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sabato 30 luglio 2011

Le canzoni immortali di Different Moods


«Different Moods è un contributo tutto nostro alla canzone italiana degli anni cinquanta, sessanta e dei primi anni del decennio successivo. Quella che, a distanza di quarant’anni e anche di più, continua a brillare di luce propria. E che viene eseguita e ricordata. Non solo dagli interpetri dei giorni nostri, ma anche e soprattutto dalla gente comune». Non è solo uno slogan, magari pure pubblicitario: perché, del resto, i dischi vengono incisi per essere distribuiti. E, quindi, per guadagnarsi uno spazio nella considerazione di chi ama la musica o, più in generale, degli appassionati (e nient’altro, vi assicuriamo: il mercato discografico, oggi, premia soltanto i big. Mentre i meno noti assistono, galleggiando nell’ ordinaria quotidianità). No, Beppe Delre è uno che ci crede davvero. E, peraltro, la canzone è il suo mondo, la sua ambizione, la sua passione, il proprio destino. Che non passerà, ovviamente, attraverso un disco – Different Moods, appunto – articolato al fianco di Vince Abbracciante, Camillo Pace e Fabio Accardi, ma che però si nutre anche di lavori come questo album. Album che, alla fine, racconta un po’ del suo percorso musicale.
L’idea di raccogliere le tracce di Different Moods - The Italian Songbook n. 1 (evidentemente, arriverà almeno un'altra pubblicazione, in un prossimo futuro) nasce un po’ alla volta. Prima, l’incontro (ormai antico) con Vince Abracciante si consolida in diverse situazioni live. Voce e fisarmonica, così. Inseguendo i testi di alcune firme di pregio come Modugno, Tenco, Endrigo o dal repertorio di Mina o di Don Backy. Poi, in sala d’incisione si aggiunge il contrabbasso di Pace e la batteria di Accardi. «Senza la nostra storia non siamo niente» certifica il crooner di Mola. «Ma questo lavoro non è solo una collezione di cover. Abbiamo inserito, per esempio, anche un testo scritto da me su uno spartito esclusivamente strumentale del francese Richard Galliano, forse il punto di riferimento più importante della carriera artistica di Vince Abbracciante. Il pezzo si chiama “Viaggio”. Ma non potevamo non soffermarci su determinati brani che amo particolarmente, come “Canzone per Te” di Sergio Endrigo o “Guarda Che Luna” di Buscaglione: un brano, questo, che dal punto di vista letterario, è il mio preferito. Non abbiamo, comunque, voluto obbligarci a reinterpetrare solo testi scontati, cioè conosciutissimi al grande pubblico. Dal bagaglio personale di Mina, infatti, abbiamo estratto “L’Ultima Occasione” e “Noi Due”, che non rientrano nel gruppo delle canzoni più famose lanciate dall’artista cremonese. Anzi, diciamo pure che sono state a lungo snobbate dalla critica e dagli stessi interpreti».
Una scelta, diciamo così, coraggiosa è pure “Fino all’Ultimo Momento” del livornese Piero Ciampi, un poeta scomodo che non ha mai guadagnato molte colonne sui giornali e una visibilità diffusa. La cover più recente, in ordine di tempo, è invece “Ritornando a Casa”, di Fabio Concato. Ovviamente, un buon lavoro di riarrangiamento offre al cd, uscito proprio in questi giorni con l’etichetta Bumps e presentato ufficialmente ad Ostuni, nel Chiostro di Palazzo Comunale, una dignità propria e un’identità che non insegue cocciutamente le versioni originali. Com’è giusto che sia: soprattutto in quest’universo di cover band che è diventata la musica dal vivo di questo millennio.

Different Moods (Bumps Record, luglio 2011)
Beppe Delre (voce), Vince Abbracciante (fisarmonica e fender rhodes), Camillo Pace (contrabbasso) & Fabio Accardi (batteria)

sabato 19 aprile 2008

Quarant'anni di musica. Senza sentirli

Patty Pravo accompagna i suoi primi sessant’anni con grazia e mestiere. Con la sua eleganza mai inamidata. Con un look giovane e ancora aggressivo. Con una voce sempre sensuale. E con quell’inflessione un po’ nordica e algida. Snodata, più che vagamente rockettara, esuberante quando serve. Cioè quando va shakerato il rapporto (abbastanza confidenziale) con il suo pubblico. Con il quale sa creare complicità. Nicoletta Strambelli da Venezia è giovanile e ancora visibilmente virtuosa. Perché si concede alla gente, con grinta e una buona dose di passione. Che la platea capta e gradisce. Le parole, magari, sono di pura circostanza, propedeutiche allo sviluppo del concerto, leggere e un po’ frivole: ma, sul palco, le note e i testi partono, procedono ed arrivano. Senza intralci. Non solo approccio e atteggiamento, però: a sessant’anni (appena) compiuti, Patty Pravo è un’artista che possiede ancora qualcosa da dire e molto da offrire. Per quella sua carica positiva, per quell’abilità di resistere a quarant’anni di musica, sempre guidata sul filo del buon gusto. E, comunque, sempre viva. Il live presentato al “Nuovo” di Martina, peraltro, ribadisce i concetti, preoccupandosi poi di inseguire i dettagli della carriera della ragazza del Piper. Le canzoni che ne hanno, nel tempo, segnato il percorso artistico ci sono tutte, nessuna esclusa: a cominciare da “Pensiero Stupendo”, un tributo personale di Ivano Fossati e Oscar Prudente, “Pazza Idea”, pietra miliare della produzione italiana degli anni settanta, e “La Bambola”. Ma ci sono anche “Ragazzo Triste”, che è poi il primo singolo registrato, nel 1966, le più recenti “Les Etrangers”, “Bisanzio”, tratta dall’album «Oltre l’Eden», e “Tristezza Moderna”. E poi, ancora, “E Dimmi Che Non Vuoi Morire” di Vasco Rossi, oppure “Se Perdo Te”, affianco alle quali si affacciano la versione di un’altra produzione di Fossati come “Angelus” e la battistiana “Io Ti Venderei”, ritoccata nel ritmo e negli arrangiamenti.A sessant’anni, intanto, Patty Pravo può permettersi pure l’ironia («con la scusa del compleanno, mi hanno fatto diventare santa», confida) e molti slanci, anche squisitamente fisici. Puntualmente assecondati dagli uomini della sua band, che persegue tonalità sempre robuste: Gabriele Bolognesi (ai sassofoni, al flauto e alle percussioni) e Alberto Clementi (alle chitarre) su tutti. Con i quali cooperano il batterista Massimiliano Agati, il chitarrista Edoardo Massimi, Giovanni Boscariol (piano e tastiere) e Adriano Logiudice (basso e contrabbasso). Slanci che non mancano di solleticare il giudizio della gente, sotto il palco: «Afrodisiaca», grida qualcuno. «E’ meraviglioso», ribatte lei, effervescente nello spolverino giallo e nei pantaloni di pelle, neri. O nella tunica bianca, con cui affronta il bis, composizione dal sapore di fiaba. Perché, di una fiaba, talvolta c’è bisogno. Così come necessita, sottolinea, «di tirare un po’ su le maniche». Frase aperta a troppe sfumature, che plana alla fine della serata, dai toni persino familiari. Serata di vecchi successi, di desideri incrollabili, di energia e sinergia, tra amici antichi. Il modo migliore di festeggiare sessant’anni. Quaranta dei quali spesi attorno alla musica.

