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sabato 3 agosto 2013

Experimenta, sei set tra stili e tendenze

Experimenta, per la natura del progetto stesso e per tradizione, ma anche per convinzione, esplora, sonda. E, molto spesso, naviga oltre la musica di maggior consumo, varcando i recinti delle note più scontate. Muovendosi tra stili e tendenze, senza ingabbiarsi tra le etichette. Percorrendo l'arte delle sette note (o dodici, fate voi) da un punto cardinale all'altro. E preoccupandosi di sposare la ricerca di nuovi aromi con una base artistica qualitativamente solida, i profili squisitamenti musicali di ogni singola performance con la sete di spettacolo che tanto - più della musica nuda - attira e coinvolge il pubblico. Soprattutto quello che circola nelle sere d'estate. La rassegna, ormai storica, di Gianluigi Trevisi non promette di stupire: ma, questo sì, cerca continuamente nuovi percorsi. O, quanto meno, variazioni sul tema. Riuscendoci, generalmente. Accostando a determinate scelte, talvolta, anche qualche buon nome della scena nazionale e internazionale: che viene dal jazz o dalla world music, dall'etnica o dalla popolare, dal pop o dal rock. E offrendo puntualmente, anno dopo anno (sono quindici, contandoli dall'inizio del viaggio), un prodotto credibile e sufficientemente genuino, molte volte intrigante, saporito per diversi palati. Al di là delle piazze o delle amministrazioni locali che ospitano la manifestazione, sbocciata ad Alberobello (e lì cullata per tredici stagioni) e, quindi, trasferita lo scorso anno a Polignano.
Experimenta, anche nel duemilatredici, non delude. Consegnando sei differenti situazioni musicali in tre giorni, tutte rigorosamente condizionate dall'originalità. Prima tocca alle sonorità popolari dei Rondeau de Fauvel, tre donne (voce, liuto ed arpa) e due uomini (piva, batteria e basso elettrico) che attingono parecchio dal repertorio tradizonale celtico, ma anche e soprattutto da quello medievale, rivisitati con l'apporto di strumenti più vicini ai giorni nostri e dell'elettronica, che si fa penetrante solo in prossimità della conclusione del live. Il gruppo, non tragga in inganno il nome, arriva da Vicenza e trascina con sè una miscela di suoni già concettualmente sperimentata da altri, in passato, ma equilibrata e facilmente sostenibile. Più rustico e di maggiore impatto, anche visivo (i protagonisti sono balticamente piazzati e si muovono molto, pure bruscamente), è il secondo set della prima serata, affidato alle cinque cornamuse, ai due tamburi, alla batteria etnica e ad un parente del contrabbasso degli Auli, formazione che arriva dalla Lettonia proponendo canti, danze e rituali di quelle terre, ma anche composizioni contemporanee riarrangiate. Energia a parte, colpisce l'amalgama cromatico degli strumenti portanti, cioè le cornamuse, versatili e plastiche.
Al secondo appuntamento si gira pagina. Ecco, allora, un progetto in esclusiva nazionale, quello degli Amine & Hamza Trio, due fratelli tunisini (all'oud e al qanun) e uno svizzero (al violino). Le tonalità terragne del Mahgreb si muovono, anche in questo caso, attraverso diverse composizioni contemporanee, ricche di timbri, ma assistite da una forte impronta della tradizione (e l'oud e il qanun, in questo, aiutano non poco) e dall'influenza di altre culture musicali mediterranee. A seguire, poi, il quartetto dell'emergente contrabbassista romana Caterina Palazzi, trentunenne con un passato remoto rockeggiante (con lei, sul palco, Maurizio Chiavaro alla batteria, Piero Delle Monache al sassofono e Giacomo Ancillotto alla chitarra elettrica). Il jazz dell'ensemble è fortemente venato di rock, che entra ed esce dagli spartiti, e spesso spruzzato di elettronica. Gli incipit, solitamente invasivi, precedono stati di tranquillità assoluta. Ad ogni accelerazione, corrisponde la stasi totale e il repertorio alterna tinte forti a sonorità più soft. Sudoku Killer, il disco recentemente licenziato dal gruppo, poggia le fondamenta, del resto, sugli enigmi matematici giapponesi e sulla reazione del cervello umano di fronte ad ognuno di essi.
La terza ed ultima serata, infine, è un'altra storia ancora. Anzi, due. Quello dei Cinedelika è un progetto interamente dedicato alle colonne sonore (di Morricone, Rota, Umiliani, Dalla, Piccioni, Carlos, Micalizzi e altri), un percorso ultimamente battuto da diverse formazioni italiane. Il quartetto abruzzese (Matteo Di Battista alle chitarre, Fabio D'Onofrio alle tastiere, Michelangelo Brandimarte al contrabbasso e Luca Di Battista alle percussioni) seleziona e riarrangia brani di successo, sconfinando in diverse correnti musicali. Mentre, dal proiettore, sgorga un montaggio di diversi fotogrammi. Infine, tre attori (Giorgio Tirabassi, il barese Paolo Sassanelli e Luciano Scarpa) si scoprono musicisti e, rispettivamente, imbracciano chitarra solista, chitarra ritmica e contrabbasso, facendosi accompagnare da Luca Giacomelli (altra chitarra solista) e Alessandro Golino (al violino). Ne esce un divertito e anche ironico omaggio a Django Rinhardt e alle sonorità manouche, ma anche una produzione leggera e, al contempo, impegnata. Che, di fatto, suggella la predisposizone di Experimenta ad abbracciare le anime diverse della musica del Duemila. Quell'epoca in cui, lo ripetiamo ancora una volta, non esiste più niente da inventare. Ma dove, però, c'è ancora spazio per guardare ed ascoltare da angolature sempre differenti.

01/02/03.08.2013
Polignano a Mare (BA), Piazza San Benedetto
Experimenta 2013

sabato 26 gennaio 2013

Curve nella memoria

Quando il gusto del racconto si confonde con il canto e le note della tradizione e qualche piccola scoperta lacera la patina di banalità che ci ingabbia o, peggio ancora, scalfisce le ipocrisie del nostro tempo, significa che abbiamo ancora ottimi maestri da ascoltare. E Moni Ovadia è uno di questi. E poi il suo mondo, in bilico tra storia e culture differenti, nella complessità che lo caratterizza, diventa persino di facile approccio, di agevole lettura. Per tutti: o tranne, forse, per chi si industria nel non intendere. Perchè arrampicarsi sullo specchio dell'intolleranza e dell'opportunismo è una delle discipline più praticate del secondo e del terzo millennio.
Sangue turco, discendenza ebraica, bulgaro all'anagrafe, residenza italiana: Ovadia, del resto, ne può raccontare parecchie. Fluttuando tra la storia e le storie, tra i culti e la cultura della memoria. Ripercorrendo trasversalmente gli ultimi ottant'anni di quotidianità. Presentandosi sul palco del Teatro il Saltimbanco di Santeramo, praticamente in coincidenza con la Giornata della Memoria, nella prima delle quattro serate inserite nel circuito griffato Teatro Pubblico Pugliese (il tour passa da Mesagne, Martina e si esaurisce a Gioia del Colle). E viaggiando, come sempre fa, attraverso le vicende che, nel tempo, hanno saputo involvere i processi di aggregazione (e, spesso, anche di pace) tra i popoli.
E di gente, infatti, Ovadia parla. Con l'ironia di sempre, ma anche con la forza della logica negata. «Quello degli ebrei della diaspora, degli yiddish, e quello dei sinti o dei rom sono popoli d'Europa in tutto e per tutto. Con la propria identità, la propria lingua, le proprie tradizioni, la propria letteratura. Ma senza territorio e frontiere, senza polizia e democrazia. Due popoli insultati, calunniati, segregati e, talvolta, massacrati. Che hanno vissuto in prima persona l'altrui progetto del proprio annientamento. Popoli che ci hanno lasciato musica, racconti e riflessioni. E dal destino comune, almeno per duemila anni. Perchè, sùbito dopo la Seconda Guerra Mondiale, qualcosa è cambiato, sepur lentamente: gli ebrei sono entrati nel salotto buono, quello dei vincitori, proprio mentre nasceva lo stato ebraico. I rom, invece, sono rimasti fuori dal contesto».
Dalle parole dello scrittore austriaco Joseph Roth alle danze che hanno influenzato la musica del novecento il passo è breve. E il quintetto che accompagna Ovadia (due clarinettisti italiani, il napoletano Ennio D'Alessandro e il romano Paolo Rocca, e tre rom) imbastisce la sua trama, dettata dall'agilità del cymbalon di Marian Serban, dalle tre corde percussive del contrabbasso di Marin Tanasache e dal dinamismo sonoro della fisarmonica di Albert Florian Mihai. «Quella zingara è una cultura al di fuori della routine. I rom festeggiano la vita, proprio mentre gli occidentali la rincorrono, schiavi della loro quotidianità e persino delle parole. Essere rom è avere il senso primario della vita. Molti di noi lo ignorano, nella miopia dell'universo che ci circonda, ma i sinthi si sono espressi egregiamente in ogni ambito. La loro musica, ad esempio, ha influenzato Brahms. Le danze ungheresi, che poi sono danze rom, nascono così. Ma anche il jazz: Django Reinhardt ha creato il gipsy. E la stessa musica popolare russa ha attinto da loro. E, se vogliamo parlare di musica leggera, ricordo un pezzo reso popolare dalla francese Mirelle Mathieu, ma di estrazione zingara».
Dalla Russia alla Francia, per sbarcare infine in Grecia: Moni Ovadia si avventura anche nel sirtaki. «Il meticciato produce grandi emozioni musicali. E la canzone popolare greca sa celebrare il buon bere, in pieno stile zingaresco. Del resto, qualcuno diceva: "Polvere eri e polvere ritornerai. Ma, tra una polvere e un'altra, una buona bottiglia non può fare male" ». Senza dribblare i drammi dell'ipocrisia («Guardiamo solo alcuni aspetti, abituandoci ai concetti della consuetudine. Oppure a quello che ci è comodo guardare»). Il viaggio tra la musica e i pensieri completa la seconda ora, il quintetto scende in platea e invade il foyer, regalando altri quindici minuti di note. La Memoria non è solo olocausto: parola di Moni Ovadia, parola di ebreo. «I campi di concentramento hanno ucciso sei milioni di yiddish, lo so bene. Gli altri sei, però, erano portatori di handycap, antifascisti e oppositori del nazismo, soldati ammutinati, omosessuali, prostitute e anche rom e sinti. Dobbiamo ricordare tutti: se no, la memoria diventa falsa coscienza».

