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martedì 6 agosto 2013

Il pericolo dell'omogeneizzazione

Ci avventuriamo in un argomento delicato, sfiorando l'impopolarità. Lo sappiamo bene. E rischiando di calpestare le certezze di tanti, di intralciare certe convinzioni che si arrampicano veloci, di indispettire una corrente di pensiero, secondo cui suonare e fare musica è la stessa materia, di inimicarci qualche manager dello spettacolo globale, di offendere le pur sempre meritorie operazioni di quanti organizzano eventi dal vivo, di pungere quanti preferiscono accontentarsi o, più semplicemente, chi è disposto ad applaudire sempre tutto, perchè tutto va bene. Purchè la piazza sia animata e purchè un concerto sia la colonna sonora della serata, in sottofondo, tra un drink e lo struscio. Scendiamo su un terreno sdrucciolo, di questo siamo perfettamente convinti. E confidiamo di non essere fraintesi troppo. Consapevoli di una realtà che ci inquieta non poco: il movimento musicale si sta concedendo, sempre più spesso e sempre più chiaramente, ad una massificazione preoccupante. Spettacolarizzazione, infiacchimento della progettualità, commistione selvaggia: in sintesi, la questione è qui. Dove la logica è costretta dall'urgenza, dalla necessità incontrollata di dover offrire, a qualunque costo, la novità e la diversificazione della proposta. Anche quando non è il caso e non sussistono i presupposti. Ci sembra davvero di assistere impotenti ad una rincorsa affrettata verso la nazionalpopolarizzazione. Che non miete vittime solo nella musica leggera o nel pop, come una volta. Ma che, invece, si sta impossessando pure di altre aree geografiche della musica. Come il jazz, ad esempio. Prendiamo quest'estate un po' affaticata. E soffermiamoci su un paio di rassegne di richiamo: il Locus Festival di Locorotondo e Pjazza Palmieri a Monopoli. Ben organizzate e gratificate dalla presenza di pubblico. Nonchè meritoriamente alimentate da nomi e cognomi artisticamente pesanti. E, particolare da non dimenticare, completamente gratuite: grazie, anche e soprattutto, al sostegno concreto dell'amministrazione pubblica. Due pilastri della programmazione di luglio ed agosto dell'area più centrale della Puglia. A cui, al di là di ogni analisi, spettano il consenso e la gratitudine della gente e degli addetti ai lavori: oggi, più di ieri, è tremendamente arduo proporre qualcosa e questo non lo dimentichiamo. Tanto per essere chiari. Sia il Locus che Pjazza Palmieri, per entrare nello specifico, ad un giorno di distanza l'uno dall'altro, regalano due differenti tributi alla genialità di Chet Baker, del quale ricorre il venticinquesimo anno dalla tragica scomparsa. A Locorotondo, il cantautore (e chitarrista) Joe Barbieri si allea con la tromba del beneventano Luca Aquino, una delle figure emergenti del jazz italiano di impronta più moderna, e con il calibrato pianoforte di Antonio Fresa. Ventiquattr'ore dopo, a Monopoli, l'attore Enzo De Caro, vecchio compagno di avventura di Massimo Troisi e Lello Arena, coinvolge in un reading-concerto il chitarrista napoletano Antonio Onorato, il contrabbassista Domenico Adria, il batterista Mario De Paola e il pianista Piero De Asmundis. L'idea (condivisa) è assolutamente apprezzabile. Il tema è stimolante. E il materiale non manca. Eppure, è proprio dentro i progetti che qualcosa non ci convince. La sensazione è che si voglia stanare e conseguire il consenso facile. Sino a tradire il concetto di tributo e il jazz stesso.
Dunque: Joe Barbieri è bravo. E lo dimostra anche sul palco. E' un cantautore elegante, dai toni confidenziali. Chitarra e voce, da soli, fanno persino charme. Del suo mondo, quella della canzone, conosce i tempi e le dinamiche. Ma le dinamiche, i tempi e i colori del jazz sono diversi. Il progetto, fondamentalmente, è suo. E lo modella attorno alle proprie esigenze. Finendo, così, per costringere in un angolo la tromba di Aquino: che, invece, dovrebbe essere il punto nevralgico dell'esibizione (e chi conosce la storia di Chet, non si chiederà neppure il perchè). Quella stessa tromba che, infatti, lievita appena Barbieri si assenta per pochi minuti. Il live, tecnicamente parlando, è ben suonato: ma rimane piatto, un po' floscio. E non decolla mai del tutto. Dall'altra parte, il reading di De Caro, che saccheggia alcune pagine scritte dallo stesso Baker, dopo aver riportato un intervento di Paolo Fresu, requisisce gran parte dello spazio, lasciando al trio molto accompagnamento e qualche angolo di luce (e ci può persino stare, considerate le premesse). Musicalmente parlando, da diverse angolazioni, questo concerto sembra più convincente del precedente. Manca, però, proprio la tromba: che la breath-guitar (il cui suono ricorda vagamente quello dello strumento a fiato) di Onorato non può surrogare impunemente. Malgrado lo stesso progetto nasca dichiaratamente con questi ingredienti: perchè, racconta lo stesso De Caro, nessun trombettista ha voluto azzardare il paragone con Chet. Difficile, allora, capacitarsi di questa irrefrenabile impellenza di tributare Baker: pur senza possedere i requisiti essenziali.
Due esempi tra le decine che ci vengono in mente. Gli ultimi, in ordine cronologico, a queste latitudini. Ma nessun protocollo d'accusa. Soltanto, un elemento di riflessione in più. Perchè, in tempi in cui gli inviti musicali promettono tanto e, di contro, si perdono nel gran mare della categoria dei riempitivi, sarebbe bene cominciare a interrogarsi. E a selezionare. Non è, del resto, la capillare fruibilità della musica che potrà salvare il movimento musicale: i più distratti passano, mordono e fuggono. Senza lasciare traccia. E senza che la musica lasci qualcosa a loro. E non è l'omogeneizzazione culturale la risposta alla crisi: quella, anzi, arreca solo danni. E non solo alla musica.

sabato 3 agosto 2013

Experimenta, sei set tra stili e tendenze

Experimenta, per la natura del progetto stesso e per tradizione, ma anche per convinzione, esplora, sonda. E, molto spesso, naviga oltre la musica di maggior consumo, varcando i recinti delle note più scontate. Muovendosi tra stili e tendenze, senza ingabbiarsi tra le etichette. Percorrendo l'arte delle sette note (o dodici, fate voi) da un punto cardinale all'altro. E preoccupandosi di sposare la ricerca di nuovi aromi con una base artistica qualitativamente solida, i profili squisitamenti musicali di ogni singola performance con la sete di spettacolo che tanto - più della musica nuda - attira e coinvolge il pubblico. Soprattutto quello che circola nelle sere d'estate. La rassegna, ormai storica, di Gianluigi Trevisi non promette di stupire: ma, questo sì, cerca continuamente nuovi percorsi. O, quanto meno, variazioni sul tema. Riuscendoci, generalmente. Accostando a determinate scelte, talvolta, anche qualche buon nome della scena nazionale e internazionale: che viene dal jazz o dalla world music, dall'etnica o dalla popolare, dal pop o dal rock. E offrendo puntualmente, anno dopo anno (sono quindici, contandoli dall'inizio del viaggio), un prodotto credibile e sufficientemente genuino, molte volte intrigante, saporito per diversi palati. Al di là delle piazze o delle amministrazioni locali che ospitano la manifestazione, sbocciata ad Alberobello (e lì cullata per tredici stagioni) e, quindi, trasferita lo scorso anno a Polignano.
Experimenta, anche nel duemilatredici, non delude. Consegnando sei differenti situazioni musicali in tre giorni, tutte rigorosamente condizionate dall'originalità. Prima tocca alle sonorità popolari dei Rondeau de Fauvel, tre donne (voce, liuto ed arpa) e due uomini (piva, batteria e basso elettrico) che attingono parecchio dal repertorio tradizonale celtico, ma anche e soprattutto da quello medievale, rivisitati con l'apporto di strumenti più vicini ai giorni nostri e dell'elettronica, che si fa penetrante solo in prossimità della conclusione del live. Il gruppo, non tragga in inganno il nome, arriva da Vicenza e trascina con sè una miscela di suoni già concettualmente sperimentata da altri, in passato, ma equilibrata e facilmente sostenibile. Più rustico e di maggiore impatto, anche visivo (i protagonisti sono balticamente piazzati e si muovono molto, pure bruscamente), è il secondo set della prima serata, affidato alle cinque cornamuse, ai due tamburi, alla batteria etnica e ad un parente del contrabbasso degli Auli, formazione che arriva dalla Lettonia proponendo canti, danze e rituali di quelle terre, ma anche composizioni contemporanee riarrangiate. Energia a parte, colpisce l'amalgama cromatico degli strumenti portanti, cioè le cornamuse, versatili e plastiche.
Al secondo appuntamento si gira pagina. Ecco, allora, un progetto in esclusiva nazionale, quello degli Amine & Hamza Trio, due fratelli tunisini (all'oud e al qanun) e uno svizzero (al violino). Le tonalità terragne del Mahgreb si muovono, anche in questo caso, attraverso diverse composizioni contemporanee, ricche di timbri, ma assistite da una forte impronta della tradizione (e l'oud e il qanun, in questo, aiutano non poco) e dall'influenza di altre culture musicali mediterranee. A seguire, poi, il quartetto dell'emergente contrabbassista romana Caterina Palazzi, trentunenne con un passato remoto rockeggiante (con lei, sul palco, Maurizio Chiavaro alla batteria, Piero Delle Monache al sassofono e Giacomo Ancillotto alla chitarra elettrica). Il jazz dell'ensemble è fortemente venato di rock, che entra ed esce dagli spartiti, e spesso spruzzato di elettronica. Gli incipit, solitamente invasivi, precedono stati di tranquillità assoluta. Ad ogni accelerazione, corrisponde la stasi totale e il repertorio alterna tinte forti a sonorità più soft. Sudoku Killer, il disco recentemente licenziato dal gruppo, poggia le fondamenta, del resto, sugli enigmi matematici giapponesi e sulla reazione del cervello umano di fronte ad ognuno di essi.
La terza ed ultima serata, infine, è un'altra storia ancora. Anzi, due. Quello dei Cinedelika è un progetto interamente dedicato alle colonne sonore (di Morricone, Rota, Umiliani, Dalla, Piccioni, Carlos, Micalizzi e altri), un percorso ultimamente battuto da diverse formazioni italiane. Il quartetto abruzzese (Matteo Di Battista alle chitarre, Fabio D'Onofrio alle tastiere, Michelangelo Brandimarte al contrabbasso e Luca Di Battista alle percussioni) seleziona e riarrangia brani di successo, sconfinando in diverse correnti musicali. Mentre, dal proiettore, sgorga un montaggio di diversi fotogrammi. Infine, tre attori (Giorgio Tirabassi, il barese Paolo Sassanelli e Luciano Scarpa) si scoprono musicisti e, rispettivamente, imbracciano chitarra solista, chitarra ritmica e contrabbasso, facendosi accompagnare da Luca Giacomelli (altra chitarra solista) e Alessandro Golino (al violino). Ne esce un divertito e anche ironico omaggio a Django Rinhardt e alle sonorità manouche, ma anche una produzione leggera e, al contempo, impegnata. Che, di fatto, suggella la predisposizone di Experimenta ad abbracciare le anime diverse della musica del Duemila. Quell'epoca in cui, lo ripetiamo ancora una volta, non esiste più niente da inventare. Ma dove, però, c'è ancora spazio per guardare ed ascoltare da angolature sempre differenti.