Patty Pravo (voce), Gabriele Bolognesi (sassofoni, flauto e percussioni) , Alberto Clementi (chitarre), Edoardo Massimi (chitarre), Giovanni Boscariol (piano e tastiere), Adriano Logiudice (basso e contrabbasso) & Massimiliano Agati (batteria)
Martina Franca (TA), Cineteatro “Nuovo”

(pubblicato sul sito www.levignepiene.com)

lunedì 24 dicembre 2007

Intimità nel gelo

Amalia, intimamente. Quasi sussurrando, con quella voce che sa navigare nelle note. Ma sempre misurata, calcolata, distribuita in dosi contenute. Amalia Grè è la musica che non vuole aggredire. E' una voce che non vuole abusare di se stessa. Ed è un personaggio che non ama debordare. Anche la gestualità è discreta. E l'approccio al concerto può persino sembrare un po' algido. La ragazza detta sul palco il suo talento, ma senza approfittarne. Poi, la notte di Locorotondo è umida e gelida. E il palcoscenico è esposto all'atmosfera amara, a immediato ridosso della campagna di Val d'Itria. Amalia è una vocalist infreddolita: non fa nulla per nasconderlo. Né per dimenticare di averlo più volte sottolineato. E' infreddolita e, per questo, forse un po' fredda, distaccata. Certo, il live non si priva di una godibilità di fondo, ma non decolla mai per davvero. Probabilmente, anche perché - quando potrebbe farlo - esaurisce il suo viaggio. L'esibizione, cioè, è corta (sessantacinque minuti, bis compreso) e la platea abbastanza indisciplinata. La stagione concertistica del Mavù parte con un nome divenuto importante: e anche giustamente. L'artista ostunese si è guadagnata speso specifico e spessore con ottime produzioni discografiche, critiche generose e una partecipazione recente nel gran circo mediatico di Sanremo. E la stessa location, da un po' di tempo, ha abituato i frequentatori della notte a proposte stuzzicanti. Le premesse migliori, dunque, ci sono. Però, manca qualcosa. La Grè non frantuma la patina di gelo (meteorologico e figurato) tra la scena e il pubblico, limitandosi. Trattenendosi. Non concedendosi mai completamente. O, almeno, questa è la sensazione. Anche se l'idea fondamentale è felice: perché galleggia tra jazz e pop, tra standard (una sofisticata e interessante versione di Moon River, ad esempio) e produzione propria, tra inglese ed italiano. Puntando deliberatamente sulla modulazione della voce e sulla delicatezza, che restano due punti di riferimento all'interno del suo bagaglio musicale. Di più: Amalia Grè interagisce assai poco con la gente, spendendo pochissime parole: quelle che ribadiscono gli inconvenienti atmosferici. Crediamo che, a certi livelli, non basti. E poco importa se il pianoforte è uno solo (in sede di presentazione, invece, il concerto prevedeva due pianisti). Anche perché Michele Ramauro sfrutta benissimo il suo, regalando momenti agili e vivaci e sonorità amabilissime. Il quartetto, peraltro, si appoggia sul basso di Marco De Filippis e sul timbro marcato della batteria governata da Alessandro Graziani. Talvolta, infine, Ricchezza Falcone garantisce le scene: compensando, in qualche maniera, la distanza tra la voce e la piazza. Diciamola tutta, allora: avremmo immaginato un concerto più caloroso, più avvolgente. Anche più ricco, sotto il profilo della quantità. Un concerto nato soprattutto per dignificare l'ultima fatica discografica della cantante pugliese, "Per Te": anche intrigante sotto il profilo musicale, ma - riteniamo - complessivamente banale nei testi in italiano. E questa volta, almeno, Amalia Grè e la sua voce possono ritenersi in credito.

Amalia Grè (voce), Michele Ranauro (pianoforte), Marco De Filippis (basso acustico e basso elettrico), Alessandro Graziani (batteria) e Ricchezza Falcone (scene)

Locorotondo (BA), Mavù Club

(pubblicato sul sito www.levignepiene.com)