Moni Ovadia (voce narrante e canto) in "Senza Confini - Ebrei e Zingari", con Paolo Rocca (clarinetto), Ennio D'Alessandro (clarinetto), Albert Florian Mihai (fisarmonica), Marian Serban (cymbalon) e Marin Tanasache (contrabbasso)
Santeramo in Colle (BA), Teatro Il Saltimbanco
Stagione Teatrale 2012/2013 del Teatro Pubblico Pugliese

venerdì 29 giugno 2012

Di Voce in Voce, nuovo look

Bari trova il suo contenitore logistico degli spettacoli all'aperto. E' il lungomare che accarezza la città vecchia, lambendo il porto. Piazzale Cristoforo Colombo è il nuovo crocevia delle note d'estate: da qui sono passati (o passeranno) la Festa dei Popoli, Bari in Jazz, live svincolati dall'etichetta di una manifestazione e altri appuntamenti ormai legati alla tradizione musicale del capoluogo e segnati da anni sulle agende degli appassionati. Non solo baresi, ovviamente. Come Di Voce in Voce, rassegna di nicchia (ancora oggi, malgrado la gratuità dell'evento e l'apertura ad una platea che, tuttavia, latita) e di contenuti non sempre dedicati ad un pubblico largo. Ma, piuttosto, a fruitori attenti, sensibili all'uso della parola e dei versi, oltre che alle tonalità speziate che, dai quattro angoli del mondo, attraversano il mare per trovare residenza in Puglia. Particolarità che, peraltro, la vecchia collocazione (l'auditorium della Vallisa: anche se, sino all'anno scorso, i live si concentravano in autunno) sembrava avvalorare, rafforzare. Ma l'esigenza sfrenata di spettacolo avanza sempre più speditamente, impietosa: a costo di costringere pure i concerti di maggior qualità alla globalizzazione culturale, allo struscio sotto il palco e alla birra che scorre vicina. E dovremo pur farcene una ragione, dimenticando l'intimità di un tempo. O quelle atmosfere sulle quali il cartellone ideato da Giuseppe De Trizio e dall'associazione Radicanto si è ispirato, appoggiato e alimentato nelle prime edizioni. Alle quali, onestamente, ci eravamo affezionati. E per le quali, alrettanto onestamente, proviamo già una solida nostalgia. Ma, del resto, le sponsorizzazioni aiutano a sopravvivere: e certi passi diventano obbligatori, a volte.
Quest'anno, poi, l'avvio della programmazione musicale coincide con gli Europei del pallone. E la prima delle due giornate in cui viene spalmato Di Voce in Voce si scontra addirittura con la seconda semifinale del torneo continentale. Quindi con l'Italia di Prandelli e la Germania di Loew. Praticamente, con la continuazione ideale di un'insostituibile storia calcistica. Risultato: la programmazione slitta di un'ora e mezza (si parte con la proiezione su maxischermo della partita) e si comprime nei tempi. Inevitabile, allora, che - tra agitazioni, distrazioni e residui di tifo - qualcosa si perda: in intensità e in delicatezza, innanzi tutto. Ma questo è. Però, la prima tranche della rassegna porta in dote la presentazione di due cd, di uscita freschissima: Arriva la Banda e Casa. Il primo, sottofirmato da Puglia Sounds, è la nuova proposta discografica dei Bandadriatica, formazione di impatto consolidato e dai balcanismi sempre robusti, modellati con la consueta digeribilità. La ciurma di Claudio Prima continua a spostarsi di porto in porto, tra scirocco e libeccio, grecale e tramontana, licenziando undici tracce alle quali, in sala di registrazione, collaborano tre tra le migliori voci del Salento: Cinzia Villani, Maria Mazzotta ed Enza Pagliara. Cover a parte ("Come Fanno i Marinai", omaggio a Lucio Dalla spuzzato di rebetiko: il gruppo salentino, evidentemente, ha anticipato sui tempi anche Capossela), la ricetta è quella solita: ai momenti di frenesia pure si alternano oasi di vero e proprio cantautorato, di sapido gusto popolare. Nell'esibizione dal vivo, tuttavia, viene a mancare il violoncello di Redi Hasa, ma non un paio di rifermenti a Maremoto, il fortunato lavoro precedente: di cui Arriva la Banda appare la naturale continuazione artistica.
Casa, invece, è l'ultimo album confezionato dai Radicanto, che raccoglie (e, contemporaneamente, rivisita) canti e composizioni della vasta area mediterranea, avvalendosi anche della voce e della verve di un vecchio amico come Raiz, ex leader degli Almamegretta, che così torna ad esibirsi con il gruppo fondato da Giuseppe De Trizio. L'esibizione si carica di volumi, si presenta con una veste decisamente più moderna, più elettrica. Raiz, sul palco, finisce per catturare molti spazi per sè e, probabilmente, le tonalità più tradizionali del gruppo finiscono per essere stravolte. Ma il percorso musicale resta ugualmente genuino e fantasioso. In chiusura, poi, Radicanto e Bandadriatica si ritrovano assieme sul palco dove, immediatamente dopo, vengono raggiunti dalla Sossio Band, che peraltro ha aperto il cartellone della prima serata. Le vigorose tonalità del settetto gravinese engono riassunte in "Muretti a Secco", un disco abbastanza recente in cui si incontrano ritmi serrati, ricorrenti commistioni musicali e testi terragni (in dialetto murgiano), ma anche socialmente impegnati, dove emergono il sassofono di Francesco Sossio e la voce della versatile Loredana Savino, che ricordiamo coinvolta pure in altre situazioni differenti (con l'ensemble vocale Le Nuvole, ad esempio).
E' di prestigio particolarmente alto, invece, l'ospite della serata conclusiva della rassegna: Francesco De Gregori accompagna Ambrogio Sparagna e la sua Orchestra Popolare Italiana dell'Auditorium del Parco della Musica. E' uno di quei casi in cui la musica popolare si fa musica d'autore. E viceversa. Le due anime si intrecciano agili, si completano. Sparagna dirige e puntella, De Gregori (più sciolto e comunicativo di altre occasioni dal vivo) piazza qualcosa del suo repertorio, scommettendo anche sulla produzione degli anni settanta ("Ipercarmela", "Santa Lucia"), senza dimenticare il decennio successivo. Dai versi musicati di Dante si finisce così a "Terra e Acqua", "La Ragazza e la Miniera", "Sotto le Stelle del Messico a Trapanar", a "Stelutis Alpinis" (che poi è un pezzo del patrimonio popolare rivisitato e rivalutato proprio dal cantautore romano) e alla più recente "Volavola". Oltre tutto, tra un brano e l'altro, spunta anche Raffaello Simeoni, uno che sa catturare l'attenzione, che viaggia sul filo delle emozioni. Con De Gregori, è logico, arriva anche la gente e il piazzale si riempie. Ma ci piace ricordare per l'eleganza i due momenti che precedono il clou: prima il quintetto di Maria Giaquinto si perde tra composizioni pugliesi, andaluse e sarde, rimescolando le frontiere e provando anche a riproporre la versione napoletana (di Teresa De Sio) di un brano scritto dal brasiliano Lenine e quella in reatino di "Ebla", del già citato Simeoni (e, quindi, dei Novalia). Quindi, immediatamente dopo, il gruppo formato da Francesco Piepoli (la sua voce è, contemporaneamente, punto di riferimento, guida e colonna portante del progetto) spazia tra ballate tradizionali irlandesi, britanniche e qualche autore degli anni settanta come John Martin. Il marchio di fabbrica di una rassegna come Di Voce in Voce nasce proprio qui, tra queste progettualità.

Di Voce in Voce 2012
Bari, Piazzale Cristoforo Colombo

28.06.2012

Sossio Band (Francesco Sossio: voce e fiati; Loredana Savino: voce; Pasquale Barberio: fisarmonica; Tommaso Colafiglio: chitarra; Gianfilippo Direnzo: basso acustico; Michele Marrulli: tamburi a cornice; Pino Basile: percussioni) in "Muretti a Secco";

Bandadriatica (Claudio Prima: voce ed organetto; Giuseppe Spedicato: basso; Emanuele Coluccia: sassofono; Andrea Perrone: tromba; Vincent Grasso: clarinetto; Gaetano Carrozzo: trombone; Ovidio Venturoso: batteria) in "Arriva la Banda";

Raiz (voce) & Radcanto (Giuseppe De Trizio: chitarra; Fabrizio piepoli: voce, basso e loop; Adolfo Lavolpe: chitarre e bouzouki; Giovanni Chiapparino: fisarmonica; Francesco De Palma: batteria) in "Casa"


29.06.2012

Maria Giaquinto Quintet (Maria Giaquinto: voce; Giuseppe De Trizio: chitarra; Adolfo lavolpe: chitarra elettrica e basso elettrico; Giovanni Chiapparino: fisarmonica; Francesco De Palma: batteria);

Fabrizio Piepoli Quartet (Fabrizio Piepoli: voce e chitarra; Adolfo Lavolpe: chitarra elettrica; Alessandro Pipino: Nord Sage; Francesco De Palma: batteria);

Francesco De Gregori (voce) & l' Orchestra Popolare Italiana dell'Auditorium del Parco della Musica diretta da Ambrogio Sparagna

domenica 9 ottobre 2011

Il canto e la narrazione


Piacevoli abitudini. Ad ottobre, ormai ogni anno, Di Voce in Voce atterra puntuale sulla programmazione musicale barese. Senza mai smarrire il dono della sensibilità, nè il gusto per la ricerca o per l'introspezione di certe note di confine. La rassegna, ideata dall'associazione Radicanto e coordinata da uno dei suoi fondatori, Giuseppe De Trizio, fluttua da tre stagioni tra cantautorale, popolare ed etnica, intrecciando parole delicate, versi, tonalità speziate, musica del mondo e profumi terragni.
Bastano quattro giorni, per un puzzle incisivo e ben shakerato. Di giovedì, si parte con il trio Sas Thaj Nas (Marinella De Palma: voce, tastiere e santur; Francesco De Palma: voce e percussioni; Fabrizio Piepoli: voce, santur, chitarre e tastiera), supportato dal guest Adolfo La Volpe (mandolino e basso). Tra versi, favole e canti tratti dalla leggenda islandese, dal patrimonio rom, yiddish, sefardita e persiano e dalle tradizioni musicali irlandesi o mediterranee, Era o Non Era è un progetto che sorvola il tempo, alimentandosi anche di una dose decisa di elettronica, ma planando leggero. Tutto ruota attorno alla voce di Marinella De Palma e Fabrizio Piepoli, che modulano il concerto, scandendo il ritmo e avvolgendo il repertorio. «Del resto - interviene Giuseppe De Trizio - questa terza edizione è volutamente dedicata alla centralità del canto, alla voce e ai suoi rivoli. Quindi, canzoni e racconti si fondono e si compensano in un viaggio sonoro e geografico per vari luoghi. La voce canta e, soprattutto, narra, offrendo al prodotto finale una capacità evocativa più profonda. Peraltro, la dimensione del racconto è un aspetto particolare della world music, che poi ispira da sempre i Radicanto o formazioni come il Sas Thaj Nas, che dei Radicanto può essere considerata una costola. Non solo: tutto questo rientra a pieno titolo nel concetto di contaminazione, a cui siamo particolarmente legati».
Concetto, questo, che non sfugge neppure ai Tabulè, ritrovatisi dal vivo ad otto anni di distanza dal primo e, al momento, unico lavoro discografico, Marie Merci, uscito con l'etichetta della Compagnia delle Nuove Indye. Claudio Prima (voce e organetto), lo stesso Giuseppe De Trizio (mandolino e chitarra) e ancora Fabrizio Piepoli (voce e chitarre) s'ispirano a uno dei piatti classici del medioriente (il tabuleh, appunto, ovvero l'insalata di cous cous) per preparare una convergenza di stili ed esperienze che, però, possiedono una base ben definita. Come, ad esempio, il piacere della scoperta, la coltivazione delle emozioni e l'esigenza di abbattere certe barriere culturali. Anche quelle di casa nostra, perchè no: riuscendo a mettere assieme, sullo stesso palco, le due anime del trio, quella barese e quella salentina.
Altro repertorio, invece, di venerdì: Matteo Marolla e una delle icone della canzone folk italiana, Lucilla Galeazzi, colorano due set distinti che si raggomitolano attorno alle radici del canto. O, come sottolinea De Trizio, due interpreti che riscoprono la particolarità del dna musicale della penisola. Marolla dedica la sua ora di live al conterraneo Matteo Salvatore, cantore di un tempo perduto e autore di estrazione contadina, legato ai temi dell'emigrazione, della fame, della dignità. «Ho scoperto Marolla a Silvi Marina, nel corso di un'altra rassegna, nel duemilauno. Matteo mi piace perchè rende vive e, soprattutto, autonome le creazioni di Salvatore». «Io - aggiunge lo stesso Marolla - ho respirato gli stessi profumi di Salvatore: arrivo da San Severo, a pochi chilometri da Apricena. Ma guardo le cose da un punto di vista diverso, perchè espressione di un'epoca differente. Tuttavia, sono rimasto semèpre affascinato dal suo modo di raccontare con poche immagini un intero mondo». Un mondo di proverbi, di marginali, di braccianti e caporali, di personaggi di paese, di miseria e disgrazie. E di storie qualunque, di ogni giorno.
Lucilla Galeazzi, sùbito dopo, condivide con il chitarrista palermitano Davide Polizzotto un'idea indovinata: all'interno dell'Auditorium della Vallisa suonare in acustico si può e l'occasione va colta. Il progetto (Ancora Bella Ciao) è asciutto, molto discorsivo. Quasi didattico. E condensa quarant'anni di canzone folk, riscoperta in Italia nel dopoguerra e, soprattutto, sull'onda delle polemiche nate nel corso del Festival dei Due Mondi di Spoleto, anno millenovecentosessantaquattro. «Grazie al quale - rivela la vocalist ternana - riuscii ad avvicinare questa nuova espressione di protesta. Scoprendo un universo di cui in pochi, io compresa, erano a conoscenza. E che poi è diventato parte integrante della mia vita e la mia professione. Altrimenti relegata a contenitore di pochi motivi popolari della mia terra».
Due concerti al giorno. Anche di sabato. Casa Rosada è un trio che rivisita la tradizione meridionale italiana, attraccando però versi altri porti (il Portogallo, ad esempio), senza però rinunciare a proprie composizioni. Puntando sulla melodia, su arangiamenti golosi e sull'energia di favole quiete. Maria Giaquinto, leader del gruppo, racconta storie che inseguono il mare, «gli echi delle onde che segnano il nostro viaggio e le maree che, talvolta, cambiano il paesaggio. Quelle maree che sono una chiara, selvaggia chiamata». Poi, però, si scende anche sulla terraferma, in certi luoghi del sud, città di santi appesi ai muri e di bestemmie al cielo. Immediatamente dopo, Pino De Vittorio. L'atmosfera è da Compagnia di Nuovo Canto Popolare, eredità di una lunga collaborazione con Roberto De Simone. Voce, chitarra battente ed eleganza naturale, l'artista jonico ripercorre con teatralità consumata alcune tappe della tradizione pugliese, indugiando molto sul Gargano e affacciandosi sul Salento. Quindi, passando anche per gli stornelli di Leporano e sconfinando brevemente in Lucania (Bernalda). Esibizione dai toni intimi, come lui stesso suggerisce, ma profondi. Intanto, la voce riempie lo spazio, accentra: dirigendo la musica, dettando la linea del concerto.
Ai Radicanto, formazione padrona di casa, tocca infine la domenica. Il live di chiusura della kermesse si riassume nella presentazione di Bellavia (edizioni III Millennio, aprile 2011), settimo ed ultimo lavoro del quintetto, dalle tonalità decisamente più pop, rispetto agli album precedenti e tuttavia rispettoso del tragitto artistico di una formazione che, ancora una volta, ha saputo attingere (dallo stesso Di Vittorio, oppure da Enzo Delre), ma pure creare soluzioni di ottimo cantautorato. Prima, però, palcoscenico per Aronne Dell'Oro, folksinger trentacinquenne che scende da Milano, ma temprato da solide frequentazioni nella musica popolare di casa nostra. Che rimane patrimonio da coltivare e incoraggiare. Innervandolo, magari, di stimoli e venature nuove: che, poi, è l'obiettivo di rassegne come Di Voce in Voce. Da quest'anno, per la cronaca, costretta allo sbigliettamento (prezzi onestissimi, peraltro). «I fondi per la cultura - confessa Giuseppe De Trizio - diminuiscono sempre più: e, allora, è necessario che la gente cominci ad abituarsi all'idea di entrare a pagamento anche dove, in passato, non era richiesto». Così va l'Italia.