01/02/03.08.2013
Polignano a Mare (BA), Piazza San Benedetto
Experimenta 2013

mercoledì 31 luglio 2013

Note tra i fotogrammi

Note tra i fotogrammi. Perchè, questa volta, si parte da un film. Just Friends, per essere precisi. Pellicola del millenovecentonovantatre, girato e prodotto in Belgio e ambientato ad Anversa, sulla scena jazzistica di fine anni cinquanta. Doppiato in italiano ed arivato anche a queste latitudini, persino gratificato da un festival di prestigio, ma scomparso dal mercato cinematografico e dimenticato presto. Adesso praticamente introvabile, eppure gelosamente custodito da Mike Zonno, contrabbassista e, diremmo anche, nuovo mecenate della musica fatta in Puglia, nonchè ideatore di Jazz al Cinema, contenitore estivo - al secondo anno di programmazione - ospitato all'arena del Multisala Vignola di Polignano. Ecco, appunto, Jazz al Cinema: cioè, un progetto interessante, discretamente originale, anche stimolante. E, supponiamo, pure di prospettiva. In quanto, attorno alle pellicole più o meno celebrate, decorate o sconosciute, italiane o di importazione, si potrebbe persino cominciare a rifletterci concretamente sopra, provando a costruire attorno qualche progetto ben strutturato che possa aprire nuovi spazi per i musicisti di casa nostra, sempre più spesso preoccupati di esplorare strade nuove e di attirare l'attenziuone del pubblico. Magari, è un'idea come un'altra, destrutturando e riarrangiando (e non solo replicando o contestualizzando) vecchie e nuove colonne sonore, antiche e recenti musiche da film.
Il primo passo, intanto, è fatto. Anzi, il secondo. Perchè, già lo scorso anno, la rassegna ottenne ottimo riscontro, overo una platea affollata. Malgrado il biglietto da pagare. E anche l'edizione duemilatredici, dislocata in tre diversi mercoledì di luglio, non ha affatto deluso, da questo punto di vista. «Un particolare - confessa Michele Zonno - che mi rende orgoglioso. E' difficile realizzare manifestazioni come queste, presentate nello stesso periodo in cui, anche a pochissimi chilometri da Polignano, il jazz è somministrato gratuitamente». Dunque, tre appuntamenti: il primo affidato alle tonalità psichedeliche e vintage dei Bumps (Antonio Di Lorenzo alla batteria e alle percussioni, Davide Penta ai bassi e Vince Abbracciante alle tastiere e alla fisarmonica), raggiunti sul palco dal sassofono di Fabrizio Scarafile (in scaletta, la rielaborazione della colonna sonora del bertolucciano Ultimo Tango a Parigi, firmata Gato Barbieri). Il secondo al gruppo guidato dal trombettista Mino Lacirignola e dallo stesso Zonno (Villy Calabrese al piano, Max Monno alla chitarra, Beppe Brizzi alla batteria, più la voce di Luciana Scotti), misuratisi attorno alla figura di Louis Armstrong. E il terzo ad un quintetto assolutamente inedito: Felice Mezzina al sassofono, Nico Marziliano al piano, Vito Di Modugno al basso (talvolta, l'hammondista barese torna allo strumento di un tempo), Mimmo Campanale alla batteria e Serena Brancale, voce giovane ormai sbarcata nell'universo del cantautorato (è il suo momento, che immaginiamo sfrutterà bene: le credenziali ci sono tutte).
Quintetto inedito, certo, ma ben calibrato. Appoggiatosi sull'esperienza della ritmica, sugli assoli di Mezzina, sugli arrangiamenti di Marziliano e sulla freschezza e la facilità di interpretazione di una vocalist che arriva dal blues e dal soul. Just Friends, ovviamente, è un progetto che si nutre degli spartiti inseriti nell'omonimo film diretto da Marc-Henri Wajnberg: due composizioni originali del belga Michel Herr ("Bass Boom" e "Song for Lucy", una ballad trascritta da Nico Marziliano) e diversi standard (tra cui "Perdido" di Juan Tizol, "You Go to My Head" di Fred Coots, "Bésame Mucho" di Consuelo Velásquez e "Just Friends" di John Klenner, una delle storiche incisioni del sassofonista nordamericano Archie Shepp, a cui è sottodedicato, in definitiva, il live). Anche i classici (e i superclassici), però, sono trattati con personalità e sobrietà creativa, senza banalità sonore. Diventando versioni delicate, ma intense. Ed estrapolate da una pellicola divertente in cui Shepp, artista di punta dell'avanguardia jazzistica, ha voluto rendere omaggio ai padri della tradizione musicale statunitense. Giusto per ricordare da dove il jazz arriva. E prima di sapere dove ci porterà.

Felice Mezzina (sassofono), Nico Marziliano (piano), Vito Di Modugno (basso), Mimmo Campanale (batteria) & Serena Brancale (voce) in "Just Friend"
Polignano a Mare (BA), Arena del Multisala Vignola
Jazz al Cinema 2013

(foto Rosaria Zonno)

giovedì 18 aprile 2013

Improvvisando con Evan

Gianni Lenoci è docente e compositore di frontiera, se ci passate il termine. Frontiera tra sperimentazione e creazione, tra ricerca e panorami arditi, ecco. E' coraggioso e anche tenace, il pianista monopolitano: nel perseguire la propria strada. E nel difendere le proprie scelte artistiche. E non ama troppo la musica scontata: quella, cioè, già ascoltata e riascoltata. E, magari, appena riletta, riconfezionata. Ha scelto un percorso diverso, tempo fa. Unendo la passione allo studio, la lettura un po' visionaria all'insegnamento, l'improvvisazione allo spirito indomabile del free jazz. Frullando tutto e scommettendo ciecamente sull'utilità (e sul mistero intrigante) dei laboratori musicali: che dettano i tempi della sua agenda, ne influenzano la quotidianità e che, soprattutto, si lasciano attrarre dall'avida curiosità del musicista impavido.
«Improvvisando, l'artista si presenta com'è. E' nudo. E può appoggiarsi esclusivamente su se stesso, sulle proprie qualità, sulla propria sensibilità, su quello che possiede dentro». Parole calcolate, ma pesanti. Spese per raccontare la sua musica, ma anche e soprattutto per parlare della propria esperienza. Il palcoscenico è quello delle tre serate modellate attorno al sassofono di Evan Parker, sessantanovenne inglese di Bristol a cui è legato lo sviluppo del free europeo, assemblate nel Chiostro delle Clarisse di Noci, sotto il controllo di una joint venture composta dalla locale amministrazione comunale, da Massimo Felici (un musicista di estrazione classica avvicinatosi progressivamente a questo tipo di spartiti e presidente dell'Associazione Euterpe), dallo stesso Lenoci e dal nocese Vittorino Curci, strana figura di musico, poeta e politico a cui è legato il ricordo - particolarmente nostalgico - dell'Europa Jazz Festival, eclissatosi troppo presto e da ormai troppi anni.
Evan Parker, certo, è il front man di un'operazione che si colloca apertamente al di fuori degli schemi più collaudati. E attorno a lui si articola l'intero cartellone. La prima sera, ad esempio, si propone da solo, per tre quarti d'ora («Con uno strumento monodico come il sassofono - sottolinea Lenoci -. Eppure, regalando ugualmente una gran quantità di note»). Il giorno successivo, invece, si fa raggiungere dal pianoforte di Lenoci. E successivamente, in un teorico secondo set, da un altro sassofono (quello di Vittorino Curci) e dalle percussioni di Marcello Magliocchi («Gente - aggiunge il responsabile della cattedra jazzistica del Conservatorio di Monopoli - con cui condivido progetti e coopero da oltre vent'anni»). Quindi, nell'appuntamento conclusivo, il gruppo si allarga, diventando un settetto, grazie all'inserimento del chitarrista Pablo Montagne, del contrabbassista Pasquale Gadaleta e di un terzo fiato, Vittorio Gallo («Miei allievi - precisa Lenoci - da sempre direttamente coinvolti nei miei progetti musicali»). Listen to Evan è assieme tributo e officina edificata sul campo. E dietro, ovviamente, insiste un lavoro sinergico, profondo. «Improvvisare, da solo, significa confrontarsi direttamente con le note, senza poter bluffare. In una situazione di quartetto, però, l'improvvisazione esige un potente interplay tra i protagonisti. Mentre quella del settetto è una vera e propria sfida. Ma, al di là di tutto, ritengo che, per un musicista, l'improvvisazione sia assolutamente stimolante, oltre che un sintomo di innovazione. Soprattutto in un momento storico come questo: in cui tanta musica è la replica di se stessa». E in cui, evidentemente, c'è ancora qualcuno che non si rassegna all'omogeneizzazione della musica. Sognando, magari, la riscoperta di quell'Europa Jazz Festival che, proprio a Noci, ha dato voce anche e soprattutto a certe angolature jazzistiche. E chissà se Listen to Evan non rappresenti, da questo punto di vista, un segnale concreto.