lunedì 12 novembre 2007

Fiorella Tropicale

Il Brasile incanta. Ma fa anche tendenza, da qualche anno. Praticarlo, cioè, è una moda assai comoda, spontanea: dopo decenni di isolamento culturale. E mediatico. Non che adesso la gente, soprattutto in Italia, possieda un quadro chiaro sul Paese, la sua filosofia e la sua musica: anzi, le facili convinzioni che circondavano (e, spesso, stritolavano) quella terra al di là dell’Oceano si agitano ancora. Sminute, forse, dalla crescente informazione che caratterizza questi tempi difficili: ma ancora ben radicate, ben presenti. Il Brasile, ora, monta persino gli indici dell’audience. E, contemporaneamente e involontariamente, continua a provocare danni: pensate a quanta mediocrità musicale si avvicini alle sue sponde, pensando di confezionare un prodotto interessante. Impalcando, appunto, le proprie convinzioni sui luoghi comuni e sulla superficialità. Distruggendo la sua lingua e il suo bagaglio di fragranze, umori, sapori. Il Brasile chiama e attira. Non solo i mediocri, però. Del resto, si è lasciata attirare dal suo sinuoso richiamo, già in un passato transitato con la semplice pubblicità di nicchia e con il supporto delle traduzioni di Ivano Fossati, anche una signora della canzone italiana di qualità come Fiorella Mannoia. Che, da professionista attenta e da artista sensibile, ha raccolto la proposta, dignificandola però di attenzione e, soprattutto, di rispetto. E avvicinatasi ad un universo così composito con deferenza e umiltà. L’umiltà degli intelligenti: che, poi, sono i migliori. La Mannoia, ma ormai lo sanno in tanti, da gennaio gira per l’Italia diffondendo le note di “Onda Tropicale”, disco (da cui nasce il tour) che rilegge, riarrangia e – ovviamente – traduce in italiano alcuni classici e meno classici della musica popolare brasiliana. Esperienza nata da una passione assorbita progressivamente e da una forte attrazione, che l’interprete romana giudica particolarmente positiva: sotto il profilo umano (ha duettato, in sala di registrazione e anche dal vivo, con Chico Buarque de Hollanda, Lenine, Milton Nascimento, Chico César, Gilberto Gil, Caetano Veloso, Adriana Calcanhotto, Carlinhos Brown) e sotto l’angolazione professionale: tanto da consigliarne una seconda tappa, ovvero un secondo album di canzoni tratte dal repertorio della MPB, già ben avviato e prossimo alla pubblicazione. Operazione duplice che completa e amplia il primo approdo verso certe sonorità: e non potremmo dimenticare la fortunatissima (e sfruttatissima, da parte di molti autori, anche jazzisti) versione di "O Que Será", di Chico Buarque, sviluppata negli anni novanta. “Onda Tropicale” è un lavoro che ha estremamente stimolato Fiorella. Portandola diverse volte anche in Puglia, ad intervalli più o meno regolari: ricorderemo le tappe invernali e primaverili (a memoria: Bari, Lecce, Brindisi), alle quali si aggiungono gli impegni di agosto (Cannole, Barletta e, appunto, Ostuni). E imprimendole un atteggiamento che ci è sembrato più diretto, più immediato, forse anche meno affettato del solito. Più informale e persino più sciolta: ecco la Mannoia filobrasiliana, in ossequio alla terra che ha voluto omaggiare e, soprattutto, alla fantasia e alla giovialità del popolo che la rappresenta. Informale anche dentro il paio di jeans che sostituiscono il tradizionale abito scuro. E, ovviamente, nei passi di danza, ammiccati con frequenza. All’interno di una scaletta che, per evidenti motivi, ha integrato il repertorio brasiliano (insufficiente a coprire le due ore e un quarto di spettacolo) con qualche successo del passato (“Quello Che le Donne Non Dicono”, “Il Tempo Non Torna Più”, “Il Cielo d’Irlanda”, “L’Amore Con l’Amore Si Paga”, “I Treni a Vapore”, “Non Sono un Cantautore”) e con tributi sparsi (a Paolo Conte, con «la freschissima e colorata» “Messico e Nuvole”; a Sergio Endrigo, con “Io Che Amo Solo Te”; a Iavano Fossati, con “Panama” e “Belle Speranze”; e a Capossela, con “Che Cos’è l’Amor”). Una scaletta, peraltro, ben strutturata e abile a collegare temi e situazioni, autori e contesti storici e culturali diversi. E così, partendo da “Cravo e Canela” del mineiro Milton Nascimento, uno dei compositori brasiliani più geniali, e da “13 di Maggio”, versione mutuata dal repertorio di Caetano Veloso (che, in sintesi, racconta dell’abolizione della schiavitù in Brasile, datata 1888), sembra quasi naturale passare allo spartito di “Caterina”, brano italianissimo che, racconta la Mannoia, parla di un tipo di schiavitù più subdola, celata dietro altre cause. La voce, poi, riattraversa l’atlantico per intonare “Senza Paura”, traduzione di Sergio Bardotti di un vecchio testo di Vinícius de Moraes (“Sem Medo”), già utilizzato negli anni ottanta da Ornella Vanoni: che – per inciso – non fa parte di “Onda Tropicale”. E, immediatamente, si torna in Italia: tra le altre, è accorata l’interpretazione della fossatiana “C’è Tempo”, brano relativamente recente («Quando l’ho ascoltato per la prima volta, sapevo già che l’avrei cantato», ammette lei stessa) e molto energica appare la personalizzazione di “Dio E’ Morto”, canzone griffata Guccini che «ha quarant’anni, ma è ancora attualissima». Gli arrangiamenti sono calibratissimi, mai banali. Il sèguito, cioè la band, è di comprovata affidabilità. E, allora, si può sbarcare ancora in Sudamerica, provando a esprimersi (correttamente) in portoghese, con “Mama Africa” di Chico César, la consumatissima “Mas Que Nada” di Jorge Ben e l’altrettanta inflazionata “Sina” di Djavan (fa niente: qualche scelta è scontata, ma lo spessore artistico della Mannoia azzera ogni dubbio). E, infine, ci piace sottolineare la delicata performance di “Canzoni e Momenti”, tratta dall’opera di Milton Nascimento, uno dei momenti più intensi dell’intero concerto, vagamente imballato alla partenza, ma decollato (e poi esploso) abbastanza presto. Perché condito da voce, buon senso, concetti dosati e alta professionalità. Che, ancora una volta, riconosciamo ad un’artista pregiata, sicura di sé, affascinante. Con gratitudine.

Fiorella Mannoia (voce), Julian Mazzariello (piano), Marco Brioschi (tromba e flicorno), Bruno Giordana (fisarmonica e sassofono), Diego Borotti (sassofono e flauti), Massimo Fumanti (chitarre), Dario Deidda (basso), Elio Rivagli (batteria), Carlo Di Francesco (percussioni), Emanuela Gramaglia (cori) & Cristina Montanari (cori)
Ostuni (BR), Nuovo Foro Boario

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

domenica 14 ottobre 2007

Dischi - L'Immagine di Te (Radiodervish)