Sas Thaj Nas (Marinella De Palma: voce, tastiere e santur; Francesco De Palma: voce e percussioni; Fabrizio Piepoli: voce, santur, chitarre e tastiera) in "Era o Non Era", guest Adolfo La Volpe (bouzouki e basso)

Tabulè (Claudio Prima: voce e organetto; Giuseppe De Trizio: mandolino e chitarra classica; Fabrizio Piepoli: voce e chitarre) in "Marie Merci"

06.10.2011


Matteo Marolla (voce e chitarra classica) in "La Strada e le Stagioni"

Lucilla Galeazzi (voce e chitarra classica) & Davide Polizzotto (chitarra classica e chitarra battente) in "Ancora Bella Ciao"

07.10.2011


Casa Rosada (Maria Giaquinto: voce e tamburello; Giuseppe De Trizio: chitarra classica; Adolfo la Volpe: chitarra portoghese) in "Maree"

Pino De Vittorio (voce, chitarra classica e chitarra battente) in "Tarantelle del Rimorso"

08.10.2011


Aronne Dell'Oro (voce e chitarra acustica) in "Canto d'Amore"

Radicanto (Maria Giaquinto: voce; Giuseppe De Trizio: chitarra classica; Fabrizio Piepoli: voce e basso elettrico; Adolfo La Volpe: chitarra elettrica; Francesco De Palma: percussioni) in "Bellavia"

09.10.2011

Di Voce in Voce
Bari, Auditorium Diocesano Vallisa

venerdì 12 agosto 2011

Sparagna, il suono di una civiltà


Il legame con la Puglia, fa capire, è sempre molto saldo. E non potrebbe essere altrimenti. Facile, con tutto quello che è intercorso tra lui, menestrello di note inossidabili e di umori antichi, e una regione stretta tra il mare e un certo retaggio del passato, le sue tradizioni e la civiltà contadina: che pulsa ancora molto forte, malgrado l’indifferenza di tanti. Il rapporto è solido: al di là della Notte della Taranta, l’evento che ha scollinato i confini della territorialità, approdando nei circuiti più vasti (e anche più anonimi, talvolta) della world music. Quella Notte della Taranta di cui, per tre stagioni, è stato stratega, caudillo, ispiratore, coordinatore, uomo immagine, parafulmini. Dopo e prima di altri. La passione per la Puglia è intatta, fa sapere. Quasi viscerale. Non ne dubitiamo. Ed è anche per questo che Ambrogio Sparagna, pontino di Maranola, in queste contrade ci torna abbastanza spesso. E, da quel che immaginiamo, anche volentieri.
A Gioia, nel podere antistante l’antica (e premiata) Distilleria Cassano, esempio positivo (e riconvertito ad uso e consumo delle arti) di archeologia industriale, l’organettista più conosciuto della penisola in ambito popolare si è concentrato sul palco de I Suoni della Murgia, fortunata rassegna che, da tempo, si frantuma anche altrove (Gravina, Altamura, Terlizzi) e che rappresenta uno dei migliori contenitori estivi pugliesi, per longevità e qualità media delle proposte. Grazie, soprattutto, all’impegno degli Uaragniaun, storico gruppo di ricerca e di rivisitazione degli spartiti che mettono assieme tonalità terragne e consapevolezza di un’eredità culturale più densa di quanto siamo orientati a pensare. Nel penultimo degli appuntamenti in programma (prima del live conclusivo degli stessi Uaragniaun, si sono alternati anche Orchextra Terrestre, il Soffio dell’Otre di Nico Berardi, Rocco De Rosa, Sossio Banda, Jazzabanna, la Paranza di Marcello Colasurdo, Ventanas, Kalascima, Mario Salvi e Raffaele Inserra), Sparagna è arrivato con tre compagni di viaggio (Valentina Ferraiuolo alla voce e al tamburello, Cristiano Califano alla chitarra e il fondatore dei Novalia Raffaello Simeoni alla voce e ai flauti), a serata ampiamente inoltrata. Chiudendo, di fatto, una kermesse che ha voluto riunire il gusto per la sagra, per la tavola, per la produzione – non solo alimentaria – locale e per lo spettacolo più generalista (una selezione di concorrenti di Miss Italia).
Il concerto è stringato nei tempi (un’ora più il bis), ma intenso. Vive di un bagaglio proprio, senza entrare in casa di altri, cioè senza replicare stucchevolmente cose già viste e sentite. Ovvero, senza la presunzione di aggraziarsi la platea con incursioni facili nel patrimonio musicale locale. Mantenendosi nei binari della canzone popolare d’autore, con un taglio sobrio e concreto. E accortocciandosi a quei punti di riferimento che l’artista laziale ritiene imprescindibili: «La mia musica parla di storia e tradizioni secolari. E chi vive in Puglia sa quanto queste tradizioni siano fortemente legate alla cultura contadina: peraltro, lo stesso il Festival della Taranta che ho avuto l’onore e il piacere di accompagnare da vicino, fa proprio di questa cultura contadina il suo perno e il centro della propria produzione. Io e il mio gruppo cantiamo le radici. E le radici sono il canto che ci riporta indietro nel tempo. Radici forti, come quella dell’ulivo, che è un simbolo della vostra terra. E siamo qui a cantare nonostante il disordine che ci circonda. Cercando un mondo più sereno dove, magari, la musica possa creare quel senso di comunione e armonia di cui avvertiamo l’esigenza». Anche l’utopia, del resto, è un sentimento profondamente popolare.

Ambrogio Sparagna (voce e organetti), Valentina Ferraiuolo (voce e tamburello), Raffaello Simeoni (voce e flauti) & Cristiano Califano (chitarra)
Gioia del Colle (BA), ex Distilleria Cassano
I Suoni della Murgia 2011

venerdì 3 giugno 2011

L'Escargot, tra nostalgie e piccole allegrie


Organetti, fisarmonica, violino, banjo e chitarre, flauti, tamburello e varia bigiotteria della musica: cornamusa e sansula compresi. L’Escargot è un quartetto quasi colto, con le radici ben salde nel passato. Di una cultura che solo la musica popolare riesce a suggerire. E popolare nei sentimenti, che solo certa musica sospesa nel tempo riesce a modellare. Quella dell’Escargot è musica nascosta che, all’improvviso, deborda. Impressa nella memoria collettiva, ma tirata fuori da anfratti dimenticati e soffitte polverose. Come certe cartoline invecchiate dagli anni, ingiallite. Melodia e armonia: tutto ruota attorno a questi due postulati. Ma c’è anche il buon gusto. Il gruppo, peraltro, è rodato. Massimo La Zazzera, Alessandro Pipino, Adolfo La Volpe e Stefania Ladisa cooperano da molto: rubando qua e là (in Francia, per la precisione) e, soprattutto, percorrendo la strada della brillantezza compositiva.
Il progetto è una bella idea che fluttua tra nostalgie e piccole allegrie, dove il sound gronda da un sapere antico che si nutre di stimoli nuovi. Perfettamente valorizzato, poi, dal largo che si apre tra il castello, il mare e il centro storico di Monopoli e dalla serata dolcemente fresca di un giugno appena sbocciato. Concerto speziato: quasi intimo, prima che la platea si affolli, a lavori già in corso. E che si snoda attraverso il primo (e, al momento, unico) lavoro discografico licenziato della formazione, Corri. Ultimamente ristampato, tra l’altro: notizia di servizio sottolineata, del resto, con orgoglio. Ma che guarda, contemporaneamente, al secondo album, in via di definizione. Il primo titolo in scaletta sa di manifesto programmatico: “La Vecchia Singer”, spiega Adolfo La Volpe, è il simbolo di un passato e di un’Italia ormai lontana che, forse, bisognerebbe riscoprire. O recuperare. “In Cammino”, invece, è la colonna sonora di un documentario girato recentemente da Claudia Cassandro – e già in circolazione - sul quartetto, oltre che un jingle passato per i canali Mediaset.
Del primo cd fanno parte anche “Magida”, “Corri” e la più conosciuta “Norma”, composizione di Massimo La Zazzera (ex Radicanto, Kiltartan, Ensemble Calixtinus e Ziringaglia, tra gli altri) ispirata ad una burattinaia. “Loubov”, invece, è uno dei tre omaggi particolarmente sentiti al francese Stéphane Delicq (gli altri sono “Les Amities” ed “Estrellas”), mentre “Burbero” è una mazurka che farà parte del secondo disco. Lavolpe firma “Mauve”, Stefania Ladisa “Falce di Luna”, Alessandro Pipino – che poi è anche il tastierista dei Radiodervish - “Valle dei Treni Interi” (avete letto bene, il titolo è proprio quello). Infine, “Les Valcerves” è un tributo ad un altro autore francese, il fisarmonicista Marc Perrone. Il risultato finale è un live lieve, ma intenso. Ben strutturato, ben confezionato. Di largo consumo, senza perdere di qualità. Per una scelta, quella di Biolfish 2011, azzeccatissima. Che fa bene al movimento musicale di questa terra, che ha sempre qualcosa da dire e da dare. Anche se certe date passano inosservate. Nel migliore dei casi, trasversali. Ma l’incapacità di pubblicizzare o di sostenere determinati appuntamenti è, probabilmente, una delle condanne della Puglia: ci siamo abituati.