Evan Parker (sassofono)
15.04.2013

Evan Parker (sassofono), Vittorino Curci (sassofono), Gianni Lenoci (pianoforte ed effetti) & Marcello Magliocchi (batteria e percussioni)
16.04.2013

Evan Parker (sassofono) & Il Tempo Sospeso (Vittorino Curci: sassofono; Vittorio Gallo: fiati; Gianni Lenoci: pianoforte ed effetti; Pablo Montagne: chitarra elettrica; Pasquale Gadaleta: contrabbasso; Marcello Magliocchi: batteria e percussioni)
17.04.2013

Noci (BA), Chiostro delle Clarisse
Listen to Evan

giovedì 14 febbraio 2013

Blue from Heaven, musica da sognare

«C'è musica che fa godere, musica che fa ballare e c'è musica che fa sognare. E, d'altra parte, la caratteristica di far chiudere gli occhi all'ascoltatore e di consentirgli di andare altrove con la mente, di fargli vivere persino vite mai vissute, trasferendolo in mondi lontani dal qui e ora, è una delle tante funzioni della musica». Pierluigi Balducci è autore attento ai particolari, ai dettagli. Interpreta (e scrive) note non convenzionali, puntando sulle suggestioni. Consapevole com'è che l'ascolto è cosa seria. E non solo un argomento commerciale. Possiede, poi un background solido. E solidi principi: anche al di fuori dell'universo delle sette note. Non gli manca neppure il vocabolario per esprimersi. E, anche al primo incontro, vicino o lontano dal palcoscenico, offre l'impressione di quello che, in realtà, è: un musicista che guarda anche oltre il proprio orizzonte, oltre la musica.
Blue from Heaven è il suo secondo disco da leader. Pubblicato dall'etichetta leccese Dodicilune, circola dal trenta novembre e riunisce otto situazioni: tutte originali, fatta eccezione per "Unrequired" di Brad Meldhau e "Our Spanish Love Song" di Charlie Haden. «Completando la composizione dei brani, mi rendevo conto che il lavoro, con il quartetto assemblato, avrebbe avuto una cifra molto visionaria e evocativa. Per questo ho scelto come titolo dell'intero album quello di una singola traccia, "Blue from Heaven", che da solo esprime meglio questa caratteristica del disco. Il che, ovviamente, non significa che manchi la componente ritmica». Il bassista pugliese (coratino, per essere precisi) si era peraltro affezionato al tango, ultimamente. Anzi, al nuovo tango: condiviso con un gruppo ormai ben definito che si nutre di una propria storia, di un proprio percorso e di collaborazioni pregiate. Ma non si è mai dimenticato delle sonorità più jazzistiche, con cui si è formato, si è evoluto e ha convissuto a lungo.
«Questo disco nasce per una formazione più consueta, più standard: la presenza di batteria, sax soprano e piano dà al quartetto una connotazione più canonica, rispetto alle mie precedenti formazioni, da considerare più cameristiche, prive di batteria e supportate da strumenti poco frequenti nel jazz, quali la fisarmonica e il violino. Nello stesso tempo, era mio desiderio misurarmi, all'insegna della continuità, con il mio consueto approccio compositivo, che da sempre privilegia un equilibrio più europeo tra scrittura e improvvisazione e che mi porta spesso a concepire composizioni di ampio respiro, nelle quali gli spazi scritti e o arrangiati e le sezioni improvvisate abbiano pari dignità e si asservano entrambe alla composizione. Potrei dire che in Blue from Heaven ho avuto modo di applicare ad un organico molto più tradizionale la mia idea della composizione jazz, sperimentata a lungo su organici atipici. E sono soddisfatto del risultato. Risultato che non sarebbe ovviamente mai arrivato, se non avessi avuto il supporto, concreto e morale, della Dodicilune e del progetto Puglia Sounds, che ha contribuito in parte alla promozione del cd».
Visionario, sì. Ma anche di largo respiro. Blue from Heaven prova ad accostare le atmosfere andaluse di "The Light of Seville" a quelle ormai lontane di "Fin de Siècle" e a quelle più romantiche di "The Sky over Skye". Mentre "L'Equilibrista", in un certo modo preceduta dalle note di "Introduction", è una ballad ben riuscita. E "Life in Three Sketches" è, come dice il titolo stesso, una composizione che si divide in tre diversi momenti tematici. Tracce in cui i suoi compagni di spartito offrono un contributo denso, decisivo. «Ho voluto coinvolgere nel quartetto - spiega Balducci - due musicisti che hanno avuto una grande influenza sulla mia formazione e che ho sempre considerato dei maestri indiscussi. Il fatto che la cosa sia andata in porto e che, tra pochi mesi, porterò la stessa formazione in concerto, costituisce per me un'immensa gratificazione».
I nomi, del resto, sottintendono un curriculum niente male. «Paul McCandless, storico co-leader degli Oregon che, da giovane, ho divorato, ha un approccio armonico all'improvvisazione molto simile al mio, un'eleganza timbrica come pochi e una cantabilità che nasce dalla sua grande consapevolezza armonica. Lo sento davvero come un padre, musicalmente parlando. Inoltre, suonando l'oboe, in alcuni brani conferisce al lavoro una connotazione timbrica molto vicina al mondo classico, cosa che a me è davvero molto congeniale e vicina. Chi, peraltro, ha ascoltato il mio precedente lavoro, Stupor Mundi, sa bene quanto la tradizione classica sia viva e presente in me. John Taylor, poi, è considerato uno dei maestri indiscussi del piano jazz in Europa: è una personalità aperta e unica, un gigante di cui è quasi superfluo parlare. La sensibilità con cui ha approcciato le mie composizioni, peraltro, è stata per me commovente. L'organico, quindi, si completa con un batterista e un percussionista dalla personalità straordinaria, fuori dal comune: Michele Rabbia, che nel quartetto interpreta un ruolo certamente più tradizionale rispetto a quello è solito fare, ad esempio, con Stefano Battaglia. In questo progetto, infatti, Michele suona essenzialmente la batteria, forte del suo gran bel tiro e di una spiritualità tutta sua».

Blue from Heaven (Dodicilune, novembre 2012)
Pierluigi Balducci (basso), John Taylor (pianoforte), Paul McCandless (fiati) & Michele Rabbia (batteria e percussioni)

venerdì 1 febbraio 2013

Il ritorno di Accardi, tra sospiri e sussurri

Arcoiris è l'opera prima: pensata, studiata e perfezionata negli anni. Partorita tra la Francia e l'Italia. Un'idea di partenza, diventata disco lentamente. Whispers, invece, è la continuazione di un progetto. La sintesi di un processo, intimo e creativo, del musicista ormai rientrato stabilmente dentro i confini nazionali. Una produzione, di sicuro, più rapida. Ma, non per questo, meno curata. O più sbrigativa. E una postproduzione più esigente. Il nuovo album di Fabio Accardi, batterista che ama anche la scrittura musicale, parte tuttavia dalla certezza di un'etichetta discografica: la sua. Mordente Records, del resto, nacque anche per l'esigenza di individuare un'etichetta su misura: in corrispondenza, praticamente, di quel primo cd che faticava a trovare una casa confortevole.
Whispers, peraltro, è un disco ancora giovanissimo, perchè commercializzato lo scorso 29 novembre e presentato ufficialmente quasi un mese dopo, sul palcoscenico del Teatro Forma di Bari. Dove, assieme all'autore, si è ritrovata la gente che lo ha assistito in sala di registrazione, quella dell'Officina Musicale di Giuseppe Mariani, a Castellana Grotte: Gaetano Partipilo (al sax), Vince Abbracciante (alla fisarmonica e al Wurlitzer), Mirko Signorile (al pianoforte), Giorgio Vendola (al contrabbasso), le vocalist Luisiana Lorusso e Serena Fortebraccio e la voce recitante dell'italoargentina Sarita Schena. Ai quali va aggiunta la presenza del foggiano Antonio Tosques, scelto nell'occasione a rappresentare la chitarra di Nando Di Modugno.
Prodotta da Gianfranco Bolena e da Rossella Giancaspero (sue sono, a proposito, le parole di "Writer Song", l'ultima traccia che si fonde con "Táctica y Estrategía" di Mario Benedetti), la seconda fatica a proprio nome di Accardi si divide in otto brani: dei quali altri quattro ("Whispers in an Autumn Rain", "Les Amours Secrèts", "Zaiana" e "Frevolidia") sono pezzi originali. A fronte, peraltro, di tre rivisitazioni: quella della dejohnettiana "Silver Hollow", di "Bodas de Sangue" (firmata dal brasiliano Marcos Valle) e di "Lília", composizione di un'altra grande figura del panorama musicale verdeoro, Milton Nascimento: a conferma dell'antica e incondizionata passione del batterista barese nei confonti delle note che arrivano dal Sudamerica. Una passione che, peraltro, si intuisce pure nella già citata "Frevolidia": il frevo è un ritmo tipico delle regioni nordestine di quel Paese.
Niente, cioè, nasce per caso. Whispers, ad esempio, in inglese significa sospiri. «Ma anche "sussurri" - aggiunge Fabio Accardi -. E' un vocabolo che rimada alla prima traccia presente nel disco, che poi indica la direzione all'intero lavoro». E che, quindi, un po' lo rappresenta. «"Whispers in a Autumn Rain" è una composizione dolce, melodicamente molto chiara e limpida. Così come l'intero lavoro è molto delicato: penso anche a brani come "Silver Hollow" e "Bodas". Ed è un brano scritto all'inizio di una relazione, mentre "Winter Song", che chiude l'album, è la fine della storia. Diciamo pure che sono questi i punti di riferimento dell'intero cd: ed è da qui che sono partito, prima di scrivere gli altri e aggiungere delle cover che reputo vicine al mood del disco: non solo dal punto di vista emotivo, ma anche da quello estestico e squisitamente sonoro. In mezzo, poi, ci sono altre suggestioni, altre esperienze: è il caso di "Zaiana" e "Les Amours Secrèts", scritti ad agosto».
Le suggestioni, ovvero il vero filo conduttore tra Arcoiris e Whispers. «Certo. In entrambi gli album c'è la stessa esigenza di tradurre in suoni determinate emozioni. Poi, Arcoiris conserva dieci anni del mio personale vissuto. E Whispers, che possiede un sound meno articolato e meno arrangiato della pubblicazione precedente, soltanto tre. Però, in questo cd l'aspetto melodico esce più nitidamente. Mentre in Arcoiris la melodia si distribuiva su più linee, che spesso e volentieri si intracciavano e sovrapponevano. Non solo: nel mio primo prodotto discografico gli spartiti sono pensati per un settetto, a parte un paio di brani. Questa volta, invece, ho scritto per vari ensemble: passando dal quartetto al settetto. Ancora: allora, gli strumenti fondamentali erano il flauto e il vibrafono, che caratterizzavano un suono molto forte e particolare. Ora, il ruolo della fisarmonica e la novità delle voci, usata in tutte le sue modalità, cioè dal vocalizzo di "Silver Hollow" e "Lília" al recitato e al cantato di "Winter Song", offrono differenti colori. In comune, piuttosto, c'è la forte influenza della musica brasiliana, che si manifesta in Arcoiris nel suoni del flauto e nelle melodie e, in Whispers, nel ritmo di "Frevolidia" e, ovviamente, nella presenza di due cover. Oppure in certi input cinematografici».
Suggestioni, dicevamo. Ed emozioni, certo. Ma anche esperienza. «Vero. Scrivere Whispers è stato piu agevole, proprio grazie all'esperienza maturata nel tempo. Arcoiris era il mio primo disco e la mia musica era più difficile nell'esecuzione; anche se è stato regisitrato in tre giorni, seguiti dai due di missaggio. Questo cd, di contro, pur essendo stato concepito nell'arco di un tempo più limitato, si appoggia su una post produzione più curata e su molte sovraincisioni».