Ipotizziamo: il progetto-Radiodervish, sin dagli inizi, s’impregna di originalità, per niente scalfita dalle frequenti operazioni di avvicinamento altrui. La rincorsa a certe sonorità, cioè, esiste e resiste, assalendo da diverse direzioni: ma l’originalità, quando si scopre e appare, non sfugge ed emerge. Per questo, la gente avrà captato il messaggio, dilatatosi nel tempo. Accettandolo e incoraggiandolo. Quel messaggio che nasconde tra le note una sua limpidezza, un istinto diretto e profondo. E la versalità vocale di Nabil Ben Salameh, leader di una formazione ormai fortemente (e affettivamente) radicata nel territorio, quello di Puglia, ma facilmente esportata: e non da oggi. Una formazione che, di questi tempi, può essere considerata di culto: affermazione difficile, ma suffragata dai fatti. E non alberga il timore di ritrovarsi smentiti. E poi, ancora: la band galleggia sicura su indubbie qualità musicali, sapientemente shekerate tra gli arrangiamenti puliti e ricercati di Michele Lobaccaro e le composizioni solide, disposte ad affrontare il peso degli anni e gli attentati subdoli della memoria. Tra atmosfere mediorientali e la world music di impronta europea. Infine: certa musica è musica di questi tempi e occorre pure tenerne conto. La moda, cioè, trascina anche gli spartiti e si fa cavalcare. Le cause, forse, spiegano gli effetti. Ma, se non lo fanno, cambia poco. La verità è che ogni apparizione dal vivo dei Radiodervish crea attesa. Ovvero, affluenza: recentemente confermata a Conversano, in un live all’aperto con le controindicaziooni della tramontana e la concorrenza ingombrante del calcio in tv (la Nazionale giocava e vinceva). Non è poco. E ogni novità discografica del gruppo appulo-palestinese diventa un evento: come la presentazione ufficiale de «L’Immagine di Te», album di nove tracce griffato Radiofandango, avvenuta nell’affollatissima (e, per questo, angusta) ma preziosissima sede barese della Feltrinelli. Prima nazionale ovviamente: in attesa di pubblicizzare il prodotto (in commercio dal 19 ottobre) nel resto del territorio italiano: sfruttando, appunto, la catena dei punti Feltrinelli. Il lavoro segue il binario del successo evidente degli ultimi tre dischi realizzati dai Radiodervish (“Centro del Mundo” del 2002, “In Search of Simurgh” del 2004 e “Amara Terra Mia” del 2006), ma non lo rincorre. Non completamente, almeno. E non solo per il singolo che presta il nome all’intero album: una canzone, diciamo così, saldamente agganciata ai vagoni del pop. Partorita con un gusto meno esotico, forse a beneficio di un pubblico ancora più ampio. Che, riteniamo, sia uno degli obiettivi precipui della produzione, affidata a Pino Pinaxa Pischetola (responsabile del missaggio e della programmazione dei suoni) e, soprattutto, a Franco Battiato. La cui presenza, da questo punto di vista, è assolutamente itinerante, nonché vincolante. Lavoro basato su brani inediti, di amore e di vita, che sa continuare ad attingere dalle tonalità arabeggianti, ma che concede numerosi ammiccamenti alla musica largamente distribuita negli anni ottanta e anche alla disco music del decennio precedente. «Battiato, per noi, ha sempre costituito un punto di riferimento – svela Nabil -. Oggi, è anche qualcosa di più». Guida spirituale, ambasciatore nobile di un progetto che vuole ampliarsi, ramificarsi, complice di un sogno che vuole durare nel tempo. A dieci anni dalla costituzione del gruppo, che adesso può contare – dopo qualche apparizione fugace del passato – anche sul violino di Anila Bodini, che numericamente ha rimpiazzato il violoncello di Giovanna Buccarella, compagna di viaggio degli ultimi tempi. C’è sempre, invece, Alessandro Pipino, tastierista (e fisarmonicista) storico dei Radiodervish, che è anche il coautore musicale di tutti i brani (“L’Immagine di Te”, “Tutto Quello Che Ho”, “Babel”, “Se Vinci Tu”, “Milioni di Promesse”, “Yara”, “Avatar”, “Sama Beirut” e “Stella Briciola di Campo”). E c’è, alla batteria, anche Antonio Marra, il quinto uomo di una formazione che, se non cambia indirizzo, comincia a perseguire pure altre direzioni musicali. Evitando, se non altro, di ripetersi e di adagiarsi sulle fortune già conosciute. Affrontando, semmai, un altro problema: le reazioni dei più affezionati, abituati ad un certo cliché, fresco e raffinato. Reazioni che conosceremo presto. Consapevoli che il concetto di qualità è salvaguardato anche dall’ultimo disco. Da cui si può ripartire: avvicinandosi con fiducia.

L'immagine di Te (Radiofandango, 2007)
Radiodervish (Nabil Ben Salameh: voce e chitarra acustica; Michele Lobaccaro: basso e chitarra acusstica; Alessandro Pipino: tastiere; Anila Bodini: violino; Antonio Marra: batteria)


(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

venerdì 24 agosto 2007

Pino Daniele è ancora qui

«Il Mio Nome E' Pino Daniele e Vivo Qui». Sembra aleggiare il sapore della rivendicazione, sembra sgomitare l'esigenza di evidenziare una presenza e un'appartenza. Sembra avanzare l'istinto di sottolineare una linea musicale, un percorso artistico, una storia. Più semplicemente, forse, è l'ultimo album ideato e confezionato da uno dei cantautori più prolifici del palcoscenico italiano. E, soprattutto, da uno degli artisti più radicati nel territorio discografico, senza soluzione di continuità. Da trent'anni: mese più, mese meno. Cioè, da un personaggio di culto: al di là delle tendenze del momento, delle mutazioni generazionali, dell'evoluzione (o dell'involuzione) di certe forme di comunicazione, anche nel campo delle note e delle sonorità. Esatto, perchè Pino Daniele, napoletano emigrato, canta e suona da anni lunghi, senza aver mai disperso la voglia e il coraggio di esprimersi, sentendo di aver ancora qualcosa da dire o da offrire. Rifugiandosi - è successo recentemente - in spartiti più morbidi, più etnici (diciamo pure più arabeggianti): in ossequio a quell'idea meravigliosa di comunicare con altre culture, con altre forze concettuali. In ossequio a quella corsa verso la commistione e la contaminazione che, da un po', sembra aver contagiato artisti nobili e meno nobili: e che sembra essere diventata (anche meritoriamente, sia detto) una delle priorità del Duemila. E allontanandosi, magari, da quelle atmosfere profondamente blues che avevano caratterizzato il suo approccio con il successo. Atmosfere che, peraltro, Daniele non ha mai rinnegato. Anzi, puntualmente rispolverato: alla prima occasione.E proprio l'ultima produzione discografica è il motivo trascinante del tour estivo, ovviamente fiorente di date, anche pugliesi, come quella di Ostuni. Tradotte in un concerto equamente (e simbolicamente) diviso in due parti, discretamente itinerante, guidato a due velocità distinte. Ma sempre con garbo, buon gusto, nei binari del buon ascoltare. Di là (la prima parte) le composizioni più giovani, più intime; gli accordi più dolci e curati, i toni - talvolta - quasi confidenziali, le tonalità più morbide e delicate. E la chitarra acustica, accompagnata da contrabbasso (quello di Rino Zurzolo, compare storico), batteria (c'è Alfredo Golino), piano (di Gianluca Polio) e percussioni (con la vivacità di Ernestico): un supporto essenziale, niente affatto invadente, ma anche generoso di spunti armonici. Nel segno di una sobrietà matura, che riesce a catturare. Di qua (la seconda parte del live) le canzoni più stagionate, più generose di suoni, più immediate all'assimilazione, più spedite. E' il momento in cui Daniele si alza e imbraccia la chitarra elettrica e il contrabbasso si fa sostituire dal basso: e, allora, sfilano vecchi ricordi come "Toledo", "Habana", "Io Per Lei", "Yes, I Know", "Che Dio Ti Benedica", "Io So' Pazzo". C'è il blues, adesso: e si sente. «Ma sono un napoletano che è andato via dalla propria terra - ammette -. E qualsiasi meridionale porta con sé, dovunque vada, il sentimento del sud. Per questo sono arrivato ad una conclusione: essere del sud è un modo di vivere che resta nella testa. E così conserviamo il nostro grande attaccamento alla terra». Parole utili per introdurre un brano spartiacque, un classico del primo periodo artistico - il periodo napoletano -, "Napule E'", degno di resistere in mezzo a due altri e ben definiti momenti storici di una carriera inseguita da due (o, forse, tre) generazioni. Ovviamente distribuite tra il pubblico. Ma il dato, questa svolta, appariva scontato. E ci avrebbe meravigliato qualcosa di diverso. Perchè la canzone italiana d'autore sa durare nel tempo: sempre che, alla base, convivano musicalità e spessore intellettuale. La tendenza di un momento o il frutto di una moda fugace e sfuggente, invece, affonda. E, davanti, non resta nulla.