(foto Pasquale Raimondo)

L’Escargot (Massimo La Zazzera: flauti, cornamusa, tamburello, chitarra, percussioni; Alessandro Pipino: organetto diatonico e fisarmonica; Stefania Ladisa: violino; Adolfo La Volpe: chitarre e banjo)
Monopoli (BA), Largo Castello di Carlo V
Biolfish 2011

lunedì 5 luglio 2010

Penelope, profumo di Adriatico


Nuove strade, percorrendo vecchi sentieri. Centrifugando emozioni e affinità eletive, suoni e retaggi culturali. Le frontiere della musica popolare e anche quella della tradizione si sono allargate da tempo. Guardando a sud, a nord, ad ovest. E ad est: da dove provengono tonalità che si allacciano volentieri alla cultura mediterranea della Puglia. E, da tempo, la radice salentina si è ramificata oltre l’Adriatico, in luoghi dove sa nutrirsi per tornare rimodellata, arricchita. Gli Adria, per esempio, sono tra quelli che, sempre più spesso, oltrevarcano quel mare che unisce: riapprodando, infine, sulle sponde di Puglia. Scambiando con quel mondo vicino e ancora un po’ misterioso idee, sensazioni, esperienze. Claudio Prima, il suo leader, sperimenta, accosta, rischiando soluzioni anche imprevedibili: da anni. Con la sua Bandadriatica, che poi è l’evoluzione orchestrale del progetto di base, e con questa formazione di soli quattro elementi: più intima, meno invadente, più attenta alle sfumature. Il viaggio di andata e ritorno verso sponde diverse, dunque, è datato. E non si ferma mai. Adria, cioè, è l’intuizione di partenza che non si sgretola. Ma che, anzi, si fortifica. Che vanta molte situazioni dal vivo e buona fama. E che, nonostante tutto, sino a maggio scorso non si sorreggeva su alcun supporto discografico. Stranamente.
Ma il difetto - da maggio, appunto - è cancellato. Con Penelope, il primo album del consolidato quartetto salentino: che gli Adria hanno presentato nel cortile del Palazzo Baronale di Collepasso, da quelle parti chiamano più confidenzialmente castello. E che, in realtà, è una location recentemente ristrutturata, un contenitore assolutamente adatto ad ospitare le situazioni culturali che transitano. Come Collepasso InVeste d’Arte, una sei giorni approntata dall’associazione Cantieri Ideali che coniuga musica, teatro, letteratura e fotografia. Penelope, registrato alla Fabbrica dei Gesti di San Cesario, a pochi chilometri da Lecce, e supervisionato da Valerio Daniele, è quindi un disco che raccoglie parte della produzione già eseguita dal vivo in differenti occasioni. Complessivamente, undici tracce alle quali, nel corso del concerto di Collepasso, si sono affiancati altri titoli. Da "Moulinette" ad "Aujourd’hui", da "25 Trecce" (canto di matrice albanese) a “Non Ti Ho Detto” («scritto – rivela Claudio Prima – con la malinconia di chi non ha avuto il tempo di dire tutto»), da “Penelope” (è il brano che suggerisce il nome all’intera raccolta) a “Canto” («brano sviluppato in italiano, ma pensato in dialetto, dedicato alla musica popolare: nella speranza di conservarne la semplicità»), da “G24”( «quando la musica del mare si mescola al traffico dele città che si affacciano sui porti dell’Adriatico, si fa nervosa, caotica») a “Pa Llegar Hasta tu Lado” (unica cover, della messicana Lhasa De Sela). Per finire con Napoloni, un sunto delle danze che accompagnano gli interminabili matrimoni albanesi.
«Cercare la musica in Adriatico – scherza Claudio Prima – è come cercare la principessa in questo castello. Bisogna passeggiare lentamente, stanza per stanza, con passione: certi che il suo sguardo, prima o poi, premierà le fatiche della navigazione o del cammino». L’incrocio di trame musicali dove diverse identità musicali si incrociano senza scontrarsi è affidato all’organetto del suo capitano, al violoncello di Redi Hasa, arrivato in Salento da Tirana, ai sassofoni del galatinese Emanuele Coluccia e alla voce elastica e senza tempo di Maria Mazzotta, che allarga gli orizzonti, offrendo compiutezza ad un lavoro che Prima non esita a definire tritatutto. Non a caso: perché il punto nodale della questione è reinventare e reinventariare suoni e accordi, improvvisare, trascinare il patrimonio musicale di un porto verso un altro, mescolare, shekerare. Lasciandosi cullare e spalleggiare da quell’Adriatico che dà e pretende. Che tutto prende e tutto concede. E che non sta fermo mai.

Adria (Claudio Prima: organeto e voce; Maria Mazzotta: voce; Emanuele Coluccia: sassofoni; Redi Hasa: violoncello)
Collepasso (LE), Palazzo Baronale
Collepasso InVeste d’Arte

mercoledì 29 luglio 2009

Ricordi senza frontiere

Concierto Intimo. Concerto sulle tracce del Sudamerica. Il Sudamerica quasi arcaico. Ma anche il Sudamerica dei giorni appena passati: giorni di lotta dura e di sangue, soprattutto. Giorni vissuti intensamente, nel terrore e nella speranza. E, infine, nel Sudamerica di sempre: che ha rivendicato terra e libertà, oppure la semplice dignità nazionale. E che ancora rivendica: una visibilità vera, un posto al tavolo della concertazione globale. Concierto Intimo. Ma intimo perché? Perché, se poi gli spartiti dirottano verso il Messsico e verso Cuba, affettivimante vicini, ma geograficamente più distanti? E se poi la musica plana sulle coste dell’Europa? Concierto Intimo, allora, è davvero un modo per seminascondere la matrice di un’idea? Quella, cioè, di ripercorrere gli anni più avvelenati e il percorso più faticoso ed esaltante degli Inti Illimani, gruppo di culto di una generazione intera e simbolo tra i simboli di un’epoca? Sì, verrebbe da dire di sì. Perché, sul palco delle Cave di Fantiano, a Grottaglie, singolare teatro all’aperto recentemente recuperato (concerti o no, è consigliabile la visita) e scelto dalla locale amministrazione comunale per accogliere le tre date della rassegna Musica Mundi, con gli Acanto – formazione italianissima – ci sono il chitarrista cileno Raul Céspedes e, innanzi tutto, Max Berrú Carrión, uno dei fondatori di quella formazione ormai transitata nella leggenda della musica del secolo passato. Del resto, quelle prime quattro lettere di Intimo, coincidono perfettamente con le prime quattro di quella parola un po’ magica, Inti Illimani. Utili, chissà, a risvegliare gli animi di certi nostalgici che ancora possiedono la forza di muoversi, riunirsi ed ascoltare. E sperare, perché no. Adesso più di prima: proprio quando gli Inti Illimani – l’ensemble che continua a trascinarsi il nome del progetto originario e il senso della storia - hanno già inaugurato un percorso differente. O meglio: più vicino alle origini, ovvero alla musica popolare latinoamericana. Con una produzione nuova, sgravata da certe ombre di avant’ieri.
Intimo ed Inti Illimani: ecco, sembra tutto chiaro. Eppure, Concierto Intimo sembra solo gravitare attorno agli Inti Illimani e a quelle ombre di avant’ieri. E’ vero, c’è il pretesto: Max Berrú, appunto. E c’è anche un certo prurito, perché negarlo. Anche perché molta di quella gente seduta in platea non attende che certe quarantennali note. Quelle note di un’epoca. Di una generazione. Ma Concierto Intimo cerca di scavalcare la barriera. Di sganciarsi da quella palpabile sensazione di attesa. Da quel marchio di fabbrica che, consapevolmente oppure no, si è incollato addosso. Ecco perché l’approccio dell’esibizione circumnaviga i titoli delle canzoni più amate. E la scaletta viaggia, come si diceva, dal Messico di “Nuestro México Feverero ‘23”, un inno che celebra la vittora di Panza sulle forze statunitensi e una storia cancellata dalla storia, e di “La Petenera” ai ritmi caraibici come la sfruttatissima “Guantanamera”; dalle composizioni dell’indimenticabile Victor Jara al duplice ed apprezzabile omaggio (la felicissima versione di “Dolcenera” e “Andrea”) a Fabrizio De Andrè; dalla rivisitazione molto rispettosa di “Pe’ Dispietto”, della Nuova Compagnia di Canto Popolare, alla riscoperta di motivi colombiani e peruviani. Lasciando, peraltro, lo spazio per un brano originale, “Apeninas” di Giancarlo Odoardi, pluristrumentista di lunga navigazione, e per le intillimaniane “Rin del Angelito” (atto dovuto alle qualità compositive di Violeta Parra), “Simón Bolívar” e “Alturas”. Come a dire: ritroviamo lo spirito di quegli anni, di quel gruppo, di quegli Inti Illimani. Ma sappiamo fare anche altro. E cerchiamo di abbracciare la terra latinoamericana per intera. Anzi, il mondo. Intimo sì: ma il Concierto azzera le frontiere e respira profondamente.
«Vengo dal Cile e porto il saluto dei cileni e della democrazia, faticosamente riconquistata», dice Max Berrú. «Quella democrazia che si è allargata in tutto il continente». E’ l’unico tributo del leader al ricordo. Prima e dopo, solo note ricostruite con maniacale fedeltà (talvolta, sembra di riascoltare i vecchi vinili) e un’ambientazione curata nei particolari. Gli Acanto, i sei componenti della formazione che accompagna i guest Céspedes e Berrú, ruotano attorno agli strumenti e si esprimono in uno spagnolo convincente: merce rara, in tempi di globalizzazione spicciola e di superficialità sovrana. Alla fine, però, devono pur cedere alle pressioni del pubblico che aspetta e che ancora non si è completamente riscaldato. Dopo gli applausi di fine concerto, arrivano i bis, come un treno. Il treno del passato, mai dimenticato. “Fiesta de San Benito”, “Canción del Poder Popular” e “El Pueblo Unido Jamás Será Vencido”: sì, ci siamo. Siamo al punto in cui saremmo dovuti arrivare. In cui sapevamo di dover arrivare. Parte, timidamente, anche il pugno sinistro di Max Berrú e qualcuno chiede – inutilmente – gli accordi immortali di “Hasta Siempre, Comandante”. Sarà per un’altra volta, magari. L’atmosfera si è infervorata, proprio sui titoli di coda. Ma la gente defluisce contenta. Soddisfatta da due ore lontane dagli schemi. E appagata: in fondo, molti erano lì per un solo motivo.

