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sabato 15 dicembre 2012

Magnolia, la bimba dalle scarpe rosse

Magnolia è un disco firmato. Perchè ogni accordo trascina il nome e il cognome di chi lo ha disegnato. E anche al primo ascolto, senza conoscere l'autore, quelle note e quegli spartiti svelano il pianismo - questa volta ancora più fresco, più immediato e meno intimo - di Mirko Signorile. Che, al Teatro Forma di Bari, presenta l'ultima produzione della propria già sufficientemente corposa collana personale. Ovviamente commercializzata a ridosso dell'evento (il trenta novembre, per essere precisi) dalla Auand Records, etichetta biscegliese che ama occuparsi del talento musicale sparso per le contrade di Puglia. E, tra parentesi, sostenuta da Puglia Sounds: a conferma della forte pugliesizzazione dell'operazione, come proprio Signorile conferma con orgoglio in coda al concerto, sul palco. Dove, con il pianista di Modugno, si riuniscono il contrabbassista Giorgio Vendola, il batterista Fabio Accardi, il percussionista Cesare Pastanella e la violoncellista Giovanna Buccarella. Formazione, questa, ormai collaudata: ma integrata, seppure per pochi minuti, dalla voce di Giovanna Carone, compagna di viaggio in un'altra avventura parallela.
Magnolia, dunque: questo è un album che coniuga e miscela leggerezza e semplicità, ma senza sminuire lo spessore compositivo. E senza ripercorrere il solco di Clessidra, il primo (e fortunatissimo) lavoro confezionato a proprio nome da Mirko Signorile: una scelta, immaginiamo, precisa. E che ci sentiamo di condividere. E', di fatto, un disco diverso. Più attento, probabilmente, a certi gusti della gente, che oggi si avvicinano ad una musica meno cerebrale, più diretta. Ma, comunque, venato da sonorità digeribili: per ogni tipo d'orecchio. Le tracce sono undici, di minutaggio contenuto. Come sono undici le storie raccontate attraverso gli occhi di una bambina dalle scarpe rosse: Magnolia, appunto. "Viola" è il colore preferito dell'autore. Un ragazzo di trentanove anni (a febbraio) che prova a sognare. Oppure, il colore della sua anima. "Come i Burattini" è quel mondo in cui le gioie e la malinconia si incontrano. "La Rosa nel Deserto" è un brano che nasce per caso e per necessità, ma anche un omaggio all'Africa. "Magnolia", che dà il titolo all'intera raccolta, è una bimba immaginaria che possiede il dono di sorprendersi. "E Si Aprirono le Ali" è dedicata a quanti escono da un periodo particolarmente delicato della propria vita. "Il Giro della Testa", vocalizzato da Giovanna Carone, è quel momento in cui si materializza qualcosa di inatteso. "La Danza del Rivale" sono le evoluzioni da corteggiamento di un uccello. "Racconti di Fata" parla di magia ed incantesimi. "Autoritratto" è la fotografia di una persona solare e, contemporaneamente, un pezzo che si appoggia sul più noto "Retrato em Branco e Preto", musicato da Tom Jobim. "Intorno a Me" è pensato in sol, esattamente come "Intorno a Noi", inserito in Clessidra. E, infine, "La Villa Bianca", ambientato ad Ostuni e dedicato a una persona cara che non è più tra noi, è composto per soli piano e violoncello.
La situazione live, curata da Bass Culture, così come il lavoro discografico, persegue i concetti di bellezza e di passione. Ma, innanzi tutto, certifica l'estrema sensibilità di un artista versatile, che sa districarsi attraverso stili diversi e impostazioni differenti. Lasciando, sempre e comunque, un'impronta. La propria impronta. Basta ascoltare, per rendersene conto.

Mirko Signorile (pianoforte), Giovanna Buccarella (violoncello), Giorgio Vendola (contrabbasso), Fabio Accardi (batteria) & Cesare Pastanella in "Magnolia". Guest Giovanna Carone (voce).
Bari, Teatro Forma