Whispers (Mordente Records, novembre 2012)
Fabio Accardi (batteria), Mirko Signorile (pianoforte), Nando Di Modugno (citarra), Giorgio Vendola (contrabbasso), Camillo Pace (contrabbasso), Vince Abbracciante (fisarmonica e Wurlitzer). Guests Gaetano Partipilo (sassofoni), Luisiana Lorusso (voce), Serena Fortebraccio (voce) e Sarita Schena (voce recitante)

martedì 9 ottobre 2012

Caldo, morbido jazz

Nuove produzioni discografiche si affacciano. Ad ottobre (e, ormai, ci siamo) esce, anche in distribuzione digitale, A Day Will Come, frutto dell'incontro tra il sassofonista danese Martin Jacobsen, da tempo ciclicamente coinvolto in progetti con artisti di casa nostra, e il trio guidato dal chitarrista materano Dino Plasmati e completato dal tarantino Marcello Nisi (alla battera) e dal salentino Luca Alemanno (al basso). Il lavoro approntato dall'Open Jazz Quartet (cinquantacinque minuti suddivisi in nove tracce), registrato ad inizio di quest'anno a Matera, è griffato Farelive, etichetta lucana che ha recentemente licenziato anche Joy to the World, realizzato dalla LJP Big Band dello stesso Plasmati e dal vocalist Beppe Delre, e vanta sette composizioni originali ("59th Street", "A Special Day", "A Day Will Come", "Inside" e "Killer Wine" di Dino Plasmati, "Borderlines" di Jacobsen e "Sugar's" di Marcello Nisi), a fronte di due brani tratti dal repertorio di Van Heusen e Burkel ("Here's that Rainy Day") e Carmichael e Washington ("The Nearness of You").
Il disco si accosta alle tonalità più tipiche del jazz autentico, senza affacciarsi sulle contaminazioni che, di questi tempi, sembrano aver requisito molti spazi e molti palati. E non attinge neppure ai canali di quello che, adesso, si definisce jazz moderno. Trattando, però, il jazz più tradizionale con sonorità attualissime. I pezzi inseriti nella raccolta, peraltro, sono sufficientemente caldi e morbidi, cioè di impatto sicuro. «Certamente - conferma il band leader Dino Plasmati - il disco è di impronta moderna, per costruzione dei brani e per alcuni suoni ricreati. Si ascoltano, del resto, sonorità a volte metropolitane, oppure sognanti e, a volte, classiche. La scelta è stata quella di far prevalere, innanzi tutto, il concetto di melodia, che deve rimanere impressa nella mente dell'ascoltatore, piuttosto che una struttura complicata che, magari, tende a sorprendere. Il nostro jazz non é di frontiera o fortemente contaminato, come sempre piú spesso si sente in giro. Ma questo lavoro ha tutti gli elementi del modern jazz, pur volgendo uno sguardo distratto al passato».
La collaborazione con Martin Jacobsen, invece, nasce nel duemiladieci. E, da allora, la frequentazione si è fatta più stretta. «Di lui me ne aveva parlato Marcello Nisi e, una sera, durante un mio concerto eseguito al fianco di Max Ionata, Martin era lí ad ascoltarci. Conoscendoci, abbiamo inconsapevolmente steso le basi per un futuro prossimo. Di lí a poco abbiamo cominciato ad esibirci dal vivo assieme e, subito dopo, abbiamo progettato la registrazione del disco. Martin rappresenta il sassofonista perfetto per A Day Will Come: tenorista puro, suono caldo, coltraniano al punto giusto e grande interprete, oltre che ottimo solista. Fortunatamente, nel corso della mia carriera, ho avuto la possibilità di collaborare con nomi eccelsi del panorama jazzistico mondiale: mi riferisco a Randy Brecker, Vince Mendoza, Evan Parker, Steve Grossman, Bob Mover, Jack Walrath, Michel Pilz, Robert Bonisolo, Fresu, Trovesi, Bruno Tommaso, Mirabassi e tanti altri. Musicisti fantastici, tutti con forti personalitá musicali, da cui ho cercato di apprendere e rubacchiare qualcosa. E Martin si inserisce in questo club. Ogni volta che devo suonare con un ospite di questo calibro, peraltro, studio e analizzo molto analizzando i suoi brani, le sue improvvisazioni. Cercando di cogliere le caratteristiche salienti della vena compositiva di ciascuno di loro, provando a farle mie. E questo, ovviamente, mi permette di arricchire la mia tavolozza cromatica, rendendola sempre fresca e attuale. In quest'ultimo periodo, ad esempio, mi sento fortemente attratto dalle strutture compositive di Vince Mendoza e i brani che ho scritto in questi ultimi tempi risentono di alcune sonorità tipiche dell'estro mendoziano, pur opportunamente dosate alle mie caratteristiche compositive».

A Day Will Come (Farelive, ottobre 2012)
Open Jazz Quartet (Dino Plasmati: chitarra; Martin Jacobsen: sax tenore; Luca Alemanno: contrabbasso; Marcello Nisi: batteria)

venerdì 27 luglio 2012

Mister Jarrett, è stato un piacere



Concetti a confronto, su barricate diverse. E due partiti ben distinti. Mentre, nel mezzo, scorre la musica. Quella di rango. Di qua, la fazione degli scontenti: per i quali la funzionalità di un festival (jazzistico, in questo caso) abita nella progettualità che dovrebbe scandire i calendari. Una progettualità che non confluisce necessariamente attorno al mito e al suo nome, ma che si alimenta di un'idea più articolata, che possa garantirsi un percorso proprio, incentivando gli artisti, premiando la sperimentazione e educando il pubblico. Senza penalizzare, cioè, il movimento. E senza sacrificare denaro che, altrimenti, andrebbe a coprire il costo di tanti concerti di qualità, ma meno pubblicizzati. Centocinquantamila euro di cachet (più spese, come il jet privato: così si dice) per la presenza, al Petruzzelli di Bari, di Keith Jarrett e del suo gruppo, possono sembrare - oltre tutto - uno schiaffo alla gente comune che naviga nei mari cupi di questo inizio di millennio. A fronte, peraltro, della cattiva fama che accompagna il band leader, ovunque considerato personaggio capriccioso, intransigente e arrogante. Inappuntabile davanti ad una tastiera, ma scorbucito e tagliente appena si volta. Nemico dichiarato di fotografi, cineoperatori e ascoltatori maleducati (ma questo è un pregio, diciamolo sùbito). E, da un po', anche della vasta platea di Umbria Jazz. Palcoscenico, questo, sul quale probabilmente non salirà più, dopo le due ultime burrascose esperienze. E' un partito risentito, quello dei contrari. Che sembra aver trovato la sponda ideale in Roberto Ottaviano, direttore artistico (dimissionario: non solo, ma anche per queste motivazioni) di Bari in Jazz, contenitore che ha chiuso ufficialmente il perorso del duemiladodici con l'evento in atteso dell'anno. Piaccia o no. Proprio quel Roberto Ottaviano che (chi ci segue, ormai, lo sa) non ammaina la bandiera sventolata per diversi anni: solo la pianificazione artistica, cioè, accresce lo spessore di una rassegna.
Di là, invece, il partito dei favorevoli. E, in definitiva, degli entusiasti. Keith Jarrett è una fetta saporita della storia del jazz. E il suo stile, ancora purissimo (anzi, c'è persino chi giura che l'artista nordamericano abbia guadagnato, nel tempo, ancora più eleganza e un rigiore pressochè assoluto), vale la spesa dei tagliandi d'ingresso (alcuni complessivamenet popolari, altri di taglio decisamente più alto: gli sponsor e i contributi pubblici, del resto, non riescono a coprire tutto). Non per niente, jazzisticamente parlando, il signore di Allentown è il più pagato al mondo. E talmente facoltoso da potersi permettere eccessi e ruvidezze da star un po' viziata (il Petruzzelli, per esempio, ha dovuto adeguarsi, predisponendo la temperatura interna sui ventuno gradi: prendere o lasciare). E poi il suo pianismo, oggi, è quanto di meglio si possa ascoltare: e, dunque, anche Bari (come Perugia e altre location di prestigio) possiede il diritto di godere i suoi momenti di grandeur musicale. Senza aggiungere che, per un festival determinato a imporsi in ambito nazionale, è arduo assai acquisire quotazioni senza poter attingere alle firme più importanti: Umbria Jazz insegna. Il partito dei favorevoli, comunque, non si pente mai della scelta, neppure un attimo. Tributando il rispetto richiesto e dovuto. Calandosi in un silenzio assoluto, molto più che religioso, addirittura anacrononistico, di questi tempi. Sarà per l'occasione di gala. Sarà per i contorni regali del teatro più bello di Puglia. Sarà per il prezzo di una sera speciale: che quasi obbliga tutti a non disperdere neppure un secondo di quell'ora e tre quarti del live che il trio, superando qualsiasi ottimistica previsione, concede. Al netto della pausa intermedia, più cameristica che jazzistica. O sarà per il timore di perdere il privilegio, nel pieno del tragitto: l'irritato Jarrett, altre volte, ha tranciato lo spettacolo a metà. Meglio non contraddirlo e seguire le indicazioni, quindi.
Dolce imposizione, però: l'esibizione è una di quelle che, al di là dei luoghi comuni, si fa inseguire con naturalezza. Anche se le tonalità del contrabbasso del settantottenne (e ancora sufficientemente giovanile) Gary Peacock si avvertono poco (Jarrett, qualche volta, abbandona il piano e si alza per accertarsi del problema tecnico). E mentre la raffinatissima batteria di Jack Dejohnette ricama, in punta di bacchette, trame talvolta ardite. Ma questa è davvero una serata speciale. E, probabilmente, anche fortunata. Il Maestro è di buon umore: lo dimostra l'interpretazione asciutta, ma priva di inquietudini. Lo conferma la durata del concerto. Lo sancisce il numero di bis accordati alla platea (tre). E persino un dialogo serrato nei tempi, ma cordiale, con uno spettatore che lo ringrazia. Certo, Jarrett arriva sul palco con le mani in tasca (un atteggiamento di sfida alla musica, o al mondo, o a se stesso, chissà), suona e se ne va. Niente parole, solo musica. E snodatissimi inchini (prima, durante e dopo) verso la gente che applaude adorante. In una tipologia di scenario (un teatro) che, evidentemente, gradisce particolarmente. Il resto, sono note che scorrono con precisione chirurgica, austerità e soddisfazione: di chi esegue, di chi ascolta e anche di chi ha promosso l'iniziativa: Abusuan e Puglia Sounds su tutti. Tra un blues e una ballad, in mezzo all'esercito dei favorevoli che c'erano e lontano da quello dei contrari che non c'erano. Eserciti fieri e tosti, ognuno con il proprio carico di ragioni e convinzioni. Che si eludono e si compensano. Mentre, ai confini delle barricate, sgorga la musica. Quella che non si può censurare, al di là delle posizioni di ciascuno. E che riesce persino a scacciare le ombre di una leggenda metropolitana: il personaggio Keith Jarrett non sembra poi così cattivo come ci hanno raccontato.