Max Berrú Carrión (voce e congas), Raul Céspedes (chitarre) & Acanto (Riccardo Iacobone: voce e chitarra; Pietro D’Antonio: flauto, chitarre e voce; Giancarlo Odoardi: chitarra, fisarmonica e percussioni e voce; Normando Marcolongo: basso, contrabbasso e voce; Giuliano Angelozzi: flauti, chitarre, percussioni e voce; Luca Bellisario: batteria, percusioni e voce) in “Concierto INTImo”

Grottaglie (TA), Cave di Fantiano
Musica Mundi 2009

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

sabato 25 aprile 2009

Tecnica e sentimento

L’artista, di fronte al pubblico, è schietto e diretto. Di solida comunicazione, diremmo. E l’approccio al pubblico è semplice, genuino. La sua chitarra, invece, è persino esuberante. Ricca: di suoni, di accordi, di tonalità. Perché gioca sulla tecnica. E sui colori. Tecnica, certo: moltissima tecnica. Ma anche sentimento. Cioè piacere puro di offrirsi. Franco Morone, frentano di Lanciano, quattro anni dopo bussa nuovamente alla porta della Saletta della Cultura di Novoli, casa tradizionale della rassegna Tele e Ragnatele, longeva creatura di Mario Ventura, uno che ama tanto la musica e poco i confini culturali e musicali, pescando spesso e volentieri nel mare della canzone alternativa o di nicchia. E che, per questo, merita robusti tributi di stima.
Il progetto del concerto proposto da Morone è semplice: al centro c’è la chitarra, la passione per lo strumento, l’immediatezza del messaggio. Attorno, c’è la musica: tradizionale o blues, raccolta oppure originale, non importa. L’essenziale, dice, è che sia piacevole. Da ascoltare o da eseguire. Il percorso non possiede punti di riferimenti geografici. Il sipario si apre nella provincia padana, tra Parma e Piacenza. Lo spartito antico dedicato ai calderai (“Bigordino”), poi, conduce a Gallipoli, dove gli uomini di mare osservano il tramonto dagli scogli. E, quindi, ai piedi della Majella, oppure nelle campagne umbre e toscane (“Giovanottina” è una tarantella di quelle contrade), oppure – ancora – a Napoli. «Amo molto la musica popolare italiana. Che molti musicisti, peraltro, hanno spesso dribblato, evitato. Anche se, ultimamente, qualcosa è cambiato, in questo senso. Ma io ho cominciato suonando blues e pure rock. Il rock dei Rolling Stones. Amando i Beatles. E anche Keith Jarret. E mi sono avvicinato al jazz. Però, è il blues il mio primo vero amore. Il blues e, in generale, la musica tradizionale degli States. Del resto, la chitarra è l’ideale, per suonarla». E l’amore di un tempo è duro da dimenticare.
Morone suona (“Summer Time”, ad esempio) e parla di folk process, cioè della musica trasmessa oralmente da generazione in generazione, quella che si modifica nel tempo. O del fingerpicking, oppure dell’italian fingerstyle guitar, materie in cui può legittimamente distribuire anche consigli: basti ricordare i diversi manuali confezionati per gli esecutori di blues, regolarmente in commercio. Songs We Love, invece, è la sua ultima fatica discografica. Divisa equamente con Raffaella Luna, torinese dai lineamenti eleganti, voce matura e coraggiosa, compagna di vita e di avventura. Il duo attraversa l’album, riproponendo una ninna nanna di Barbara Higbie, “All the Diamonds” e “Plaisir d’Amour”, dirottando poi per “Crazy Bases”, uno swing. Senza dimenticare The Road To Lisdoonvarna, il penultimo cd prodotto. Non tutto, ma di tutto. Perché la musica non gradisce frontiere. E neppure vincoli. Il percorso, però, sta finendo. E occorre tornare. Tornare a casa: con una tarantella frentana, magari. Gli ultimi accordi, le ultime immagini, le ultime emozioni: Franco Morone saluta e va. C’è un seminario che lo attende il giorno dopo, a Santeramo. E, fa capire, è questo il senso: suonare, confrontarsi, spiegare.

Franco Morone (chitarra) & Raffaella Luna (voce)
Novoli (LE), Saletta della Cultura "Gregorio Vetrugno"
Tele e Ragnatele 2009

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

mercoledì 4 marzo 2009

Una di quelle strane occasioni

La musica senza recinti è una miscela senza schemi. E quello che esce è una situazione di frontiera: tra gli stili, i patrimoni musicali di ciascuno e la fantasia che li sorregge. Che può adombrare i puristi dei generi, oppure solleticare il pubblico. Forse solo perché il già sentito e il già visto sono negli archivi mnemonici: e l’aria nuova stimola sempre. Oppure perché la commistione, se suffragata da un progetto fondato e convincente nella sostanza, sa inevitabilmente regalare qualche emozione. Questa volta interagiscono la tradizione delle bande dell’area balcanica (ormai largamente gradita, nelle platee del Paese: e le esperienze recenti di Goran Bregovic e della sua originalissima formazione incoraggiano le proposte), il flusso delle tonalità di matrice popolare e, ovviamente, l’inventiva personale, cioè le intuizioni di interpreti ormai abituati al palco e alle evoluzioni sonore. Per i quali, oltre tutto, parla saggiamente il curriculum. O, se preferite, le storie pregresse. Questa volta viaggiano assieme la Koçani Orkestar, ensemble macedone che calca i palcoscenici italiani con regolarità da qualche tempo, il trombettista Paolo Fresu (musicista di culto che può permettersi di esplorare nuovi spazi e allacciare nuove alleanze e che, soprattutto, non fallisce mai un progetto) e Antonello Salis, animo libero che recentemen te abbiamo ascoltato a Latiano, da solo, e nella circostanza debilitato da un malanno muscolare. Quindi, privato di parecchia verve, ma non per questo meno incisivo. Tutti assieme, appassionatamente, all’Orfeo di Taranto, in uno degli appuntamenti firmati dall’Associazione Amici della Musica “Arcangelo Speranza”, alla sua sessantacinquesima rassegna.
L’evoluzione dell’esibizione sembra non possedere regole, né conoscere barriere. Il tessuto sonoro fluttua tra l’etnico e il jazz, tra il popolare e la musica contemporanea dettata dal pianoforte di Salis, i cui arrangiamenti curano atmosfere più dettagliate. Fresu è un incursore spigliato che s’insinuia nell’improvvisazione globale. E gli undici elementi della Koçani Orkestar (molto maturati, con il tempo) si agitano versatili tra melodie della tradizione balcanica e composizioni più occidentali (apprezzabilissima, tra le altre, la versione de «Il Bombarolo», uno degli spartiti del De Andrè più impegnato, agli inizio degli anni settanta). «Non solo – aggiunge Paolo Fresu -. Personalmente, mi sono accorto delle affinità che collegano certe tematiche dell’est alla musica popolare della mia regione, la Sardegna. E, allora, ci siamo divertiti a scoprire come due mondi apparentemente così diversi siano in realtà molto più prossimi di quanto si possa supporre. Proprio perché è la musica ad avvicinarli. Per esempio, in questa breve viaggio attrraverso l’Italia, maturato a Milano, Bologna e Taranto, abbiamo riproposto un antico ballo sardo, opportunamente riarrangiato. Divagando anche oltre». Per quasi due ore, frizzanti e toniche. «E malgrado l’insolita tranquillità di Antonello. Mai visto, così – spiega Fresu - . Conseguenza di un colpo duro avvertito ventiquattr’ore prima. Problemi di stagione, càpitano». Anche per questo, dopo il concerto, insolita deviazione per l’albergo. E neppure un calice di rosso robusto, per sigillare la serata. E una di quelle strane occasioni. «E sì, cose che càpitano». Ma che non intaccano l’atmosfera di festa, proseguita per un quarto d’ora abbondante, a live già ufficialmente concluso. In mezzo alla gente, dove la Koçani ha sfilato, suonando ancora. Per ringraziare. E per recuperare gli ultimi applausi. Ampiamente guadagnati.

Paolo Fresu (tromba e flicorno), Antonello Salis (pianoforte) & Koçani Orkestar (Ajnur Azizov: voce; Suad Asanov: basso tuba; Redzai Durmisev: tuba baritono; Sukri Zejnelov: tuba baritono; Nijazi Alimov: tuba baritono; Dzeladin Demirov: clarinetto; Durak Demirov: sassofono; Turan Gaberov: tromba; Sukri Kadriev: tromba; Vinko Stefanov: fisarmonica; Saban Jasarov: tapan)
Taranto, Teatro Orfeo
65ma Stagione Concertistica dell’Associazione Amici della Musica “Arcangelo Speranza”

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

venerdì 3 ottobre 2008

Navigando sull'Adriatico

Navigando sull’Adriatico. Sulle onde di un mare che aggrega. Attingendo da ogni sponda, passando per ogni porto, sfondando l’orizzonte. Cavalcando ritmi popolari e balcanismi, cercando nel passato e allargando il presente. Bandadriatica è l’equipaggio di una nave immaginaria, che freme di partire e che freme di arrivare. E’ un equipaggio che si emoziona, perché partire è un’emozione, perché il viaggio è l’avventura, e ogni avventura è una storia che insegue particolari nuovi, dettagli sconosciuti. E solo chi parte può capire.
Bandadriatica è un progetto che non si ferma, che si evolve. Ogni volta che si parte. E l’Adriatico è la sua prateria, la sua ispirazione e il suo fine. Claudio Prima è il capitano istrionico di una nave che salpa da Brindisi, porta d’Oriente che trascina l’arcaica cultura salentina e i suoi sapori, le sue tradizioni. Che lasciano la terraferma e sconfinano. Perché Bandadriatica è la musica della tradizione che va ad incontrare altre strade. Una tradizione che arriva dal mare e che, per il mare, emigra ancora. E, per mare, la pizzica si balcanizza, si contamina, si spezia. In Montenegro o in Albania, a Dubrovnik come a Valona, abbraccerà ritmi irregolari, danze rom e altro ancora. Le note confluiranno in un unico spazio, senza confini. E potrà anche capitare di imbattersi in brani bulgari tradotti nel dialetto del Salento.
L’ottetto punta sul ritmo, sui fiati. Quelli di Emanuele Coluccia, sassofonista che, solitamente, orbita attorno al jazz, del trombettista Andrea Perrone, di Gaetano Carrozzo, trombonista ercolano, e di Vincenzo Grasso, al sassofono e al clarinetto. Punta sulla tradizione e sull’innovazione. Che è un po’ l’idea fissa di Claudio Prima, voce ufficiale della formazione e organettista temprato da differenti esperienze (Manigold, Tabulé, Radicanto, Adria). La solida batteria di Ovidio Venturoso, le incursioni armoniche di Redi Hasa, violoncellista albanese e salentino d’adozione, e il basso di Giuseppe Spedicato amalgamano e completano un tessuto sonoro sempre aggressivo, frizzante. Quando la navigazione si fa più difficile e sorge la necessità di una guida, però, soccorre la voce di Maria Mazzotta, tra le più intense e affinate del panorama popolare di Terra d’Otranto. Voce terragna e plastica, duttile e avvolgente. Nulla è scontato, neppure il repertorio. Che reinterpreta, mettendoci del suo. E, allora, arriva pure la produzione originale, consacrata nell’album d’esordio, Contagio, che possiede già un suo tragitto, che ha già polarizzato un consenso abbastanza largo. Un consenso dignificato anche dalla notte di Galatina, consumata a fine agosto, nel concerto di piazza San Pietro che preannunciava l’altra notte imminente, quella della Taranta di Melpignano. E che si riserva, peraltro, anche un sèguito: in primavera, uscirà il nuovo lavoro discografico, supportato da un dvd realizzato in occasione della tournée realizzata recentemente proprio attraverso i luoghi dell’Adriatico, in compagnia della Koçani Orchestar, di Naat Velov e di altri musicisti arrivati dalle due sponde dell’Adriatico.
Bandadriatica, in definitiva, è una banda dei giorni nostri. Che attinge anche dal patrimonio storico e culturale delle bande che si esibivano – e ancora si esibiscono – nelle casse armoniche, nei giorni di festa. Una banda che ama parlare di musica, ma anche della gente. Anzi, di quelle genti che, come recita un vero e proprio manifesto programmatico dell’ensemble, «per secoli lontane, si sono incontrate raramente per voglia, più spesso per necessità. E le musiche, figlie illegittime della stessa tradizione, hanno percorso sempre strade diverse». Quelle genti attorno alle quali si è edificata la nostra storia e si è modellata la nostra cultura. Quelle genti attraverso le quali Bandadriatica si insinua, cercando di catturare segreti e buone idee.