sabato 7 gennaio 2012

Il piano divertito di Minafra


La Fiamma e il Cristallo e Surprise, in realtà, sono due produzioni che vantano già estati e inverni di collaudo e radicamento, diverse presentazioni ufficiali e varie proposte dal vivo, anche ben oltre i confini nazionali. Ma Livio Minafra, ormai ex enfant prodige della musica creativa di casa nostra (gli anni passano pure per lui), ripropone il proprio repertorio abbastanza spesso, ad intervalli regolari. Come, ad esempio, all'interno dell'ex Convento dei Domenicani di Bitetto, dove la locale amministrazione comunale ha approntato una serie di serate dedicate ad artisti di diversa estrazione stilistica, ma strettamente legati a questo territorio. Peraltro, il ragazzo di Ruvo, figlio d'arte con idee e sufficiente ironia per confezionarsi da solo il proprio cammino, al piano e, soprattutto, sulle note degli spartiti dei suoi due lavori (l'ultimo è datato duemilaotto) si diverte ancora. E anche parecchio. Nè fa molto per per nasconderlo. Surprise prima e La Fiamma e il Cristallo poi sono, del resto, progetti ponderati, ma non ponderosi: leggeri nella forma, seppur sostanziosi nei contenuti. Più che progetti, anzi, uno svago. Meglio, la sua personale stanza dei giochi, il suo contenitore privato di sogni, speranze, certezze e ricordi.
Dentro, c'è di tutto un po'. Quello che scivola dagli anni del conservatorio, quello che schizza dalle esperienze di palco e di vita (la lunga militanza al fianco della Municipale Balcanica, oppure il lavoro di sponda consumato ai fianchi della MinAfric Orchestra del padre, il trombettista Pino Minafra, oppure la golosa partecipazione al progetto comune dei Radiodervish e della Banda di Sannicandro), quello che sgorga nell'incrocio tra istinto e talento. E all'incrocio tra il jazz, le tonalità contemporanee e i ritmi più popolari. Il live, oltre tutto, è scanzonato e vagamente irriverente. Irriverente di una sfacciataggine candida, fedele al personaggio e al carattere di un autore cresciuto in fretta, con la curiosità di inseguire mondi e direzioni differenti, di tracciare diversi orizzonti. Ora con il pianoforte, ora dietro la fisarmonica. Comunque, senza fissare paletti e limiti, a rimorchio dell'improvvisazione. E, appunto, della creatività. Scanzonato, irriverente e, ci ripetiamo, divertito: e non solo per la coreografia (cd sparpagliati per terra, pupazzi, strumenti giocattolo, buste di plastica: tutto materiale che, prima o poi, finirà sulla cordiera del piano, alterando le tonalità, giocando sulle corde e sulle percezioni sonore).
Il concerto scorre con agilità, sfruttando la rodata capacità di comunicazione di questo quasi trentenne estroverso, già insignito nel 2005, 2008 e 2011 delle medaglie dal referendum Top Jazz. Anche lo strumento, un pianoforte del 1956, fa la propria parte. «Giannini non lo ha utilizzato per vent'anni, tenendolo chiuso nel suo magazzino di Bari. E' perfetto, nella sua imperfezione: chi suona, lo definirebbe duro. E lo è, effettivamente: tutto legno, ma è legno vivo. Unico, proprio perchè costretto al silenzio per tanto tempo». "La Danza dello Zefiro", il primo pezzo, possiede atmosfere più fredde. "Cerbiatto", invece, ha più colori. Poi, sorge il caos dei rintocchi senza sincronia di "Campane", l'omaggio ai ragazzi di Atella, un centro di Lucania, "La Pioggerellina di Bogotá", "La Danza del Vulcano" e, infine, la vivacissima "Bulgaria", con cui Minafra si è guadagnato il Top Jazz 2008. «Sono gli stessi brani che eseguo da dieci anni: ma, ogni volta, è un'esecuzione diversa, influenzata dai luoghi, dalle situazioni contingenti, dal concetto di improvvisazione. Non sono completamente scritti: so da dove si comincia, ma non quando si arriva. Provando a metterci di tutto, perchè noi tutti siamo la somma di tante cose. Per la necessità di doverci guardare indietro e, contemporaneamente, di guardare avanti». Conservando molto buon umore. E strappando un sorriso.

Livio Minafra (pianoforte)
Bitetto (BA), Sala Comunale dell'ex Convento dei Domenicani
Stagione Musicale 2012

giovedì 22 dicembre 2011

Un viaggio chiamato musica


Un viaggio chiamato musica. Sinonimo di vita. Che, per vicende squisitamente personali, significa anche e soprattutto speranza. Speranza di un domani intenso: come ognuno di quei giorni incollati all'album dei ricordi. Il viaggio nella seconda vita di Vincenzo Deluci continua. L'avevamo lasciato nella grave delle grotte di Castellana, diciotto mesi fa, con un progetto ardito, in bilico tra atmosfere ed elettronica, tra un paesaggio infernale e i versi della Commedia di Dante. Il trombettista fasanese era il viandante sospeso tra il buio e la luce, tra le tenebre e le promesse di un'altra chance. Ma, adesso, quel progetto si è ampliato: coinvolgendo una voce (quella della locorotondese Raffaella Piccoli, conosciuta negli ambienti teatrali per l'attività di coordinatrice di laboratori di fabulazione e animazione dei burattini) e il contrabbasso di Camillo Pace. Il Trio Viaggio, così, persegue Altre Destinazioni, uno spettacolo itinerante partito a novembre da Bisceglie e in attesa di successive tappe, concepito - come assicura lo stesso Deluci - «dalla necessità di sensibilizzare gli animi a rallentare la frenesia del quotidiano, fatto di disordine, smarrimento e frastuono».
La scelta musicale è un racconto. Un racconto di paesaggi sonori, ovvero un itinerario geografico, musicale e stilistico assieme, un'incursione nelle epoche, nei continenti, negli avvenimenti di un tempo. «Ma anche un prezioso lavoro di ricerca sonora e culturale, dove abbiamo cercato di riscoprire le nostre radici, soprattutto quelle interiori. Ovviamente, la musica è il mezzo: la musica con i suoi differenti generi, i suoi colori, le sue diverse modalità di esecuzione. Che guidano lo spirito verso la comunicare, l'unione, la trasmissione. E che ci permettono, alla fine, di relazionarci».
Il viaggio, attraverso una realtà immaginaria, conduce a universi diversi e futuri. «Lasciandoci lo spazio e il tempo per poter soppesare i valori di sempre, le storie di vita passata, le leggende e le tradizioni della nostra terra. Senza mai accomiatarsi dalla quotidianità, ma con la pretesa di misurarsi con l'epicità di racconti dimenticati, appartenenti ad un tempo in cui la musica, fatta di antiche melodie, cullava l'uomo, rendendo magiche le fiabe». Anche questa volta, la tromba modificata di Vincenzo Deluci si avvale del soccorso dell'elettronica, alla quale il compositore si sta saldamente appassionando. Elettronica, peraltro, per niente lontana dall'evoluzione artistica di Camillo Pace, uno dei primi, in Puglia, ad incidere un lavoro discografico con determinati timbri e certe sonorità. Apporto, questo, essenziale, ma propedeutico ad un itinerario musicale che non conosce barriere e confini, nè scalette: ma libero di improvvisare, tra istinto e passione.