Keith Jarrett (pianoforte), Gary Peacock (contrabbasso) & Jack Dejohnette (batteria)
Bari, Teatro Petruzzelli
Bari in Jazz 2012

lunedì 16 luglio 2012

Sound Briefing, vecchi ragazzi che si ritrovano

I ragazzi rampanti di un tempo si attrezzano ancora per scalare la musica e la vita, ma il tempo è più ottuso di noi e incalza per tutti, come scriveva qualcuno, e i ragazzi di allora sono ormai discretamente adulti. Addirittura, uno di questi (Fabrizio Bosso) è in cima ai pensieri di tanti appassionati del genere e ha decisamente guadagnato una popolarità alta e salda su tutta la penisola. E gli altri, come Claudio Filippini, Gaetano Partipilo, Giuseppe Bassi e Fabio Accardi, fanno parte da anni, a pieno diritto, della buona borghesia jazzistica di quest'Italia che sembra vendersi sempre più alle cover band e alla note di media e scarsa qualità. Ma sono ragazzi, questi, che negli ultimi anni del secolo passato condividevano gusti, tendenze, sogni, visioni ed esperienze artistiche. Pronti ad aprire la porta ad un universo misterioso e accattivante. Disposti a misurarsi, a progettare, ad aggrapparsi ad una o più idee, a sondare le strade che partono dalle sette note e portano chissà dove. E chissà quando. Tutti sulla piattaforma comune di un laboratorio musicale che, allora, era Bari. Dove lo stesso Bosso, piemontese di origine, era stato attratto o, forse, divorato. O, più semplicemente, adottato. E dove i ragazzi del Fez, il mitico Fez che Nicola Conte aveva inventato, provavano a costruirsi un futuro.
Questi ragazzi di un tempo, poi, hanno percorso strade diverse. Parallele, talvolta. Ma, in certi frangenti, pure convergenti. Stabilendosi altrove (come Bosso). Rientrando alla propria residenza (Filippini è pescarese). Rimanendo in Puglia (come Bassi e Partipilo), pur ritagliandosi la possibilità di viaggiare e arricchirsi. Oppure varcando le Alpi (è il caso di Accardi), per poi rientrare alla base. Ritrovandosi, però, alla prima occasione utile, qua e là. Comunque, con la promessa implicita di rivedersi, di risentirsi. Ognuo per proprio conto, dunque. E, nel bagaglio di ciascuno, un progetto condiviso. Che, un po' di estati e inverni dopo, Mordente Records (la giovane etichetta indipendente lanciata sul mercato proprio da Fabio Accardi, al suo terzo titolo) ha voluto ripescare dalla memoria. Ecco, così, Sound Briefing, un disco ufficialmente licenziato alla fine di maggio e sul punto di essere presentato al pubblico (al Mavù Club di Locorotondo, la notte tra il ventotto e il ventinove luglio, praticamente a ridosso della prima dell'edizione duemiladodici del Locus Festival, che si tiene proprio nella città della Valle d'Itria).
La fatica discografica del gruppo (The Jazz Convention, si chiama) nasce, in realtà, a ridosso dell'incontro live consumatosi nel duemilaundici a Molfetta e prova a misturare un ristretto numero di tributi ad alcuni big del jazz ("Billie's Bounce" di Charlie Parker, "The Rumproller" di Andrew Hill, "Yes I Can, No You Can't" di Lee Morgan) a sette composizioni originali ("Il Fiore Purpureo" griffato da Filippini e già presente in uno dei lavori a suo nome, "Silvesonic" e "Hozic" di Gaetano Partipilo, la serrata "Silly Toy" di Accardi, "In Volo" di Bosso e "Endless Dream" e la ballade "Daniela's Walking" di Bassi). Per inciso, proprio quest'ultimo titolo è dichiaratamente dedicato a Daniela D'Ercole, già compagna (di vita e di musica) del contrabbassista barese, prematuramente scomparsa a New York nel novembre scorso. Dai toni forti e accesi, Sound Briefing (prodotto da Puglia Sounds) è, in definitiva, un hard bop che si fa ascoltare con facilità e che, ovviamente, non dimentica di far spazio agli assoli e alle qualità interpretative dei singoli (particolarmente accattivante, in "Silly Toy", il dialogo tosto e sincero del sax di Partipilo e della tromba di Bosso). Del resto, una reunion è anche l'occasione migliore per divertirsi assieme. O no?

Sound Briefing (Mordente Records, maggio 2012)
Fabrizio Bosso (tromba), Gaetano Partipilo (sassofoni), Claudio Filippini (pianoforte), Giuseppe Bassi (contrabbasso) & Fabio Accardi (batteria)

venerdì 6 luglio 2012

Bari in Jazz, programmazione doppia

Nomi inarrivabili. Quest'anno Bari in Jazz si mette a strafare. Per il gaudio magno degli appassionati. Otto luglio: Chick Corea. Ventisette luglio: Keith Jarrett. Entrambi sul palcoscenico nobile del Petruzzelli. Che, poi, sono i protagonisti dei due appuntamenti, diciamo così, fuori cartellone. Ma, se non vi basta, nella quattrogiorni istituzionale c'è pure qualche altro evento davvero niente male: Maria João e Mário Laginha, il sestetto di Paolo Damiani, Maria Pia De Vito e il Progetto Makemba di Majid Bekkas. Tutti insieme, appassionatamente, all'interno del Summer Music Village del lungomare del capoluogo. La kermesse, malgrado i problemi già analizzati in passato, rilancia. Spostando, però, l'obiettivo sui live di prestigio, che dovrebbero catturare il grande pubblico. E tagliando, nel contempo, le date più propedeutiche al progetto originario. Anche per questo, allora, Bari in Jazz perde, alla fine di questa ottava edizione, il suo direttore artistico Roberto Ottaviano: stanco, fa sapere, di dover prendere atto di determinate situazioni quando le decisioni sulla programmazione (che dovrebbero transitare soprattutto da lui) sono state già assunte e ratificate da altri (è il caso dell'ingaggio dei big, direttamente gestiti da Puglia Sounds). E irritato da problematiche varie, già sviscerate su queste colonne negli ultimi due anni. Ma ribadite prima dello start: «Ritengo di aver contribuito a costruire un festival dotato di idee, di una visione, di un'identità. Inseguendo determinate strategie, aggrappandomi a determinate dinamiche, provando a coinvolgere le istituzioni attorno ad un genere musicale che, tradizionalmente, non raccoglie platee oceaniche. E puntando sulla progettualità, più che sull'onda emotiva che certi nomi e cognomi sanno agitare. Ma, quando un direttore artistico vede tradire certe logiche, continuare diventa impossibile. E poi, a mio modo di vedere, nell'organizzazione di un festival ci sono alcune priorità da soddisfare».
Lo spettacolo, però, continua. Partendo dal tre luglio, quando gli acuti e i bassi di Maria João Monteiro Grancha, accompagnati dal pianoforte di Mário Laginha, si dividono il palco con l'Orchestra Sinfonica della Provincia di Bari, diretta da Lorenzo Marini. Symphonic Loves è un montaggio di differenti passaggi musicali (si va da brani mozambicani a composizioni brasiliane, passando ovviamente per il repertorio del suo Paese, il Portogallo) in cui la cantante lisbonese - che non è una fadista, come erroneamente riferito in fase di presentazione da molti media: sarebbe bastato documentarsi, prima - riesce ad offrire una gamma di vocalizzazioni delicate e, contemporaneamente, intense. Oggettivamente, però, la presenza del'orchestra finisce per ingabbiare la sua verve e il suo estro: il meglio, del resto, arriva quando Maria João (cinquantasei anni portati benissimo) duetta con Mário Laginha, pure lui palesemente liberato da vincoli e paletti. E, probabilmente, non aiutano neppure gli arrangiamenti scelti per l'occasione dallo stesso Laginha: tanto che il concerto fatica a decollare, acquisendo pienezza a metà percorso.
Appena ventiquattr'ore e Bari in Jazz bissa: sul palco, questa volta, il violoncellista Paolo Damiani ripropone, ventisette anni dopo, una vecchia idea presentata a Roccella Jonica, dove la matrice jazzistica si fonde con la tradizione sarda. Tracce di Anninnia è una suite in cui la Vanishing Band (formazione riveduta, così come sono riscritti gli spartiti) rilegge le ninna nanne isolane con fantasia, ironia e un po' di spirito free, sottolineato dalle suggessive incursioni e dallo scat di Diana Torto e Lauren Newton, dall'assidua presenza della batteria di Martin France, dagli assoli elettrici del francovietnamita Nguyen Le e dai fiati pastosi di Glenn Ferris e di Roberto Ottaviano. Il terzo appuntamento, invece, nasce dall'incrocio e dalla compensazione delle sonorità che arrivano da tre continenti diversi: l'Africa del marocchino Majid Bekkas e del maliano Ali Keita, l'Europa del sassofonista francese Louis Sclavis e il Sudamerica dell'esuberante Minino Garay. Il Progetto Makemba, sostenuto da un partner consolidato del festival quale è Alliance Française, è un momento riuscito di métissage o, per usare le parole del direttore artistico, di folklore immaginario. Il live, sin da sùbito, si trasforma in un affresco vivo e pulsante dove la commistione musicale abbatte qualsiasi barriera, seminando colori e sapori. Infine, chiude la rassegna (sei luglio) Crossing the Borders, l'incontro tra la voce di Maria Pia De Vito e il quintetto capitanato dal pianista napoletano Francesco Villani. Appositamente pensato per Bari in Jazz, il concerto si nutre di composizioni originali ben assemblate (dei fratelli Villani, di Gianni Falzone e del contrabbassista danese Jesper Bodilsen), alle quali si affancano due sole cover (una è "29 Settembre", resa celebre dagli Equipe '84 e da Lucio Battisti). Quattro situazioni dal vivo in altrettanti giorni: niente, numericamente parlando, in confronto all'edizione precedente, ma qualitativamente degnissime. Attendendo (ma questa è una storia parallela) il piano solo di Chick Corea e, successivamente, Keith Jarrett, Gary Peacock e Jack Dejohnette. Non gente qualsiasi.

