahuel, avvalendosi della complicità del quartetto d’archi più versatile di queste contrade, il Vertere di Amatulli e Paglionico (violini), Buccarella (violoncello) e Mastro (viola). Aggirandosi nei meandri dei ritmi più tradizionali della sua terra, l’Argentina, tra suite e consuete finezze stilistiche.
Tre appuntamenti, due giorni, una rassegna. Una rassegna ritrovata, anzi. L’Alberobello Jazz Festival risorge quasi all’improvviso, dopo due stagioni di silenzio. Rispolverato (di più: caldeggiato) dalla locale aministrazione comunale, che lo inserisce nel cartellone estivo. Affiancandolo, così, ad un contenitore di largo gradimento come Experimenta (l’idea di Gianluigi Trevisi funziona sempre, anno dopo anno), oppure al più casereccio Festival Folklorico Internazionale “Città dei Trulli”, diventato appuntamento praticamente irrinunciabile, per gli appassionati del settore. Niente male, se pensiamo che altrove (e non troppo lontano) la politica locale dimentica o penalizza i progetti musicali (a Locorotondo è scomparso l’Antiphonae Jazz Festival, a Ceglie è saltato l’Open Jazz Festival: ma non si tratta di casi unici, purtroppo. E la recessione ecomomica non spiega tutto). «Questa volta è accaduto il contrario»: Barbara Cupertino, che con Alberto Maiale ha curato la duegiorni, non nasconde una certa soddisfazione di fondo. «Questa volta è stato l’ente pubblico a proporre al Circolo Arcitrullo di riannodare il filo del discorso interrotto. Riconoscendo, evidentemente, la validità del lavoro svolto in precedenza. E incaricandosi di coprire, con il sostegno di alcuni sponsor, il costo dell’operazione. Un costo contenuto, per la verità: anche perché l’Alberobello Jazz Festival, pur vantando la partecipazione di diversi artisti di respiro nazionale e internazionale, da sempre, non ha mai voluto tradire la filosofia che lo sorregge. Questa rassegna, cioè, è soprattutto una vetrina per gli artisti di casa nostra. Per quanti hanno voluto e vogliono confrontarsi con le idee e le personalità che arrivano da fuori regione. Per quanti provano a crescere, apportando il proprio contributo all’evoluzione della musica sul territorio». Ma è pure bello sapere che la gente ha ancora fame di progetti. Nonostante tutto. Spaventata, magari, dalla sensazione di poter perdere progressivamente gran parte degli appuntamenti live. Che, da un po’ di anni, sembravano aver caratterizzato le estati pugliesi. E che certi venti rischiano di spazzare definitivamente. Ed è bello apprezzare la risposta del pubblico, accorso compatto nel piazzale antistante il Trullo Sovrano, antica location della manifestazione. Malgrado la concomitanza dei Mondiali di calcio, peraltro mosci e deludenti, senza appeal. «I conti si faranno con calma», certifica la Cupertino. «Ma non possiamo lamentarci: l’Alberobello Jazz Festival è tornato, ritrovando la sua platea. E lanciando un’altra proposta, quella dei concerti-aperitivo, una sessione mattutina che ha coinvolto gli studenti del Conservatorio». In altre parole, il futuro. Il futuro della musica che si para di fronte, inseguendo le tracce del passato. A volte, succede qualcosa. E si recupera un po’ del tempo perduto. Ad Alberobello qualcuno ha capito: chissà che capire non diventi una malattia sana e contagiosa. Un po’ ovunque. Ne avremmo bisogno, in questa terra che attende fermento, lavoro e pure turismo. Dimenticando spesso di incoraggiarli.

Alberobello Jazz Festival 2010
piazza Sacramento (Trullo Sovrano)

Band'Union (Daniele Di Bonaventura: bandoneón; Marcello Peghin: chitarra dieci corde; Felice Del Gaudio: contrabbasso; Alfredo Laviano: percussioni)
19.06.2010

Connie Valentini (voce) & Camillo Pace (contrabbasso) in "Uhuru Wetu"
guest Nico Masciullo (percussioni) e Antonio Lorè (tromba)

Javier Girotto (fiati) & Vertere String Quartet (Giuseppe Amatulli: violino; Rita Paglionico: violino; Giovanna Buccarella: violoncello; Domenico Mastro: viola) in "Nahuel"
20.06.2010