Pino Daniele (voce e chitarre), Gianluca Polio (piano), Rino Zurzolo (contrabbasso e basso), Alfredo Golino (batteria) e Ernestico (voce e percussioni)
Ostuni (BR), Nuovo Foro Boario

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

martedì 31 luglio 2007

Divagando con Lisa

Era da un po' che Lisa Manosperti non transitava da queste contrade. Ma il vento della musica fluttua e l'incontro tra la sua voce profonda e marcata e la Puglia delle note si è infine riproposto: più precisamente a Gioia del Colle, dove ogni anno il cartellone organizzato dall'amministrazione comunale lascia convergere qualche appuntamento nell'affascinante (e, nell'occasione, ventilatissima) area archeologica di Monte Sannace, location stuzzicante e gravida di atmosfera. Però, diciamolo, pure, l'idea di ritrovare la Manosperti si è scoperta immediatamente buona: per l'intensità del live, per il profilo variegato del repertorio e per la formazione che l'ha accompagnata sul palco (il saggio Nucci Guerra, al bandoneón e alla chitarra, e il prode Felice Mezzina ai sassofoni). Sèguito che, poi, non è la formazione abituale. O meglio, completa: «Anzi, la situazione in trio è una novità dettata dalle contingenze. In realtà, nel caso specifico, sono mancate la ritmica e il quartetto d'archi, che solitamente ci sorreggono. Si è deciso di rischiare, è vero, ma a me richiare piace», sottolinea la vocalist di Bitetto. Che, nel frattempo, ha anche ricordato la sua ultima creazione discografica, un omaggio ad Edith Piaf, assemblato dall’etichetta leccese “Dodicilune” . Album, peraltro, in distribuzione dal primo agosto: esattamente un giorno dopo il concerto gioiese. Spartiti tra le vestigia del passato. Ed esibizione intrisa di molte nostalgie: ammiccando alla produzione della citata Piaf, ma anche all’immortalità dell’opera di Piazzolla (poteva mancare Libertango? No, assolutamente), alle composizioni gitane in lingua spagnola, ai clasici jazzistici (tra gli altri titoli, la gershwiniana “Summertime” e la più moderna “Spain” di Chick Corea), alle composizioni di Kurt Weil, ai successi della portoghese Dulce Pontes (la versione di “O Infante” è carica di toni e sentimenti) e alle partiture di Ennio Morricone (“C’era una Volta il West”). E divagando tra stili differenti eppure affini, shekerati con gusto, sicurezza e un pizzico di sana tensione emotiva, saturi di effetto e di modulazioni. Oltre che musicalmente ben gestiti da due navigatori antichi del palcoscenico come Mezzina e Guerra, sempre pronti a cercarsi e a intrecciarsi. La maturità artistica di Lisa Monosperti, al di là delle frequentazioni sonore, è tuttavia palpabile. Maturità avvalorata anche dalla felicità di espressione in quattro lingue, italiano escluso, dalla facilità di connessione con il pubblico e dalla capacità di personalizzare (anche con dichiarata enfasi) ogni singola interpretazione. Elementi, questi, che - una volta combinati – mantengono il concerto sempre vivo e vigoroso, tutt’altro che scontato. E che non corre il pericolo di restare schiacciato nelle maglie degli standard, troppo spesso abituati a togliere, piuttosto che a dare. Maglie inespugnabili, tante volte, come ragnatele spesse. Ma disposte, talvolta, a lacerarsi: sotto la spinta di forti dosi di fondamentali, di cuore, grinta, passionalità e carattere.

Lisa Manosperti (voce), Nucci Guerra (bandoneón e chitarra) & Felice Mezzina (sassofoni)
Gioia del Colle (BA), Area archeologica di Monte Sannace

(pubblicato sul sito www.levignepiene.com)

sabato 14 luglio 2007

Curve nella memoria

«Un Uomo» è uno scrigno, un condensato sonoro, un riassunto di trent’anni. E di un artista. Di un artista vero e verace. E anche abbastanza incazzato: un tempo, almeno. Quando le parole, più di oggi, significavano qualcosa e anche di più. Quando la parola era la parola: forma e contenuto, veicolo di idee da sperimentare, diffondere, affrontare. Incazzato, sì. E, talvolta, persino scomodo: perché pensare è scomodo. Qualche tempo fa, almeno: quando la canzone cantautorale, più di oggi, era poesia di strada, verbo, specchio del disagio, coscienza popolare. Quando la gente non sprecava le parole, provando a pensare. Pur sapendo che, molto spesso, pensare è sconsigliato. «Un Uomo» è il testimone del viaggio musicale di Eugenio Finardi, milanese testardo ed affabile, un tempo discretamente rockettaro: molto più di altre firme pregiate della canzone italiana. Quella di qualità, per intenderci. E oggi cinquantacinquenne brizzolato e acquietato: se non intellettualmente (non lo crediamo, infatti), almeno nelle movenze, nell’atteggiamento. E, comunque, palesemente intrappolato da quella malinconia che si arrampica, implacabile. E che, in fondo, addolcisce, smussa, affina. Di più: «Un Uomo» è una vera e propria collana discografica (quattro cd, per la cronaca), profonda e approfondita, che racconta una sessantina di passaggi tra i più rappresentativi della carriera del cantautore, attorno ai quali – però – gravitano anche undici brani inediti. Un’antologia o quasi. E, probabilmente, uno spartiacque tra passato e presente. Ovvero, un album multiplo che l’Italia sta conoscendo con «Un Uomo Tour», passato anche per il Salento. Dove Finardi ha consumato il concerto più ricettivo della Notte Bianca 2007 di Melpignano, sul palco sistemato affianco alla sagoma barocca (e ormai celebratissima, grazie alla Notte della Taranta) del Convento degli Agostiniani, sempre più location di tendenza. In una situazione che, peraltro, ha avvicinato note di diversa estrazione e teatro, animazione e letteratura. Concerto «di canzoni nude e crude, come ce le suoniamo tra di noi»: il vecchio ragazzo è di ottimo umore e il colloquio con la platea è assolutamente confidenziale. Non c’è band: solo voce e chitarra, con l’apporto continuo del pianoforte di Alberto Tafuri. Lo charme garbato fa atmosfera, senza caricarla. I toni rimangono morbidi, inalterabili. Anche il live parte da lontano, dagli albori, dagli anni settanta. Da “Voglio” e “Patrizia”, toccando titoli riveriti come “Dolce Italia”, “La Forza dell’Amore”, “Diesel”, “Stellina”, “La Radio” e, ovviamente, “Musica Ribelle”, il secondo e ultimo bis. Puntando, in un paio di momenti, sul blues più puro, che è poi l’origine musicale di Finardi (bella la versione di “Holy Land”). In tutto, settanta minuti: non tantissimi, ma ben strutturati, con semplicità. Del resto, la notte avanza e altre arti (altrove, tra Piazza San Giorgio e il centro storico) reclamano spazio e attenzione. Avanza come avanza il tempo: che certifica l’imbocco della curva della memoria, quella porzione di tragitto che non risparmia neppure Finardi, cinquantacinquenne ancora rampante, ma assai più languido. E professionista sensibile e serio: come, non troppo tempo addietro, dimostrò anche a Mola, esibendosi ugualmente, a poche ore di distanza da un fastidioso collasso pomeridiano. C’era la band, allora: ma la verve era già più gentile, misurata. Sembrava semplicemente un orientamento prudente e temporaneo, dettato dalle circostanze. E, invece, non avevamo captato che la curva della memoria era lì, pronta ad essere percorsa. Con eleganza naturale, con trasparenza. E senza dispiacere, in fondo.