Bari in Jazz 2012
Bari, Piazzale Cristoforo Colombo

Maria João (voce), Mário Laginha (pianoforte) & l'Orchestra Sinfonica della Provincia di Bari diretta da Lorenzo Marini in "Symphonic Loves"
03.07.2012

Paolo Damiani (violoncello) & Vanishing Band (Diana Torto: voce; Lauren Newton: voce; Glenn Ferris: trombone; Roberto Ottaviano: sassofoni; Nguyen Le: chitarra elettrica; Martin France: batteria) in "Tracce di Anninnia"
04.07.2012

Majid Bekkas (voce e oud), Ali Keita (balafon), Louis Sclavis (sassofono) & Minino Garay (batteria) in "Progetto Makemba"
05.07.2012

Maria Pia De Vito (voce), Francesco Villani (pianoforte), Valerio Scrignoli (chitarra elettrica), Giovanni Falzone (tromba), Jesper Bodilsen (contrabbasso) & Pierluigi Villani (batteria) in "Crossing the Borders"
06.07.2012

lunedì 4 giugno 2012

Quindici anni di Fasano Jazz (e dintorni)




Quindici anni (e altrettanti cartelloni) sottintendono anche l'ingresso certificato nell'immaginario collettivo del popolo che ama e insegue la musica. E quindici edizioni di Fasano Jazz, in qualche maniera, significano parentela prossima con la tradizione. Non è neppure facile resistere e rinsaldare le fondamenta del progetto: oggi meno di ieri. Ma, alle amministrazioni comunali che si sono succedute, va dato atto e merito di aver creduto e di continuare a credere in quella che resta una delle manifestazioni più blindate della regione. E a Domenico De Mola, il suo direttore artistico, è giusto riconoscere l'ostinazione e la gelosa custodia del marchio. Nato, come suggerisce la sua ragione sociale, attorno al jazz. E, successivamente, allargatosi verso altri sapori. Soprattutto gli ultimi anni, del resto, hanno apertamente accarezzato tonalità più rockettare, abbracciando il mondo del progressive. Sfiorando, qua e là, anche il blues. Una ricetta, questa, che sembra appagare sempre più chi lavora dietro le quinte: come la programmazione del duemiladodici (Complanare Blues Band, Alex Carpani Band, Polaris Duo, Corrado Sgura Group, Fluido Rosa, Borstlap&Gatto, Area più Maria Pia De Vito), approntata in collaborazione con Le Nove Muse, conferma.
Dunque, a giugno, come ogni anno, l'estate pugliese delle note parte idealmente da questo appuntamento: dislocato, per l'occasione, tra il Portico delle Teresiane, il Cinetatro Kennedy e il Teatro Sociale. Dove, per la terza serata (le date, complessivamente, sono sei), sale sul palco Boris Savoldelli, acrobata vocale che fluttua tra il funky e il rock, il jazz e il pop. Seguito, più tardi, dal trobonista barese Gianluca Petrella e dal pianista Giovanni Guidi, coppia attinta dalla New Generation di Enrico Rava e sostanzialmente inattesa (la situazione, di fatto, sostituisce l'esibizione inizialmente prevista dell'indisposto Paolo Fresu e di Daniele Di Bonaventura). Savoldelli, peraltro, da Fasano Jazz ci è già passato, nel 2009. E, armandosi di canto e loop, si perde in una miriade di giochi vocali, dedicandosi alla propria passione: la sperimentazione. Niente basi preregistrate: solo il supporto di un duplicatore di suoni e talento. Con cui ci si può ironizzare anche sopra: «Avrei voluto fare musica con una vera e propria orchestra, ma il mio conto in banca l'ha sconsigliato. E così ho deciso di fare tutto da solo».
Il vocalist di Pisogne, in realtà, ci mette un po' di tutto. «Vengo definito un cantante di jazz, un'etichetta che mi onora molto. Ma, se per jazz si intende l'accezione più classica, non lo sono». In scaletta, tra un pezzo e un altro, spunta anche un tributo a Monk: ma non c'è spazio per gli standard (e la scelta, se ci consentite, è giusta). «Del resto, cerco di allontanarmi il più possibile da quello che è già stato eseguito e proposto da altri: soprattutto, per una forma di rispetto». Mezz'ora dispendiosa, vorticosa. Ma Savoldelli, in fine di serata, tornerà a cantare: affiancando in una suite di tre brani (più il bis) Petrella e Guidi. Che si inseriscono perfettamente nell'atmosfera della serata: perchè anche qui si ricorre massicciamente alla sperimentazione. Pianoforte e trombone si corteggiano, rincorrendosi in un gioco di ammiccamenti: ora sottili, ora scorbutici, ora più intimi. E, come accade in casi come questo, l'improvvisazione si ritaglia uno spazio tutto proprio, ampio: finendo con il modellare il live. Dove si scherza abbastanza. E si suona: molto.

Boris Savoldelli (voce e loop)

Giovanni Guidi (pianoforte) & Gianluca Petrella (trombone)

Fasano (BR), Teatro Sociale
Fasano Jazz 2012

mercoledì 30 maggio 2012

La luna e il sole di Stefano Clemente


Quello dell'Apulia Jazz Ensemble, ammettiamolo, è marchio che attira. Sarà per quella miscela di campanilismo e di romanticismo musicale che lo sospinge e che intriga. Soprattutto se questa formazione, appena progettata e lanciata da Stefano Clemente, chitarrista pugliese che arriva dal rock e affinatosi fuori dai confini regionali, lascia incrociare ottimi nomi di questa terra (ampiamente spendibili pure sul mercato nazionale) e giovani rampanti di casa nostra. E, in particolare, se, sulla strada, spunta pure un disco: perchè, di solito, malgrado l'ormai sempre più agevole (e, talvolta, anonimo) passaggio per le sale di registrazione, le produzioni discografiche finiscono per dignificare un tragitto, per sdoganare definitivamente il progetto, per raggiungere più facillmente la base. Cioè, chi ascolta. Cioè, il pubblico che si avvicina alle situazioni dal vivo.
Allora, la notizia, innanzi tutto: il disco si chiama The Moon and the Sun: ed è, appunto, a nome di Clemente. A cui l'Apulia Jazz Ensemble ha assicurato supporto, note, tonalità e colori. E, per la cronaca, licenziato dall'etichetta Ultra Sound Records, il lavoro è uscito proprio in coincidenza alla sua presentazione ufficiale, a Conversano, all'interno della Casa delle Arti, un centro polivalente che sta percorrendo con discreta frequenza il sentiero dei live. Dieci tracce e un guest di prestigio come Flavio Boltro, trombettista che si contende con Fresu e Bosso il podio del solista più amato della penisola: The Moon and the Sun è, come sostiene lo stesso Clemente, l'ideale evoluzione della precedente registrazione in studio, Desiderata, lanciata da Dodicilune l'anno scorso. Ma è, soprattutto, un album stimolato da forti fermenti improvvisativi. Che la presenza dei sassofoni di Gaetano Partipilo e Raffaele Casarano, del pianista Davide Santorsola, del contrabbassista Luca Alemanno e del batterista Mimmo Campanale, sotto un certo aspetto, legittima. Anche se, in realtà, nell'esecuzione dal vivo viene a mancare Boltro, ma anche Raffaele Casarano, mentre Santorsola si fa surrogare da Simone Graziano, un fiorentino giovane e convincente che, dalle sue parti, è attualmente assorbito da una collaborazione con il sassofonista Mirko Guerrini.
Non sappiamo, ovviamente, se l'Apulia Jazz Ensemble possiede un futuro definito. Se, cioè, il progetto si ramificherà con la stessa filosofia che l'ha in qualche modo partorito. Oppure se l'esperimento si rivelerà fine a se stesso, buono a immagazzinare esperienze personali e nulla più: perchè di casi come questi il nostro universo musicale è ricco. Però, l'idea ci sembra suggestiva, seppur tutt'altro che originale. E, comunque, merita un approfondimento, qualche attimo di attenzione o, almeno, un po' di curiosità. Che la situazione dal vivo sazia in un'ora e tre quarti di buona struttura melodica, di jazz moderno (ma non freddo) e di angoli pregni di buone atmosfere, imprezosite dal sax e dai frequenti assoli di un calibratissimo Partipilo. Dispiacciono, magari, i larghi vuoti in platea: il live (arricchito dal video realizzato da Giuseppe Rosato) avrebbe guadagnato ancora qualcos'altro, con una più efficace divulgazione mediatica. Ma la consapevolezza di doversi confrontarsi con troppi ostacoli servirà, chissà, ad attutire la delusione. Sicuramente, però, è un buon lavoro, ben assemblato. E dalle dinamiche dispendiose, in alcuni frangenti. Non ci sono, cioè, idee rivoluzionarie, ma un buon tessuto sonoro, un'interessante matrice compositiva, un gusto dichiarato per le contrapposizioni e un interplay largamente soddisfacente. E, se il disco ripercorre buona parte dei passi dell'esibizione dal vivo, si fa ascoltare volentieri. Un dettaglio che non fa mai male.

Stefano Clemente (chitarra) & Apulia Jazz Ensemble (Gaetano Partipilo: sassofoni; Simone Graziano: pianoforte; Luca Alemanno: contrabbasso; Mimmo Campanale: batteria) in "The Moon and the Sun"
Conversano (BA), Casa delle Arti

domenica 29 aprile 2012

Note Sonanti, la collana si allarga

Nostalgie de l'Avenir. Note di Stefano Maurizi, pianista cresciuto all'ombra di Luca Flores che si è avvicinato al circuito jazzistico parigino e che, proprio nella capitale francese, lo scorso novembre, ha registrato in studio l'intero lavoro discografico, appena licenziato da Note Sonanti, l'etichetta martinese di Pasquale Mega. La cui collana, così, si allarga velocemente (è il quinto titolo, collezionato nel breve spazio di quattordici mesi). Il disco (otto tracce, sette originali e una, "Avec le Temps", firmata da Léo Ferré e arrangiata da David Venitucci) spiega il fermento che, attualmente, influenza la scena artistica di Parigi ed è idealmente dedicato alla musica di Arvo Pärt: carico di atmosfere spirituali, tra tonalità etniche e linguaggi più jazzistici coinvolge pure il già citato fisarmonicista David Venitucci, il batterista Antoine Banville e il pugliese Mauro Gargano, che lungo la Senna ha modellato il suo percorso artistico, maturando le esperienze utili a fortificarne il talento. Quello stesso Mauro Gargano che, peraltro, aveva firmato la precedente e recentissima produzione di Note Sonanti, Mo' Avast Band, una raccolta di dieci composizioni interpretate in compagnia del sempre più interessante Francesco Bearzatti (al sax tenore e al clarinetto), di Stéphane Mercier (al sax alto) e di Fabrice Moreau (batteria). Accanto ai quali spunta, in due tracce, l'apporto del pianista Bruno Angelini.
«Mo' Avast - spiega nelle note di copertina il contrabbassista barese - è una formula che ho gridato spesso, in passato, e che mi ha dato la forza di partire, fare, creare, cambiare molte cose della mia vita e anche in me stesso e nella mia musica. Una esclamazione idiomatica della mia terra che può servire quanco la realtà ci annoia, ci aggredisce o ci costringe in qualche schema. Ma Mo' Avast è, per me, un'urgenza espressiva fortemente artistica, un canto libero, è l'amore per la musica, l'antidoto alla prevedibilità. In questo disco, ho cercato de salvaguardare la freschezza e la spontaneità, anche a costo di cadere in qualche imprecisione formale». «Il lavoro di Mauro - confessa invece Pasquale Mega - mi ha attratto moltissimo, sin dalla prima volta che l'ho ascoltato. Credo che sia uno degli album più intriganti che abbia ascoltato, ultimamente. E ritengo che aderisca perfettamente alla linea editoriale dell'etichetta: la ricerca della qualità, del resto, ha ispirato sin dall'inizio questa mia nuova avventura all'interno del panorama jazzistico».
Linea, vale ricordarlo, inaugurata con Ettore Fioravanti e il suo Le Vie del Pane e del Fuoco, proseguita con l'incontro tra il trio del trombettista Marco Tamburini del Vertere String Quartet (ne abbiamo già parlato diffusamente) e incalzata da Iguazú, dove i fiati di Javier Girotto hanno incrociato la fisarmonica di Luciano Biondini (in questo caso, al cd si è aggiunto pure un dvd registrato dal vivo in Ucraina).