Bandadriatica (Claudio Prima: voce e organetto; Redi Hasa: violoncello; Giuseppe Spedicato: basso; Emanuele Coluccia: sassofoni; Vincenzo Grasso: sassofono e clarinetto; Andrea Perrone: tromba; Gaetano Carrozzo: trombone; Ovidio Venturoso: batteria). Guest Maria Mazzotta (voce)

Villa Castelli (BR), piazza Municipio

(pubblicato sul sito www.levignepiene.com)

giovedì 7 agosto 2008

Il menestrello brusco

Tonino Zurlo è un menestrello un po’ naif e anche un po’ irrequieto. Ma è pure uomo di principi saldi. Quasi d’altri tempi. Come quelli che racconta. O come quelli che vorrebbe continuare a raccontare. Ed è un’anima profondamente popolare. Dagli istinti spesso eccessivi. Dalle forme talvolta sgraziate. E dalla sostanza impastata di ironia e amarezza. Parla, parla tanto. E, certe volte, straparla. Utilizzando il dialetto, il suo dialetto. Come una lama, come una spada. Donchisciottescamente. Dunque, generosamente. Non è propriamente un cantante. E, fondamentalmente, neppure un musicista: nell’accezione più usata del termine, almeno. Forse, più che altro, è un musico. Uno di quei musici persi nei meandri del tempo, della storia. Che è la nostra storia. Tonino Zurlo, piuttosto, è un cantastorie. Un cantastorie che naviga nel mare di una contemporaneità radicata nella memoria. E ancorata a certi retaggi di ieri. Con un occhio guarda al passato. E, con l’altro, al presente. Senza perdersi. E lasciandoli incrociare. Estraerndone la polpa. E centrifugandola nel caleidoscopio del suo mondo colorito e terragno. Temprato da quella cultura contadina che ha edificato la terra e le genti di Puglia.
Tonino Zurlo riporta la tradizione e poi la modella. Con quel suo vocabolario brusco e poco protocollare. Trovandosi esattamente al centro della storia della nostra canzone popolare, ma anche oltre. Con trasporto. E anche con rabbia. Perché la rabbia è l’espressione di un disagio. E il disagio, da sempre, è una forma assai popolare del vivere quotidiano. Con trasporto, rabbia e teatralità. Parla e urla, Zurlo. La sua Puglia, il suo sud, la propria idiosincrasia nei confronti di un potere che poi così astratto non è. Parla, urla e ci crede. Ci crede ancora. Pittorescamente. E le sue favole planano sul pubblico beffarde. Caoticamente, come il personaggio impone. O, forse, pretende. Rischiando spesso di parlarsi un po’ addosso. Ma la sua verve copiosa è assalutamente genuina e non c’è frode intellettuale. Anzi, nella piazza di Polignano, in occasione del live che è parte integrante dell’omaggio della locale amministrazione comunale al cinquantenario della creazione di “Volare”, il brano più conosciuto del repertorio di Mimmo Modugno e anche lo spartito italiano più famoso nel mondo, il menestrello ostunese appare persino più asciutto del solito. E meno ripetitivo. Potere, chissà, della plateagremita. Dell’appuntamento impegnativo. O di quel nome, Domenico Modugno, così ingombrante. Un nome che tutti gli artisti intervenuti nella rassegna ricordano puntualmente.
Anche Tonino ripercorre le note di Modugno (e come si fa, del resto, a sviare?) e qualche refrain puntella il suo repertorio. Prima che, sul palco, nella seconda parte della serata, salgano i quattro componenti dei Motacuntu, ensemble di chiara estrazione popolare che interviene, lo accompagna, lo surroga e si diverte. Sì, l’appuntamento è particolare e Tonino annusa la sua specificità, decodificandola e adeguandosi. Per quanto possibile, ovvio: alla fine, l’indole esplosiva sgomita e si impone in un concerto dai toni informali, dove si fondono antichi lavori e qualche testimonianza di «Nuzzole e Parole», la sua ultima incisione discografica, abbastanza recente. E dove il sud è palestra, epicentro, orgoglio, ferita, pretesto, tratto d’unione indelebile con l’opera di Modugno o con la produzione di Matteo Salvatore, al quale Tonino dedica un momento intenso. Dove il sud è partenza ed arrivo di un percorso e di un impegno ormai quarantennale. Dove voce e chitarra sanno penetrare con il sentimento: parole testuali di un menestrello che, della musica, non ha fatto professione, né fonte di reddito. Preferendo trarne emozioni. Profondamente popolari: come i cantastorie di una volta. Con tutti gli eccessi di un’arte assorbita per strada. Dalla gente, per la gente.

Tonino Zurlo (voce e chitarra) & i Motacuntu
Polignano a Mare (BA), piazza San Benedetto
Volare a Polignano a Mare

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

venerdì 13 giugno 2008

Religione del canto e del controcanto

Terragne, ancestrali, senza tempo. Le voci delle Faraualla si modellano nella tradizione, si aggrappano alla storia popolare. Con fantasia e mistero, colore e teatralità, forza verace e ironia. Armonia, impeto e passione, energia e vitalità: i giochi e le acrobazie sonore del gruppo vocale più originale di Puglia diventano religione del canto e del controcanto, tra fuoco sacro e rito pagano. Ed è piacevole ritrovarle. Sempre fresche, vivide, profonde. Sono tornate, le Faraualla: il quarto disco di un impegno ormai datato si chiama «Sospiro», album appena licenziato dall'etiche Falmay: occasione, dunque, propizia per presentare (ufficialmente) le tracce che lo compongono al Café del Mar di San Giorgio, a Bari, in un live che è parte integrante della rassegna estiva pensata da Guido Di Leone. Sono tornate, le Faraualla: con una raccolta di brani propri della tradizione pugliese , opportunamente rielaborati e arricchiti dalla consueta efficacia scenica e dall'esuberanza interpretativa delle quattro vocalist (Gabriella Schiavone, Teresa Vallarella, Paola Arnesano e Loredana Perrini), ma pure dal ricco arredamento di suoni e dal saporito e quasi tribale accompagnamento di due percussionisti dalla rendita garantita come Pippo "Ark" D'Ambrosio e Cesare Pastanella. «Sospiro», è ovvio, è la colonna portante del live, che però si apre anche a qualche brano tra i più graditi del recente passato. Ed il live procede con impatto immediato, sfrontato. Primordiale per scelta, variegato per contenuti e, soprattutto, tonalità. Le voci si sovrappongono e si sfidano tra una filastrocca ("Ci Lu Pariscisti") e un inno all'amore ("Chi t'è Mu"), una versione riarrangiata di "Popov", brano del '67, e un pezzo a cappella ("Il Sogno di Frida"). Senza mai tradire la naturalezza del progetto di partenza dell'ensemble, nè la sua essenzialità di fondo. Voci, batteria e percussioni riempiono lo spazio come e più di qualsiasi altro strumento messo assieme. La performance sa distribuirsi con equilibrio. E sa planare lieve anche sulla disattenzione e la maleducazione del pubblico. Quella che, come sottolinea il direttore artistico della programmazione musicale, fa pentire gli organizzatori di impegnarsi e gli artisti di misurarsi sul palco. Ma anche questa è la Puglia, una terra di fascino immenso dove si offrono situazioni dal vivo con regolarità copiosa, sconosciuta in altre realtà: anche le più accreditate, socialmente e turisticamente. E l'offerta, evidentemente, talvolta è inutile. E il dato confonde, scoraggia. O, almeno, lascia pensare. Forse perchè non meritiamo poi così tanto. Niente di più dei dj set. E solo quelli.

Faraualla (Gabriella Schiavone: voce e percussioni; Teresa Vallarella: voce, percussione e tamburo a cornica; Paola Arnesano: voce e percussioni; Loredana Perrini: voce e percussioni), Pippo "Ark" D'Ambrosio (batteria e percussioni) & Cesare Pastanella (percussioni)

Bari, Café del Mar

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domenica 30 marzo 2008

Dischi - Cantinaria (Cantinaria)

Certe volte, basta la comunicazione. Un contatto, un semplice contatto. Sufficiente per scoprire che ampliare un progetto più o meno intimamente segreto si può. Un progetto quasi inconfessabile, soltanto accarezzato dalle intenzioni. Sufficiente per armarsi e partire. In questo caso, per incidere un disco. «La Sana Records di Milano, un’associazione-etichetta impegnata da anni sul territorio nazionale nella promozione e nella sensibilizzazione di progetti emergenti nati attorno alla cultura popolare, mi contattò per una co-produzione: cioè quello che, per tanto tempo, ho cercato. A volte, invano. La proposta, peraltro, si è rivelata interessante, credo per entrambe le parti: e così è iniziato questo rapporto di collaborazione che, intanto, è un’esperienza da poter raccontare». Davide Berardi, musicista crispianese e leader indiscusso dei Cantinaria, ripercorre la gestazione dell’omonimo disco prodotto con Gianfranco Berardi e distributo da Venus, commercializzato dall’inizio di quest’anno e ampiamente divulgato dal circuito di Radio Popolare. «Le dieci tracce – continua - raccontano questi anni di crescita, di lavoro, di qualche sacrificio e, soprattutto, di vita. Dieci tracce per partire verso una nuova avventura. L’idea del disco è nata proprio dopo quel contatto stabilito con la Sama Records, mentre il gruppo di lavoro era in studio di registrazione per partorire un demo».Dieci tracce che, private di un intermezzo ironico non musicato (il “Saluto del Sindaco Ricky Mandorla”), diventano nove: tutte musicalmente ben strutturate, fresche, vivaci. Pitturate dal dialetto che si stempara nell’idioma nazionale e puntellate da testi (originali, come gli spartiti, del resto) che accerchiano temi semplici e comuni. «Mi è piaciuto parlare, innanzi tutto, di amore e di unità, ma anche di queegli aspetti quotidiani che non sempre si sviluppano come dovrebbero. “Semb Povr”, invece, è un omaggio a Matteo Salvatore». «Cantinaria», però, non è cantautorato nell’accezione classica del termine: è, piuttosto, musica popolare trasferita ai giorni nostri, trasportata da una dimensione (quella tradizionale, più ruspante) a un’altra (quella più complessa di questi anni ardui). Consapevole del mutamento delle situazioni, della mentalità, dei punti di riferimento sociali. Ma misurata con toni anche goliardici: perchè, appunto, sempre di musica popolare si tratta. «Del resto – puntaualizza Davide Berardi - è durissimo creare uno stile proprio. Perciò, nel frattempo, mi sono ispirato al cantautorato italiano, ma anche ai cantastorie pugliesi e alla tradizione popolare campana e garganica. Attingendo idealmente a Modugno, De Andrè, Sacco e Salvatore». Il progetto, dicevamo, non fiorisce all’improvviso. «Il cd, infatti, porta il nome di quello che era il nostro gruppo, alle origini. Parlo del 2002: fu allora che cominciai con i miei amici a suonare in una cantina. E, comunque, il termine è da intendersi in un duplice significato: “della cantina” e “dalla cantina”. Nel primo caso, è qualcosa che riguarda il genere; nel secondo traspare l’intenzione di ricordare da dove siamo partiti. Il sottoscritto, il batterista Cisky Chiarelli, il pianista Lorenzo Semeraro, il bassista Dany Colucci e il violinista Mimmo Quaranta. In corso di incisione dell’album, tuttavia, hanno offerto il proprio apporto anche Antonello D’Urso alla chitarra, Giancarlo Pagliara e Vito Santoro alla fisarmonica, Antonio Vinci al basso e Tanya Pugliese, che ha prestato la voce. Così come non vanno dimenticate le incursioni umoristiche di Gaetano Colella. Al di là di tutto, però, nel corso di questi anni, grazie a questa esperienza, ognuno di noi ha potuto capire la propria strada, i propri interessi, il proprio stile».