Eugenio Finardi (voce e chitarra) & Alberto Tafuri (pianoforte)
Melpignano (LE), Piazzale del Convento degli Agostiniani
Passeggiando Sotto la Luna – Notte Bianca 2007

(pubblicato sul sito www.levignepiene.com)

sabato 24 marzo 2007

La novità che conferma

La teatralità è la stessa di sempre. Come l’originalità, che è poi un segno distintivo del percorso artistico di una delle formazioni più versatili, fantasiose e regolari (per la ricercatezza dei testi, per la capacità di riciclare vecchie idee, rivestendole con panni nuovi, per l’attenzione puntualmente spesa nel mescolare stili e sonorità e, soprattutto, per la presenza costante sul palco e sul mercato discografico) dell’intero panorama cantautorale italiano. E anche l’intensità del sound è la stessa di un tempo. Esatto: gli Avion Travel, proprio per questo, non deludono mai. Congelando il tempo che passa e, piuttosto, rilanciando: il repertorio classico, ormai consumato (“Dormi e Sogna”, “Abbassando”, “Aria di Te”), nuove proposte (“Il Giudizio di Paride”), versioni aggiornate e rispettose di altrui successi passati (ricordiamo, per tutte, “Canzone Appassiunata”) e le cover di Paolo Conte (“Aguaplano”,”Un Vecchio Errore”, “Simadicandapaji” e la solo strumentale “Max”). Cover che, riunite, hanno recentemente impalcato un cd, motivando l’ennesimo tour, passato appunto, per la Valle d’Itria, sistemandosi nel cartellone invernale allestito dal Mavù di Locorotondo, masseria-club sdraiata nelle campagne che conducono sino a Cisternino. Location, questa, scelta – anche recentemente – per ospitare avvenimenti di indiscutibile pregio: ultimo, almeno in ordine cronologico, quello del live di Caetano Veloso, la scorsa estate. E non tradisce neppure il progetto itinerante della Piccola Orchestra: ci preme sottolinearlo. Continuando a puntare con orgoglio sul bagaglio delle emozioni e dei sentimenti. Tra smorfie e assoli, tra buon gusto e mestiere consolidato: lasciando incrociare elementi popolari ed eruditi pronti a sfilare assieme e convivere, senza sfidarsi. Esplorando, se vogliamo, sentieri apparentemente sicuri, eppure ugualmente rischiosissimi, come l’antologia musical-poetica del maestro astigiano, amico antico e –sappiamo – straordinariamente esigente e, dunque, anche scomodo. «Paolo Conte, del resto, significa qualche estate fa, in un momento in cui la musica si faceva per piacere e per mestiere», rivela Peppe Servillo, guida spirituale e líder máximo del gruppo casertano, animale da palcoscenico di immutata arguzia, nonché finissimo comunicatore e assemblatore di una macchina che, ormai, procede a memoria. Malgrado il turno-over.Sì, perché l’ensemble può anche rinnovarsi, a volte. Temporaneamente o definitivamente: questo è da chiarire. E, se è vero che lo stesso Servillo, il debordante Fausto Mesolella (alle chitarre) e il batterista Mimì Ciaramella (anche alla voce: niente male, davvero) restano tre pietre miliari, è pure vero che si rivede Vittorio Remino al contrabbasso in luogo di Ferruccio Spinetti, così come Falvio D’Ancona (tastiere) avvicenda Mario Tronco, ultimamanete assorbito dall’Orchestra di Piazza Vittorio. E c’è, infine, una novità assoluta. E femminile. Si chiama Martina Marchiori: al violoncello, per la precisione. La nuova formazione, peraltro, non contempla fiati: e, dunque, manca anche il sassofonista Beppe D’Argenzio. Il prodotto finale, comunque, non perde equilibrio, né pienezza. Il concerto è uno di quegli appuntamenti con gli Avion Travel che conoscevamo: rotondi, serrati, avvolgenti. Oltre tutto, la platea (vicinissima, praticamente a contatto) non priva il live né di sostanza, né di fragranza. Finendo, anzi, per esaltarne la teatralità, che Servillo chiama pagliacciate. Ben venga, allora, questa nuova Piccola Orchestra. E che torni pure a trovarci, tra un po’. Scontentando, magari, quanti inorridiscono davanti alle cover. Che, attenzione, non costituiscono la spina dorsale dello spettacolo, ma lo completano. Quelle cover che, forse, qualcuno vorrebbe intatte, identiche agli originali. Che intatte e identiche, però, non potranno mai restare. Perché l’operazione non avrebbe senso alcuno: la musica dal vivo, scriviamolo pure, è soprattutto improvvisazione. Ricordiamocene, talvolta. E diffondiamo il concetto, se possiamo. Aiuterà.