giovedì 1 marzo 2012

Il nuovo tango di Puglia


Il tango, quello della tradizione, è sempre dentro. Ma, ormai, davanti si spalanca una strada diversa. Artisticamente più attraente. Che, intanto, sempre dal tango parte. Ma che, in realtà, risponde anche e soprattutto ad una necessità di rinnovamento, di rivisatazione, di composizione, di ramificazione: in altre situazioni stilistiche. Che, peraltro, arricchiscono, completano. Offrendo un orizzonte più ampio. Il nuovo percorso del Nuevo Tango Ensemble, già ufficialmente inaugurato con Tango Mediterraneo, è irrobustito da D'Impulso, il cd licenziato nell'estate del duemilaundici dall'etichetta tedesca Jazzhaus Records che Gianni Iorio (da Foggia, al bandoneón), Pierluigi Balducci (da Corato al basso) e Pasquale Stafano (da Stornarella, è il pianista) hanno presentato al pubblico dell'Associazione Amici della Musica "Orazio Fiume" di Monopoli. Assistiti, peraltro, da un guest di fama e pregio come il clarinettista Gabriele Mirabassi e dal batterista napoletano Pierluigi Villani.
D'Impulso è un progetto che, dicevamo, affiora dal tango: approdando al jazz e anche alla musica popolare, attraverso un disegno improvvisativo interessante e, innanzi tutto, in coda ad un impegno compositivo che lascia parecchio spazio al profilo melodico. Particolare che, in situazioni di questo tipo, non dimentica mai di catturare la platea. E', cioè, un bel disco che sfocia in un concerto puntellato di emozioni, di vibrazioni, di buon gusto, di eleganza naturale. Certo: chi, magari, attendeva i profumi immortali dei classici si è ritrovato un po' spiazzato: anche perchè la formazione nasce (nel millenovecentonovantanove) rielaborando e riarrangiando titoli più o meno unanimemente conosciuti. Spiazzato: ma non per questo deluso, immaginiamo. Perchè, così, ha finito per imbattersi in un repertorio solido, fresco, gravido di buone intuizioni e di ottime intenzioni. Proprio perchè il Nuevo Tango Ensemble punta, giustamente e segnatamente, sulla qualità dello spartito. Sdoganando, nella serata monopolitana, appena due brani non originali: "El Choclo" e la piazzollana "Oblívion", ovvero il bis che chiude il live consumatosi all'Auditorium di Canale 7.
«Il futuro del quartetto è la produzione originale. Questo è il cammino che i miei amici volevano intraprendere, da tempo: l'hanno fatto, già dal duemilaotto, con il lavoro precedente. E hanno fatto bene, ritengo. Perchè possiedono sensibilità, idee, talento»: Mirabassi, tra la consueta frequentazione dei palcoscenici della penisola e una full immersion in Sud America, benedice la scelta. «Alla quale sono felice di aver offerto il mio contributo. Solo esterno, nel caso di D'Impulso, perchè presto il mio modo di fare musica esclusivamente nelle esecuzioni dal vivo. In questo disco, infatti, non ci sono (nel precedente album, invece, sì. Mentre questa volta, in studio, l'ospite è altrettanto accattivante: Javier Girotto, ndr). Al di là di questo, i loro meriti sono cristallini: se non altro, perchè ad un certo punto hanno intuito che era il momento di saltare l'ostacolo, di fare da soli, di rischiare qualcosa in più. Di darsi delle coordinate diverse. Del resto, mi trovo spesso in Argentina, dove suono con alcuni artisti locali. E lì il nuovo tango è un'abitudine consolidata. Certo, per la gente d'oltre oceano è più semplice: vivono a stretto contatto con il tango, da sempre. E questo genere fa parte della loro cultura, del loro dna musicale. Ma è bene che, anche da noi, si cominci a ragionare in questo senso».

Nuevo Tango Ensemble (Gianni Iorio: bandoneón; Pasquale Stafano: pianoforte; Pierluigi Balducci: basso). Guest Gabriele Mirabassi (clarinetto) e Pierluigi Villani (batteria)
Monopoli (BA), Auditorium di Canale 7
Stagione Concertistica 2011/2012 dell'Associazione "Amici della Musica Orazio Fiume"

sabato 12 novembre 2011

Il sogno americano di Daniela


La cattiva notizia corre sul filo virtuale della rete. Perchè, oggi, quasi tutto passa prima dai canali di internet. E corre veloce. Facebook è una lama affilata nel cuore del pomeriggio e, per chi arriva in ritardo, della sera. Una sera spesa, un po' ovunque, tra castagne e novello. Daniela è nel posto sbagliato, al momento meno opportuno. Broadway, New York. L'arteria spacca Manhattan e l'incrocio con la centoseiesima strada spezza un sogno americano. Il suv sfreccia sull'asfalto e la travolge: dettagli della prima ricostruzione del fatto. Daniela, a trentadue anni, ci lascia. La polizia a stelle e strisce fornisce pochi particolari. Quanto basta per sapere che non c'è domani. Folti riccioli rossi, sorriso gentile, voce ormai preparata al gran salto: perchè l'America, per chi naviga tra il soul e il jazz, il blues e il gospel, è sempre l'America. E New York è sempre un po' più America di altri luoghi. Da Andria, Daniela D'Ercole aveva scelto il suo cammino. Passando per i club, le piazze e i teatri di Puglia. Il primo viaggio oltre oceano, temporaneo. Poi, il rientro tra le contrade di casa nostra. Giusto per riannodare i contatti con il suo mondo di sempre. E per vagliare nuove soluzioni. Come il tango e le note d'Argentina: il progetto si era consumato in una sola data, ad Ostuni, quest'estate. Al fianco di una formazione d'archi e della fisarmonica di Giorgio Albanese. C'eravamo. E, proprio lì, Daniela faceva sapere della nuova avventura che l'attendeva. Ancora in New Jersey. Un'avventura più lunga, questa volta. E definitiva, probabilmente. La decisione era presa, ormai. Ma solo a novembre, qualche mese dopo, avremmo scoperto che l'avventura era quella finale. La jam session aspettava Daniela: appuntamento saltato. Con tutti i progetti. E con tutte le illusioni: perchè chi campa di arte, vive anche e soprattutto di illusioni. Che l'Italia, di questi tempi, non permette più a nessuno: musicisti compresi, ci mancherebbe. Bagaglio di viaggio e tante speranze: certe volte, va bene. E, allora, è meglio provare. Per non ereditare rimpianti o scrupoli. Senza sapere cosa c'è dietro l'angolo. O ai confini della centoseiesima strada: dove tutto può finire, all'improvviso. Dove scopriamo di sentirci un po' più soli. E dove la comunità musicale di Puglia elabora il suo terzo lutto, da giugno ad oggi: perchè non abbiamo dimenticato nè Pierpaolo Faggiano, nè Massimo La Zazzera. Intanto, dentro il bagaglio di Daniela, resta The Peacocks, il primo (e unico) disco registrato a suo nome, nel duemilaotto, con Ettore Carucci, Giuseppe Bassi e Marcello Nisi. Dove, tra questa e quella traccia, si respirava il profumo del musical, una delle sue passioni tra le note. Proprio quel musical nato e cresciuto a Broadway, quella strada immensa che spacca Manhattan e che, una sera di autunno, ha spezzato un sogno. Il sogno americano di Daniela.

giovedì 13 ottobre 2011

Shorter, maestro saggio


Puntuale. Fa attendere il giusto, appena dieci minuti. Ventuno e quaranta, si parte. Wayne Shorter è, consentiteci la banalità facile, l'evento musicale pugliese dell'anno. Bari in Jazz 2011, inauguratosi a giugno, chiude la parentesi lunga con quest'appendice attesa, suggestiva e di sicuro impatto: anche mediatico. Entrando definitivamente (e ufficialmente) a far parte di un immaginario circuito preferenziale, all'interno del panorama jazzistico nazionale. E, chi dice il contrario, bluffa: perchè è un dato di fatto. Inconfutabile. Ovviamente, per l'occasione, c'è una location tutta nuova: ad ottobre, sfruttare la piazza non si può. E occorre una struttura capiente: il sassofonista di Newark, settantotto anni ad agosto, richiama agilmente gli appassionati dei quattro angoli della regione e pure gli addetti ai lavori. Mai visti, del resto, tanti musicisti assieme al di qua del palcoscenico: è un evento anche per questo. L'auditorium dello Showville, settecento poltrone comode e morbide, debutta così nell'alta società delle note, vantando il suo primo sold out. Malgrado un biglietto niente affatto esagerato, ma neppure di portata popolarissima, considerati i tempi. Un biglietto che, peraltro, da solo è insufficiente a coprire il cachet degli artisti e i costi di gestione del concerto, appaltato solo grazie all'iniziativa privata degli sponsor. Giusto per capirci.
Shorter, a Bari, ci torna a qualche anno di distanza (qualcuno lo ricorderà in un'ancora non troppo lontana edizione di Notti di Stelle). E' in Europa da poco (una tappa già consumata a Londra), ma non si fermerà per molto (Reggio Emilia, Roma, Istanbul, Macedonia). Sale sul palco e attacca: nessun saluto, nessuna parola. Solo musica. E genio. Lui è il vecchio maestro saggio che coordina, offrendo input e assist. Poi, lascia fare ai compagni di viaggio (il panamense Danilo Perez al piano, John Patitucci al contrabbasso, Brian Blade alla batteria), rientrando nel cuore del live al momento giusto, inspessendo il percorso. Cliché consumato e approccio vagamente sofisticato, talvolta soft. Prima che i toni si facciano più marcati, che i colori diventino più decisi, che il volume (non solo quello sonoro) della serata si alzi. E prima che il drumming si faccia più aggressivo, che la tastiera del piano si liberi verso orizzonti musicali più vasti, che il contrabbasso si doti di energia. La prima suite ruota attorno ad un solo accordo. Quindi, il repertorio - passateci il termine - si apre. Diventando progressivamente più intenso, interpretativamente più denso. E riscuotendo, per quello che abbiamo percepito durante e anche dopo l'esibizione, maggiori consensi. Un'ora o poco più: il pubblico, allora, chiama. Per due volte. Arriveranno altrettanti bis.
Al di là del gradimento di ciascuno, appuntamenti come questi fanno storia. E, infine, è la storia (del jazz, in questo caso) che crea il pedigrée di una manifestazione di largo respiro. Che, come ricordava già questa estate il suo direttore artistico Roberto Ottaviano, non può sottrarsi dall'obbligo di prepararsi organizzativamente con almeno dodici mesi di anticipo. Potendo appoggiarsi, però, ad un budget predefinito, chiaro: che, ovviamente, semplifica tutto. Un punto, questo, su cui sarà bene confrontarsi, quanto prima. Anche con l'ente regionale, che sta sostenendo il progetto e che, parallelamente, deve fronteggiare il momento storico, imprigionato dalla politica nazionale dei tagli finanziari nei confronti della cultura. Oltre che con le aziende sponsorizzatrici e con Puglia Sounds. Problematica che, tuttavia, non impedisce all'associazione Abusuan di rivelare, sin da ora, che l'edizione duemiladodici di Bari in Jazz verrà spostata al prossimo mese di luglio (la quattrogiorni si apre il tre e si esaurisce il sei). E a noi di azzardare il nome (ufficialmente non confermato) di uno dei prossimi ospiti della kermesse, quello della pianista portoghese Maria João, affiancata dall'Orchestra Sinfonica della Provincia di Bari.