Cantinaria (Sama Records, 2008)
Davide Berardi (voce) & Cantinaria (Tanya Pugliese: voce; Lorenzo Semeraro: piano; Dany Colucci: basso; Antonio Vinci: basso; Mimmo Quaranta: violino; Antonello D’Urso: chitarra; Giancarlo Pagliara: fisarmonica; Vito Santoro: fisarmonica, Antonio Vinci basso; Cisky Chiarelli: batteria)

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domenica 11 novembre 2007

L'Otello tra le Gnostre

Va bene, ci sono le castagne. Calde, arrostite. E le noci. E poi le zuppe, gli involtini, il cinghiale e quanto una sagra - ben definita e molto ben divulgata - sa offrire. Novello compreso, ovviamente. Perché è quello che si festeggia a Noci, nel tradizionale appuntamento di «Bacco nelle Gnostre», tra vicoli e piazze del borgo antico. Va davvero tutto bene, ma serve anche il programma musicale di supporto. Ecco, allora, diverse location e differenti indirizzi sonori. E, tra le varie proposte, s'inserisce l'intervento di un amico antico, di un cantore fiero, di un ambasciatore di storie di ordinaria quotidianità meridionale: Otello Profazio da Rende, Calabria centrale, sud profondissimo, mastru cantaturi ancora fortemente motivato. E testimone di quella letteratura popolare che, a settantatre anni anni (ben trasportati), continua a ricercare nella provincia lontana e a proporre. Non rinunciando - è notizia fresca - a collaborazioni nuove, come quella appena saldata con un gruppo emergente di queste terre, la Banda Wagliò di Alberobello. Profazio - sia chiaro, però - è quello di sempre: dissacrante, ironico, sferzante, incisivo, tagliente. Governa il palco con l'autorevolezza dei saggi e la spavalderia dei più navigati. E intrattiene il pubblico verbosamente, tra gli accordi della chitarra e il retroterra che si spalanca dietro ogni canzone, ogni ballata. E' il Profazio paradossale di "Qua Si Campa d'Aria", singolo di un disco storico che ha venduto un milione di copie e forse anche di più, qualche tempo fa. Ed è il Profazio di "Filo di Seta", album recente di racconti piccanti, attinti qua e là, a costo di non poche fatiche e di richieste pressanti, direttamente alle fonti, scavalcando il pudore popolare delle donne di una volta. Ma attorno, è scontato, si agitano i canti del sud, di tutti i sud: della Puglia e della Lucania, dell'Abruzzo e della Calabria, delle Madonie e, perché no, dello spoletino, che proprio sud non è. Ma fa lo stesso. Dove il massimo comun divisore è la vita ardua, la terra amara, le piccole ricchezze: come l'asino (no, meglio: il ciuccio), più prezioso di una moglie o di un padre. La cui perdita è lutto vero, un lutto più stretto. Dove la cultura contadina è mito ed è realtà. E la realtà di oggi è quella di ieri. Basta ripercorrere brani datati, del primo dopoguerra: quando i più umili maledicevano le tasse e il governo. Ora il nemico possiede un nome più fine e si chiama pressione fiscale, eppure non è cambiato niente. Profazio è la passione e l'immediatezza di sempre. La busta di plastica che si trascina è un pozzo di dischi da passare in rassegna. C'è anche quello confezionato con le poesie di Ignazio Buttitta. Al suo fianco, due partner pugliesi: Davide Torrente al tamburello e Germano della Banda Wagliò alla fisarmonica. Il bicchiere (novello, sì) si svuota discreto. Proprio mentre transitano le ombre dei maestri del passato. Il concerto è soprattutto per loro, un tributo naturale. A chi ha edificato la storia della canzone popolare italiana, a chi ha attraversato il Paese tramandandone spicchi di tradizione, a chi ha contribuito a disegnare un'epoca. A chi non c'è più. «Rosa Balestreri è morta. Maria Carta è morta. Matteo Salvatore, il più grande, è morto. E io non mi sento tanto bene».

Otello Profazio (voce e chitarra), Davide Torrente (tamburello) & Germano della Banda Wagliò (fisarmonica)
Noci (BA), Piazza Garibaldi
Bacco nelle Gnostre 2007

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giovedì 13 settembre 2007

La voce delle donne

Un palcoscenico in accentuata penombra, un microfono. Una voce, una chitarra. Una donna. Lucilla Galeazzi canta la sua musica, che è un po’ la musica dell’Italia intera. L’Italia popolare di sempre, l’Italia trasversale e viscerale, sofferente e profonda, nascosta e sconosciuta. L’Italia dei quattro punti cardinali, delle campagne e delle risaie, della periferia e delle fabbriche. Quella che non passa dalle televisioni e dalle radio, dai canali istituzionali e da quelli commerciali. Lucilla Galeazzi è una donna. Sola, con la sua chitarra. E con la sua voce. Quella voce che è sintesi della voce e del pensiero di tanti. Senza volto. Una voce che persegue la lunga strada che parte dagli albori del novecento per solcare gli anni difficili della guerra, del dopoguerra e dell’indusrializzazione. Voce che arriva fluida alla contemporaneità di questi giorni: satura, modulata, gravida di emozioni, pregna di sensazioni. L’artista ternana è un’intuizione felice dell’Associazione “Terrae”, che ha voluto e preparato la rassegna “Domine – Tre al Femminile”, sponsorizzata dalla Regione Puglia e dall’amministrazione comunale di Gioia del Colle e presentata nello stesso centro della Terra di Bari, al Teatro “Rossini”. Felice malgrado la concomitanza ingombrante (e presumibilmente vincolante, considerata l’inadeguata affluenza di pubblico) con la diretta via etere della performance dell’Italia di Donadoni in Ucraina. Felice per il viaggio che porta in dote: viaggio nella penisola, senza rotta precisa, inseguendo il vento dei ricordi, le parole o, forse, l’istinto. Braccando le storie, il passato scomodo, i volti. Soprattutto i volti. «La musica popolare, diceva il mio maestro, non è fatta di note, ma di facce. Ed è un modo di intendere la vita e la comunicazione», certifica lei. E, così, il viaggio parte dalla Valnerina, nelle contrade di Norcia: proprio dove, anni addietro, cominciò il suo lavoro di ricerca, continua, assidua, attenta. Nei poderi, direttamente dalle fonti dei braccianti, nelle case. Ricerca mirata: dei motivi da tradurre in canzoni, ma – soprattutto – dei cantori, dei narratori. E proseguita, più tardi, tra le mondine o gli operai. Senza dimenticare di rielaborare i racconti di una guerra ormai lontana, ma ancora culturalmente vicina. Badando all’essenzialità nella melodia. Leggendo. E ascoltando (e riascoltando) testimonianze in vinile del patrimonio popolare. Poi, dalla Valnerina alla Toscana, la terra dei rispetti, vere e proprie forme poetiche. La Toscana di “Maremma”, artisticamente battuta da Caterina Aguero, un’altra donna della canzone sommersa di un’Italia infinita. Come Rosa Baldassarri, o Giovanna Daffini: dalle quali Lucilla Galeazzi si fa accompagnare, consigliare, indirizzare. Sul filo di una tensione che, però, non assale. E, dalla Toscana, si approda in Sicilia e, immediatamente dopo, si risale l’Appennino, toccando l’Emilia. La voce è duttile. Ed è una voce che parla essenzialmente di donne e del loro mondo, indissolubilmente legato agli accadimenti sociali di un Paese in evoluzione. Partendo dalle donne e dalla loro angolazione. Donne come Giovanna Marini. «Che mi ha insegnato tanto: ad esempio, il rispetto per questa musica e la capacità di reinventare un canto o una melodia». Dall’Emilia, allora, si navigano le acque basse delle risaie padane: la versione delle mondine di “Bella Ciao” è lenta e plastica, avvolgente. Ma Lucilla è anche autrice: “Voglio una Casa” è una storia popolare senza radici nel passato, ma con l’eredità genetica della tradizione. E produzione propria è anche un disco recente come «Amore e Acciaio», direttamente ispiratole da Terni, la sua città. Che è poi la terra di San Valentino e, al contempo, uno dei poli siderurgici italiani. E’ tempo, intanto, di tornare ad esplorare i sentieri del sud, entrando in Calabria (con un testo e una musica attinta dal repertorio di Ambrogio Sparagna) e, quindi, in Campania (è l’omaggio a Roberto de Simone). Ma il viaggio deve consumarsi: e lo fa nella vivacità del salterello («il cugino della tarantella, ritmo proprio di quelle zone che, storicamente, non fecero parte del Regno delle Due Sicile, rimanendo affrancate al potere del Papa»), ancora eseguito nelle regioni centrali di un’Italia che, talvolta, riesce persino a non dimenticare il proprio retroterra storico e culturale. Scansando il palco generalista delle televisioni e infilandosi tra la gente, nelle piazze, nei borghi storici, oppure nei teatri. Tre universi da cui - ostinatamente, orgogliosamente – qualcuno riparte. Ripercorrendo gli indizi della memoria.

Lucilla Galeazzi (voce e chitarra) in “Mi Do Arie”
Gioia del Colle (BA), Teatro “Rossini”
Domina – Tre al Femminile

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mercoledì 1 agosto 2007

Ruvida e spavalda Pietra

Ruvida e un po' spavalda. Terragna e calda. I segni particolari di Pietra Montecorvino attraggono e aggrediscono. Senza insidiare. Tentano e graffiano, senza intralciare. La sua voce irretisce e, spesso, assale. Senza infastidire. Lasciando che il sound mediterraneo e l'istinto (e, con l'itinto, anche il mestiere) partenopeo facciano il resto. Cioè, uno spettacolo popolare (e, a tratti, vagamente nazional-popolare), duttile, cantautoriale ed energico, contaminato (da stili e arrangiamenti sguinzagliati in libertà) e mai protocollare. L'associazione "Pierluigi Galluzzi" la sceglie come primo ed unico ospite (i mezzi economici scarseggiano anche a Polignano) dell'edizione duemilasette dell'omonimo Premio, dedicato alla figura del discografo precocemente scomparso e arrivato all'edizione numero sette. E Pietra Montecorvino risponde con un live lieve, informale, persino gaudente, sicuramente riuscito. E dichiaratamente ruffiano: perchè il repertorio scelto per la serata riunisce alcuni classici tra i più abusati della canzone napoletana ("Luna Rossa", "Maruzzella", "Oj Vita Mia"), dimenticando - ad esempio - la produzione di autori come Pino Daniele o come lo stsso Eugenio Bennato, assai vicino all'artista anche fuori dal palco, e perchè porta in dote l'omaggio (doveroso) al polignanese più famoso, Domenico Modugno ("Tu Sì 'na Cosa Grande"). Pietra, comunque, dimostra interamente la propria arte di gestire la scena e le situazioni, anche in frangenti sdruccioli: come quando dalla chitarra del crispianese Martino De Cesare non partono le tonalità giuste e occorre fermarsi un paio di volte. Dettagli a parte, la sua voce roca taglia il palco e lei si muove con agio, distribuendosi con esperienza. E sorprendendo piacevolmente già in apertura di programma, con la versione italo-partenopea di "Vuelvo al Sur", tango firmato da Carlos Gardel e rivisitato nell'atmosfera e nell'arrangiamento. La rilettura della già citata "Maruzzella", invece, è moderna, ma profonda, e quella della muroliana "Luna Rossa" è immediata, spedita. Non semplici cover, dunque: ma rielaborazioni sostenute da virtù e caratteristiche personali, espressioni di un dosaggio equilibrato di vitalità e personalità. Il sud, intanto, è un pensiero pregnante. E "Sud" è anche la sua prima composizione di successo, colonna sonora di una ormai più che ventennale fatica cinematografica di Arbore ("FF.SS. Che Mi Hai Portato a Fà 'ncoppa a Pusilleche Se Non Mi Vuoi Più Bene?"), in cui la Montecorvino, allora giovanissima, è tra gli interpreti principali. Brano, questo, che segue l'applauditissimo intervento dell'ospite del concerto, Enzo Gragnaniello, e che precede un bis proposto fuori dal palco, a contatto strettissimo con il pubblico (felicemente conquistato) di Piazza Vittorio Emanuele. Pietra Montecorvino canta ed esporta Napoli, con sagacia consumata e con grande teatro. E, soprattutto, piace: per quell'imprudenza che si confonde con il calore e la passionalità, per quella ruvidezza della voce che ne esalta il profilo, per quella presenza scenica che non stinge e non disturba. E' verace, Pietra. E poi, dentro, c'è la Napoli delle cartoline, delle storie quotidiane, dell'immaginario collettivo. La Napoli che ci hanno insegnato a riconoscere, da sempre. Tra duecentomila luoghi comuni, tra le verità dei suoi anfratti.