Piccola Orchestra Avion Travel (Peppe Servillo: voce; Fausto Mesolella: chitarre e cori; Flavio D’Ancona: tastiere; Vittorio Remino: basso e contrabbasso; Martina Marchiori: violoncello; Mimì Ciaramella: batteria e voce)
Locorotondo (BA), Mavù Club
Mavù Plus

(pubblicato sul sito www.levignepiene.com)

domenica 29 ottobre 2006

L'opera prima di Tenneriello

ControVerso è un’opera prima. E, come qualsiasi opera prima, deve incoraggiare chi la realizza. Spronandolo a limarne gli angoli più ruvidi e a fortificarne le convinzioni. Ma il primo lavoro discografico di Leo Tenneriello (e del suo gruppo) garantisce la presenza di un’idea e assicura un solco dentro cui perseguire le linee di domani. ControVerso non è un progetto rivoluzionario, né innovativo, ma un’intenzione interessante. Dove il pop d’autore assume frequenti venature rock, rafforzate dalla chitarra elettrica di Egidio Maggio, dalle evoluzioni extracustiche della tastiera di Marcello Ingrosso e dal raddoppiamento della voci (alle parole di Tenneriello si associano e si mescolano quelle di Marco Nuzzo). Venature peraltro puntualmente addolcite dal sassofono di Tonino Semeraro, di visibile scuola jazzistica. Controverso è una raccolta di otto tracce, distribuite dall’etichetta Interbeat e nate – sembra di capire – con una solida porzione di pudore. Non per caso, ci mancherebbe. Ma senza la presunzione di abbagliare, stordire. Per di più, generate in riva ai due Mari, in una terra difficile da vivere. Anche e soprattutto artisticamente parlando. E accolte in Salento dalla rassegna Tele e Ragnatele, marchio di fabbrica della Saletta della Cultura “Gregorio Vetrugno”, da quattro anni palestra abituale della musica di nicchia, di qualità e possibilmente giovane. Dove, generalmente, non transitano nomi e cognomi unanimemente riconosciuti. E dove, purtroppo, occorre lottare troppo spesso con l’indifferenza popolare. Particolare che potrebbe tranquillamente infastidire Mario Ventura, ideatore della kermesse e ancora saldamente motivato. ControVerso, dunque, è il primo passo. Che, da solo, non può permettersi di occupare lo spazio di un concerto. E, allora, per allargarsi, il quintetto tarantino ricorre (con soggezione, dice) alle cover, in attesa di pensare e presentare il secondo album, evidentemente già calendarizzato. Ecco, perciò, “Rimmel” e “Generale” di De Gregori, “Cosa Sarà” di Dalla e De Gregori, “Mangiafuoco” e “L’Isola Che Non C’è” di Edoardo Bennato, “Uh Mammà” di Mimmo Cavallo, “Io So’ Pazzo” di Pino Daniele e un omaggio a Bob Dylan. Logico, però, tributare maggiori attenzioni sulla produzione originale, che si aggrappa pure sul contributo robusto di Enzo Tenneriello: come “Volo Non Volo” (scritta sulla solitudine di chi non conserva più illusioni), “Devi Imparare” (le note sono firmate anche da Mimmo Cavallo, così come quelle de “Il Mio Falconiere”), “Girasoli” (di Tonino Semeraro, «che mi ha spinto a produrre il cd», riferisce Leo Tenneriello), “Amore Tolemaico”, “Isola Possibile” («è la ricerca dell’altrove che ognuno si porta dentro»), “La Cattiveria” e “Il Grillo” (un po’ il manifesto dell’intero disco, brano «che rappresenta chi possiede un punto di vista diverso sulle cose e per questo viene prevaricato»). Non attendetevi, però, testi arrabbiati o troppo complicati. Leo Tenneriello e il suo seguito (a proposito, Maggio e Ingrosso vantano un percorso datato al fianco di Mariella Nava) si prefiggono di non prendersi eccessivamente sul serio. O, più semplicemente, non abbandonano impunemente i binari del pop per addentrarsi in sentieri più accidentati, limitandosi a riflettere sulla quotidianità degli eventi. Badando, tuttavia, più alla sostanza (delle parole, del messaggio) che alla forma (il confezionamento del live, la raffinatezza dei timbri vocali). Anzi, apparendo talvolta un po’ bruschi, spicci. E abusando delle basi musicali, che – è un parere – tolgono qualcosa, invece di arricchire il progetto. Un progetto destinato a smussarsi e modellarsi. Leo Tenneriello e soci sono i primi ad attendere se stessi.

Leo Tenneriello (voce), Marco Nuzzo (voce), Marcello Ingrosso (tastiera), Egidio Maggio (chitarre), Tonino Semeraro (sassofono, fisarmonica e tamburello)
Novoli (LE), Saletta della Cultura “Gregorio Vetrugno”
Tele e Ragnatele 2006