Wayne Shorter Quartet (Wayne Shorter: sassofoni; Danilo Perez: pianoforte: John Patitucci: contrabbasso; Brian Blade: batteria)
Bari in Jazz 2011
Bari, Multisala Showville

lunedì 1 agosto 2011

Fusioni, colori, fantasia


«Il mio immaginario è fatto di suoni, figure e colori che si fondono in atmosfere e ambienti fantasiosi, creando un sound elettro-acustico coinvolgente e intenso e che vive di contemporaneità». Marco Tamburini e la sua ultima creazione, Contemporaneo Immaginario. Il trombettista romagnolo riassume, in poche righe di copertina, l’idea e il lavoro maturati da due distinte formazioni musicali nel corso di una concertazione ponderosa e, probabilmente, anche viscerale. Da cui, proprio a giugno, è venuto fuori un album dalle tonalità moderne e, in alcuni casi, persino aggressive. Licenziato, per la cronaca, da Note Sonanti, l’etichetta martinese di fresca costituzione voluta da Pasquale Mega, alla sua seconda pubblicazione.
Contemporaneo Immaginario, distributo da Egea, è l’unione di due universi paralleli che, alla fine, convergono: quello della band di Tamburini (la Trhee Lower Colours: con lui, Stefano Onorati al pianoforte e Stefano Paolini alla batteria) e quello del più cameristico Vertere, quartetto d’archi pugliese. Sotto il segno dell’elettronica, che timbra decisamente il disco, già presentato ufficialmente nella data unica dell’ultimo Alberobello Jazz, la rassegna di Alberto Maiale e Barbara Cupertino, e – il tredici luglio – nella cornice di Umbria Jazz 2011, a Perugia. «Grazie all´elettronica, al lavoro di composizione, arrangiamento e soprattutto di improvvisazione – spiega ancora Tamburini sulle note a margine del cd - la musica cullerà l´ascoltatore in un viaggio esplorativo attraverso territori sconosciuti e l´aria sarà l´ideale mezzo di trasporto». Parole che grondano di trasporto e, innanzi tutto, di cieca fiducia nelle proprie possibilità. Oltre che nella critica degli appassionati e degli addetti ai lavori.
Al primo ascolto, del resto, Contemporaneo Immaginario può persino sembrare sfrontato, di ostico impatto, tagliente. Dal vivo, poi, certe atmosfere un po’ nordiche possono anche spaventare i meno navigati o i jazzofli più romantici. Ma questa raccolta di dieci tracce ("Il Mercato delle Spezie", "Nebbie", "Arabesque", "Contemporaneo Immaginario", "Oltre l’Orizzonte", "Blue Elettrico", "Il Suono del Vento", "Albe", "Medina" e, infine, "Knives Out", l’unico brano non originale) racconta di quanto scrittura e improvvisazione possano interagire, convivere e segnare il cammino. E quanto i punti di riferimento musicali di ogni singolo protagonista e di ciascuna formazione possano intrecciarsi e tracciare un tappeto di coesistenze suggestive.
Registrato ad ottobre del 2010 nel bolognese, il lavoro può essere considerato una delle pietre miliari della produzione di Tamburini: «Il fatto è che, passando attraverso il jazz afroamericano, mi sono lasciato conquistare da quello di matrice europea e, dunque, dall’esigenza di cercare nuovi stimoli nell’elettronica, di perseguire piani sonori diversi e una certa gamma di colori, nel solco della contemporaneità. Poi, però, sono un musicista di formazione classica e mi intrigano molto gli archi». E’ così che nasce Contemporaneo Immaginario, un gioco tra il dinamismo moderno del trio di base e l’identità acustica dei Vertere, un quartetto (Giuseppe Amatulli e Rita Paglionico ai violini, Domenico Mastro alla viola e Giovanna Buccarella al violoncello) che, dopo aver proficuamente collaborato con Javier Girotto o Daniele Di Bonaventura, insiste a voler confrontarsi su terreni differenti e solo apparentemente lontani. Certificando, così, di aver orami individuato il proprio percorso. E il saldo, al momento, è positivo.

Contemporaneo Immaginario (Note Sonanti, giugno 2011)
Three Lower Colours (Marco Tamburini: tromba ed elettronica; Stefano Onorati: pianoforte ed elettronica; Stefano paolini: batteria ed eletronica) & Vertere String Quartet (Giuseppe Amatulli: violino; Rita Paglionico: violino; Domenico Mastro: viola; Giovanna Buccarella: violoncello)

giovedì 7 luglio 2011

Marco Bardoscia, il sognatore


Il sognatore non pianta paletti. E non possiede patria certa. Gira per il proprio regno immaginario e gode. Di se stesso, del suo idealismo e dei suoi sogni, appunto. Creandosi, a propria misura, un recinto un po’ vintage, démodé. E piazzando ai confini del suo mondo una barriera e una dogana: così, se qualcuno vorrà entrare, dovrà chiedere permesso. Esibendo visto e carta d’identità. E un altro bagaglio di sogni, da aggiungere a quelli che già circolano nella repubblica di nuvole. Sogni, oppure illusioni: fate voi. Perchè nessun’epoca e nessun personaggio hanno mai separato i due concetti: che, da sempre si accavallano, sorpassandosi e combinandosi.
Il sognatore, quasi sempre, è un artista. Del suono, dell’immagine o della parola. Forse, perchè l’interventista non conosce il tempo di riflettere. O quello di piegarsi ad una logica lontana dalla produzione di beni tangibili. Finendo per ignorare (e, di questi tempi ce ne rendiamo particolarmente conto, per ostacolare) l’arte, quindi la cultura. Ogni musicista, poi, è un sognatore, a suo modo. Perchè non sa (o non ha capito) che il mondo si arruffiana con i vincitori: che, quasi sempre, non sognano. Distruggendo, anzi, i sogni altrui. Ma, invece di redimersi, spesso il musicista insiste. Sprezzante, autolesionista. Maledetto. Almeno sino a quando non scala le vette della passione popolare: entrando a pieno diritto nel cuore dell’ingranaggio, nel vortice del sistema che lo plagia e lo annienta. Ma sono cose, queste, che accadono talvolta. E solo a pochi.
Anche Marco Bardoscia, come molti artisti della nota, è un sognatore. Anche di più: e non solo per quel ciuffo ribelle che lo allontana dalla necessità di apparire allineato e coperto. O per quell’aria vagamente strafottente che si trascina da sempre e che, peraltro, prova ad occultare la sua natura di ragazzo sincero e per bene, ma libero da orpelli mentali e genuinamente calato nella propria realtà. Perchè, per chi non lo conosce, Marco Bardoscia da Copertino è davvero così: e non ci fa. Lui, sì, è un sognatore verace. Nella quotidianità, ancora prima che nella musica. E ci tiene a ribadirlo: con la sua seconda raccolta di brani, appena licenziati dall’etichetta My Favorite. The Dreamer (Il Sognatore, appunto) segue di qualche anno la sua opera prima, Opening, e contiene dieci tracce, nove delle quali rigorosamente originali (“Ninna Nanna per la Piccola Sara", “Rêve au Petit Sablon", “Hallelujah per il Mondo", “31.12.2009", “Chica y Nano", “Jet", “Preludio al Sorgere del Sole", “Il Sorgere del Sole" e “Impro") e una rivisitazione di uno spartito firmato da Ned Washington e Victor Young, “Stella by Starlight").
Il contrabbassista salentino, al di là dei sogni e dei loro effetti sulla vita di ogni giorno, conferma ancora una volta la sua caratura creativa, maturata dalla ormai lunga militanza in diverse formazioni jazzistiche di impronta moderna, dalle frequentazioni importanti (uno per tutti, Paolo Fresu) e dalla doppia residenza (si divide tra il Salento e Bruxelles), lasciandosi accompagnare dagli amici di sempre (da Raffaele Casarano a Fabio Accardi, da Alberto Parmegiani a William Negro, da Giorgio Distante a Carla Casarano, da Gianluca Ria a Luca Aquino) e da Fernando Bardoscia, vocalist di famiglia. Il disco, che il Locomotive Festival di Sogliano Cavour avrà il piacere di presentare ufficialmente ad inizio di agosto, coniuga ascoltabilità ed effetti mixati al computer, semplicità e mancanza di riguardo per la rigidità degli schemi. Anche gli assoli non grondano di virtuosismo, puntando piuttosto ad un’efficacia di fondo, cioè alla fruibilità. Un lavoro, in definitiva, di istinti freschi e idee duttili. Che non vuole arrampicarsi su chissà cosa. Da ascoltare, senza affannarsi. Il prodotto di un sognatore che vuole continuare a crescere.

The Dreamer (My Favourite, giugno 2011)
Marco Bardoscia (contrabbasso ed effetti), Raffaele Casarano (sax alto, sax soprano ed effetti), Luca Aquino (tromba ed effetti), Giorgio Distante (tromba e computer), Gianluca Ria (trombone), William Negro (pianoforte), Alberto Parmegiani (chitarra), Fabio Accardi (batteria), Carla Casarano (voce), Fernando Bardoscia (voce)