Pietra Montecorvino (voce), Mohammed Ezzaime El Alaoui (loud e cori), Martino De Cesare (chitarra), Daniele Brenca (basso) & Pachi Palmieri (cajon e tamburo)
Polignano a Mare (BA), Piazza Vittorio Emanuele
VII edizione Premio "Pierluigi Galluzzi"

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sabato 14 luglio 2007

Poesia di terra e sudore

Non solo Finardi. La Notte Bianca è infinita. Anche a Melpignano. Che non vuole (e, supponiamo, non può) dimenticare il suo dna, la sua anima popolare, il proprio orgoglio salentino, le sue tradizioni, il suo patrimonio griko, la sua storia, la sua musica. Il motivo stesso per cui il suo nome, da un po', ha saputo svincolarsi dalle ombre dell'incognito, accedendo nei salotti buoni della considerazione e nella lista delle destinazioni turistiche dell'estate pugliese. Malgrado gli orizzonti, scanditi dalla sete di spettacolo e da una manifestazione che non può trincerarsi - ma, anzi, deve concedersi - siano costretti ad aprirsi, dilatarsi. Come è giusto che sia. Però, il cuore della Grecìa Salentina batte ancora forte. E questo spicchio di Salento pretende che batta ancora forte, per sempre. Perciò, sul palcoscenico, la "musica noscia" si ritaglia il suo abbondante spazio, anche se la Notte della Taranta è ancora lontana un mese o poco più: sfuggendo, tuttavia, al cliché più classico. E impregnando la serata con un progetto dai contorni originali. Non solo per la scenografia di supporto (le animazioni che danzano sul dorso del Convento degli Agostiniani, la teatralizzazione di qualche passaggio musicale), ma - soprattutto - per i contenuti (talvolta picareschi, talvolta sofisticati) dell'intero spettacolo e per l'ambizione (dichiarata) di rapportarsi al repertorio. L'idea di «Canti, Cunti e Migrazioni», lavoro pensato e coordinato da Antonio Castrignanò, calimerese istrionico e menestrello di stampo antico, rievoca il gusto delle feste di piazza e, contemporaneamente, accosta la musica popolare ad una teatralità accentuata. Diramandosi, peraltro, in due direzioni, parallele e convergenti. La proposta è una riutilizzazione di brani già radicati nel territorio e tramandati oralmente (del resto, sarebbe impossibile comportarsi altrimenti), riarrangiati però nel rispetto della melodia originale. E, subito dopo, la creazione di un vero e proprio modello salentino, appoggiato sulla fortificazione della tradizione. Traducendo, attraverso la composizione di testi e musiche assolutamente originali, che tuttavia non stravolgano i concetti basilari e le fondamenta di queste sonorità. Cioè: ben venga la novità, ma recintata da paletti precisi. Nonostante, aggiungiamo noi, la presenza di strumenti di natura non propriamente popolare come il pianoforte (affidato a Marco Della Gatta) e alla batteria di Antonio Marra. Al di là delle intenzioni, comunque, dalla piazza di Melpignano esce un live vario e fresco, gravido di colori, suoni e - persino - magia. Dentro, poi, c'è il Salento di sempre: il Salento dei trainieri, delle ninna nanne, dei canti alla stira (quelli, cioè, realizzati senza l'apporto di strumenti: voce e basta), dei canti di lavoro, della nostalgia. E c'è tempo anche per uno sconfinamento nel Gargano, così come per un omaggio a Matteo Salvatore. Antonio Castrignanò (alla voce, al tamburello e alle percussioni, oltre che alla composizione) punta sull'effetto sonoro, sulla voce e la vocalizzazione. Arte, questa, vivacizzata dalle doti di Ninfa Giannuzzi, presenza adeguata e sostanziale. La musica si infonde con misura, come un frutto di un lavoro di cesello. Musica che, assicura Castrignanò, è «poesia di terra e sudore». Parole che la gente del Salento conosce e apprezza. Annuendo convinta, prima che arrivi Finardi.

Antonio Castrignanò (voce, tamburello e percussioni), Ninfa Giannuzzi (voce e violino), Marco Della Gatta (pianoforte), Francesco Congedo (contrabbasso), Rocco Nigro (fisarmonica), Valerio Daniele (chitarre), Antonio Marra (batteria) in concerto. Guest Luigi Chiriatti (tamburello e cori)
Melpignano (LE), piazzale antistante il Convento degli Agostiniani
Passeggiando Sotto la Luna - Notte Bianca 2007

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venerdì 30 marzo 2007

Personalità e sentimento

Confessiamo: gli autori (e gli interpreti: fa lo stesso) di personalità ci appassionano e ci intrigano. Al di là delle peculiarità di ciascuno. E della loro produzione musicale. Perché personalità significa anche talento. E, in ogni caso, carisma. Che sono poi gli elementi che garantiscono la distanza tra un musicista ed un artista. E, vi assicuriamo, la differenza non è soltanto glottologica. Personalità vuol dire saper gestire il palco e chi vi si affaccia, dalla platea. Saper amministrare le proprie doti e il proprio repertorio. Fare (bene) senza forzare, dribblando la presunzione di dover stupire obbligatoriamente. E, ovviamente, tante altre cose. La personalità, però, non si misura: c’è o non c’è. E, se c’è, si vede: immediatamente. Conoscevamo Enza Pagliara e l’abbiamo seguita ancora: a Fragagnano, all’Osteria Quattro Venti, che ormai smista tre diversi percorsi artistici (il teatro, il jazz e la musica popolare, con la rassegna “Eventi Etnici”). E la ragazza di Torchiarolo, ancora una volta, ha assorbito il consenso. Non ne dubitavamo, in verità. Ma la conferma è arrivata, puntuale. Sì, perché la Pagliara è una voce popolare di personalità, carismatica. Di carattere e sentimento. Che non insegue l’effetto. Che sa essere duttile ed essenziale, pur utilizzando tutti i colori della musica e accarezzando i dettagli. Quei dettagli sonori che, ultimamente, vengono frettolosamente dimenticati, nel nome della spontaneità espressiva, da quanti – e sono tanti, di questi tempi – propongono questo repertorio. E poi perché è un’interprete vera: nel senso che mastica il già ascoltato (è il caso della musica popolare pugliese), fornendo tonalità differenti e, dunque, versioni meno scontate, meno abusate. Salvaguardando tradizione e cultura, è chiaro. Anzi, rafforzandole. Meglio precisarlo. «Canti di Terra e di Mari del Salento» è – perdonate la scorrettezza del passaggio – musica popolare d’autore, ovvero un viaggio succinto ed esaustivo, ma anche lievemente e sobriamente arrangiato, in un universo culturale che ha già offerto – ma anche attinto – moltissimo, dopo la sua riscoperta, non più di dieci anni addietro. Un viaggio sicuro, che deborda appena nel Gargano per poi ristabilirsi sulle rotte di casa, quelle che uniscono i canti di lavoro più classici («La Rondinella», ad esempio), le pizziche più note (quella di Galatone, per dirne una), la realtà rurale della Terra di Brindisi (da dove Enza Pagliara proviene: la «Pizzica di Torchiarolo» è indiscutibilmente meno battuta da live e produzioni discografiche) e qualche altra composizione collezionata in fondo ad uno di quegli ormai leggendari lavori di ricerca effettuati all’interno del pozzo della musica popolare. Un pozzo forse meno limitato di quanto è lecito sospettare o di quanto è unanimemente considerato. Comunque, ancora intriso di valore storico e musicale, di significati. «Funzionavano, queste canzoni», sussurra la voce matura di Enza Pagliara, che pure non spreca tantissime parole, tra un brano e un altro. Riempiendo, però, ugualmente lo spazio. Anche senza l’apporto del trio che l’accompagna e che, talvolta, lascia il microfono solo al canto. Sapientemente.

Enza Pagliara (voce, nacchere e tamburello), Mario Musi (mandola), Gianluca Longo (mandola) & Antongiulio Galeandro (fisarmonica) in "Canti di Terra e di Mari del Salento"
Fragagnano (TA), Osteria Quattro Venti
Eventi Etnici

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lunedì 9 ottobre 2006

Anima popolare

La musica popolare non si crea e non si inventa, né si reinventa. Piuttosto, si interpreta. O, di questi tempi, si contamina. E si evolve (o si involve: fate voi). Semmai, si può inventare una nuova formazione: non per stupire, ma per divertirsi. E, magari, per divertire. O, più semplicemente, per intrattenere, con un po’ di gusto. Senza effetti speciali. Senza artifici. E senza stravolgimenti musicali. Mimmo Gori, tarantino con la passione del tamburello e dell’organetto, accarezzava da tempo un’idea. Da quando, probabilmente, aveva abbandonato il “progetto Demotika Orchestar”, una band niente male nata sull’asse jonico-salentino sulla scia della tradizione. Un progetto disgregatosi, però, nel tempo: diciamo pure der diversità di vedute affiorate all’interno del gruppo. Dove diversità di vedute significa dover rispondere ad uno specifico quesito: perseguire la via maestra oppure concedersi all’innovazione? L’idea di Mimmo Gori, alla fine, si è materializzata e solidificata. Per chiamarsi Terminal Jonio, ensemble che ha cominciato a bussare sulle piazze e nei locali della provincia di Taranto, porzione di Puglia che sta lentamente (o, rispetto al profondo Salento, molto meno velocemente) cercando di riappropriarsi di una parte delle proprie peculiarità culturali. E che, a Mottola, all’interno del Dreams Bar (sede non ufficiale in cui il concerto, organizzato per omaggiare il Parco delle Gravine e inizialmente previsto in piazzetta La Rotonda, è stato spostato a causa delle cattive condizioni atmosferiche), ha riproposto brani conosciuti e anche (generalmente) meno ascoltati, tutti ben rifiniti e ovviamente attinti dall’immenso bagaglio della tradizione meridionale. Passando dalla pizzica alla tammurriata, dalla tarantella alle note importate dal Gargano o dalle Murge, puntando alla conservazione di certe atmosfere, di certe sonorità. Affidate, peraltro, anche alle doti del polistrumentista barese Gianni Gelao, alla voce profonda e popolare e alla chitarra di Peppe Zerruso, alla voce e al tamburello di Pietro Balsamo e al violino di Claudio Merico, affianco ai quali si agita la danza di Simona Tempesta. «Vogliamo solo contribuire a tutelare questo patrimonio musicale, nient’altro. Rifuggendo dalle tentazioni del nuovo che avanza. Non aspettatevi niente di più: il Terminal Jonio Ensemble è un’occasione per stare assieme, per suonare assieme. E per riscoprire qualche strumento ormai dimenticato, perché no. Come la cornamusa o la zampogna. E ci stiamo adoperando per acquisire qualche canto ormai disperso, direttamente dalla voce degli anziani delle Murge. Come vedete, niente di nuovo. Ma è questo che ci piace. E non è detto che rinunceremo a qualche brano originale, anzi» Se è per questo, il progetto del gruppo è più ampio: e prevede, tra l’altro, una collaborazione stretta e imminente con gruppi di ottimo spessore quali quello di Nando Citarella & i Tamburi del Vesuvio, Canto Discanto e Spakka-Neapolis 55, oltre alla Banda di Montemesola. Che, assicura Mimmo Gori , «dispone di musicisti interessanti e, soprattutto, versatili, con i quali sarà possibile impostare un discorso artisticamente intrigante». E, chissà, assicurarsi anche un respiro musicale più vasto e nutrito. Senza doversi necessariamente avventurare per sentieri più o meno oscuri.

Terminal Jonio Ensemble (Peppe Zerruso: voce e chitarra; Pietro Balsamo: voce e tamburello); Mimmo Gori: organetto e tamburello; Claudio Merico: violino; Simona Tempesta: danza)

Mottola (TA), Dreams Bar

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