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

venerdì 22 settembre 2006

Il nastro è riavvolto

Recuperare la strada interrotta, questo è il problema. Anzi, questo è il punto. Perché, probabilmente, un problema non è. Perché, magari, si tratta semplicemente di un’esigenza interiore, squisitamente artistica. Oppure di un piacere assolutamente personale. E poi i tempi cambiano. E, dal momento che nulla si inventa, ripercorrere le curve della memoria si può. Diciamo anche che, talvolta, la nostalgia corrode. E che Ivano Fossati, alle tematiche legate alla nostalgia, non ha mai rinunciato, vantandosene. Il dato, intanto, è di lettura agevole: il nuovo ciclo di live del cantautore genovese è di impatto generosamente rockettaro, come già ampiamente certificato dall’ultimo lavoro pubblicato (L’Arcangelo) e dalla progressiva inversione di tendenza del suo percorso musicale negli ultimissimi tempi. Nessuna sorpresa, dunque, a Lecce (Chiostro del Palazzo dei Celestini, cioè l’attuale Palazzo dell’Amministrazione Provinciale, sotto la regia di Deltaconcerti). Anche perché, in fondo, Fossati si riaccosta alle origini. E non solo con le note. Ma, anche e soprattutto, con i testi: adesso decisamente più espliciti e meno raffinati, più immediati e meglio decodificabili. Pensandoci bene, oltre tutto, l’utilizzazione massiccia della chitarra (il pianoforte c’è, ma compare e scompare) significa più di qualcosa. Finendo con l’indirizzare, l’influenzare. E modificando l’atmosfera. La terza vita di Fossati, cioè, sembra parente più stretta della prima, piuttosto che della seconda, peraltro mai abiurata. Tanto, comunque, da sussultare all’improvviso. E graffiare, quando serve. Intendiamoci: nel mare delle proposte che sgorgano dagli ultimi due album confezionati continuano a spuntare i marchi indelebili di “La Madonna Nera”, “La Pianta del Te’” e “Mio Fratello Che Guardi il Mondo”, oppure le note de “La Canzone Popolare” o de “I Treni a Vapore”. Però, ad esempio, la rinuncia all’interpretazione di almeno un brano di «Discanto», un disco ormai datato – ma assolutamente fondamentale, nel tragitto storico dell’artista ligure – non passa inosservata. Proprio no. Ancora: anche l’approccio (musicalmente robusto) del concerto è indicativo: “Ventilazione” è un brano stagionato, eppure mai troppo proposto dal vivo, negli anni precedenti. “La Crisi”, sùbito dopo, trascina problematiche dei nostri giorni con un linguaggio trasparente, semplice, cioè privo di mediazioni verbali di fossatiana memoria. “Ho Sognato Una Strada” – che, per la cronaca, apre L’Arcangelo – è invece una finestra sulle guerre (preventive oppure no) sacrificate per il controllo delle strategie petrolifere. Ed è lo spunto ideale per soffermarsi sull’attività di Amnesty International e per introdurre “Pane e Coraggio” e “L’Arcangelo”, storie di marginali ed emarginati assorbiti da mondi diversi («La speranza si compra/ Ma tutto il resto si vende»). Di sèguito arriva la delicata “L’Amore Fa” («L’amore fa la guerra agli idioti, agli arroganti pericolosi…/ L’amore è una puttana/ Che onora la bellezza»), che introduce i pezzi di maggiore impegno, come la recentissima “Cara Democrazia” (Cara democrazia/ Sono stato al tuo gioco/ Anche quando il gioco si era fatto pesante…/Sono stato tradito/ O sono stato ingannato/ Con quanta leggerezza/ Sono stato alleggerito). I balconi del ricordo, intanto, si affacciano sulla sintesi del tributo: “Ragazzo Mio”, di Luigi Tenco, si porta dietro – come garantisce lo stesso Fossati - «un genere di scrittura difficile» («Non credere che gli uomini senza idee per primi vanno a fondo»). Appena più tardi, invece, l’immancabile “Panama” si veste di tonalità decisamente elettroniche, mentre “La Musica Che Gira Intorno”, un classico amatissimo, chiude il repertorio, anticipando i bis (cinque: “Il Bacio Sulla Bocca”, “Questi Posti Davanti al Mare”, “La Canzone Popolare”, la toccante “C’è Tempo” e “Il Disertore”, del francese Vian). Ma, ad applausi esauriti, resta una certezza: qualcosa è cambiato. Oppure, niente sembra essere davvero cambiato. Il nastro si riavvolge. E tutto ritorna al proprio posto.

Ivano Fossati (voce, chitarra e pianoforte), Mirko Guerrini (sassofono, fisarmonica, pianoforte e tastiera), Pietro Cantarelli (pianoforte e tastiera), Fabrizio Barale (chitarre), Riccardo Galardini (chitarre), Daniele Mencarelli (basso e basso elettrico), Claudio Fossati (batteria), Marco Fadda (percussioni)
Lecce, Chiostro del Palazzo dei Celestini

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

domenica 12 febbraio 2006

Incroci di tendenza

Ci affidiamo alla memoria, senza vincoli cronologici: prima Dalla, poi Battiato, Minghi, Antonella Ruggiero, quindi Teresa De Sio. Anche da queste parti, persino ultimamente. I nomi della canzone (d’autore) italiana scelgono sempre più spesso - sembra questa la tendenza – a incrociarsi e misurarsi (e, magari, ad affinarsi, completarsi, divertirsi: fate voi) con le note e le sonorità più classiche o seriose di un’orchestra sinfonica. Elaborando un progetto fuori dagli schemi, eppure dentro la logica musicale. Cercando percorsi alternativi che valichino il confine del deja vu e del già sentito. Inseguendo, forse, qualcosa di nuovo che, di fatto, nuovo non è più, da un po’. Tributando, tuttavia, sensazioni (quasi sempre, immaginiamo) godibili: e, dunque, rispondendo ad un’implicita richiesta della gente, che di sensazioni vuole vivere. Almeno dentro un teatro, un auditorium, uno stadio o un palazzetto dello sport. Dove cioè, si produce spettacolo: musicale e non solo. Il fenomeno che avanza si chiama commistione. Anzi, diciamo pure ci piace chiamarlo così. E ci provano in tanti, ormai. Dicevamo di Dalla: ha inaugurato, anni addietro, il discorso e proprio questo mese, a Taranto, si esibirà al fianco dell’Orchestra della Magna Grecia diretta da Luís Bacalov. Lo stesso ensemble che, a febbraio, ha condiviso per cinque serate gli applausi con Teresa De Sio, decurtando – probabilmente- il potenziale sonoro degli abutuali compagni di viaggio della cantante cavese, la Folkorkestra, ma assicurando al pubblico un’impressione finale di appagamento. Alla lista, poi, si è aggiunto anche Sergio Cammariere, autore che sa essere raffinato e intrigante, delicato e versatile. E ritrovatosi, ad inizio di marzo, sul palco dell’Auditorium della Guardia di Finanza del quartiere San Paolo, al fianco dell’Orchestra Sinfonica della Provincia di Bari diretta da Paolo Silvestri. Detto per inciso, il live, inserito nell’ambito della stagione concertistica dell’Orchestra stessa, ha convinto tantissimo: innanzi tutto per il suo confezionamento, semplice e diretto, cioè efficace, ma anche per la facilità di conversazione instauratasi tra l’attrazione principale (Cammariere, appunto) e l’esercito (quarantacinque elementi) dei musicisti di supporto, ai quali si sono aggiunti i fedelissimi del compositore calabrese (il sempre più interessante Fabrizio Bosso alla tromba, vero e proprio guest della serata, il navigato Luca Bulgarelli al contrabbasso e il batterista Amedeo Ariano, asciutto e, al contempo, vivace). Così come ha convinto lo stesso Cammariere, più sciolto e comunicativo rispetto al passato e, soprattutto, più disposto a improvvisare. E, perche no, a diversificare la scaletta (costituita dai passaggi più belli dei suoi due lavori pubblicati, “Dalla Pace del Mare Lontano” e “Sul Sentiero”), tanto da interpretare un omaggio a Luigi Tenco e proporre una rivisitazione di “Caravan”, di Duke Ellington. Sia chiaro, però: diversificare non è assolutamente necessario. E’ necessario, piuttosto, un progetto che sappia offrire e offrirsi: operazione, per l’occasione, pienamente riuscita. Conseguenza logica, quando nessuno ruba lo spazio altrui. E, in un’epoca dove impera il concetto di commistione, assicurarsi il rispetto dei ruoli non è mai facile.

Sergio Cammariere (voce e pianoforte), Fabrizio Bosso (tromba e flicorno), Luca Bulgarelli (contrabbasso), Amedeo Ariano (batteria) & l’Orchestra Sinfonica della Provincia di Bari diretta da Paolo Silvestri

Bari, Auditorium della Guardia di Finanza

Stagione Concertistica 2005/2006 dell’Orchestra Sinfonica della Provincia di Bari

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)