mercoledì 16 novembre 2011

Autobiografico, introspettivo, metaforico Zahir


Un pensiero fisso, che insiste. Che occupa la mente. Un'ossessione. Che luoghi, ricordi ed esperienze vissute alimentano e rafforzano. Un tarlo che si agita nella testa. Che non sembra conoscere uscita. E che fugge solo sotto la spinta della certezza di poter porre rimedio al problema. Traducibile, in arabo, con una sola parola: zahir. Un disco graffiante, che galleggia sulle metafore, nutrendosi di un pianismo contemporaneo macchiato di world music. Undici tracce che disegnano altrettante storie, ordinate su un tragitto geografico immaginario che nasce dove sorge il sole e muore là dove il sole scompare. Un incrocio tra pianoforte e piano preparato, tra umori mediterranei e aria di casa. Con qualche incursione nell'etnica e nell'elettronica. Un'introspezione, quasi un'autobiografia in note. E' lo Zahir di Massimo Carrieri, cioè il secondo lavoro del pianista martinese, prodotto dall'etichetta Effemusic, appena collocato sul mercato discografico. Cioè, l'evoluzione del pensiero musicale di un artista che si scruta, che continua a cercarsi, che prova a decodificare orizzonti e possibilità. Le sue possibilità.
Zahir, intanto, si accoda al primo album, Seven, ormai vecchio di quattro anni. Ma, dalle caratteristiche di Seven, sostanzialmente si allontana. E non solo per le modalità con cui viene costruito. Perchè, se il primo cd è un assemblamento di sette brani (diciamo pure più rigorosi, musicalmente parlando) scritti in tempi diversi, l'opera seconda è un'idea unitaria, completamente partorita in un determinato periodo, durato nove mesi: un momento storico evidentemente anche abbastanza sentito dall'uomo, prima ancora che dall'artista. Zahir, oltre tutto, dispone di tonalità più moderne, più contaminate. Dove l'improvvisazione ruba spazio alle precedenti composizioni, più legate alla scrittura. E dove, anche questa è una novità, s'inseriscono due voci: quella di Imma Giannuzzi, salentina di Lecce, da sempre attirata dalle tonalità terragne della musica popolare (è presente in "Terraross"), e quella di Salah Addin Roberto Re David, gioiese di origine e cultore della cultura sufi (appare nella traccia "Il Silenzio Intorno"). Del resto, il disco si abbandona pure a sonorità proprie di culture differenti e, comunque, ad atmosfere lontane o spirituali.
«Nel disco - rivela l'autore - c’è una traccia, "Il Silenzio Intorno", che si chiude con un adzan, un richiamo islamico alla preghiera. E, nel finale di "Lost in Her Dance", fa il suo ingresso un rito voodoo. Infine, il concept grafico e visivo che accompagna il disco passa attraverso elementi simbolici e metafisici. Poi, il titolo stesso del disco è la sintesi di tutto un processo introspettivo: e potrei continuare così ancora per un pò. Non penso si tratti di pure casualità. Chi vorrà, potrà cogliere una serie di messaggi che esulano dal semplice ascolto di undici composizioni al pianoforte». Al pianoforte, ma - dicevamo - anche al piano preparato. «Il pianoforte - continua Massimo Carrieri - è uno strumento dalle mille risorse. L’uso di questa tecnica non fa altro che ampliare la gamma delle possibilità timbriche che lo strumento offre. A seconda del materiale utilizzato, legno, metallo o plastiche, può assumere dei caratteri che lo avvicinano ad esempio ad uno strumento a corde pizzicate o a percussione. In Zahir questa procedura mi ha aiutato a ricreare gli ambienti, i luoghi in cui raccontare determinate storie. Succede, ad esempio, che in "Lost in Her Dance", una traccia con un’impronta fortemente tribale, in alcune zone il pianoforte sembra imitare l’ostinato di tamburo africano. Ancora, ne "Il Silenzio Intorno" o nella traccia "Zahir", un leggera cordiera in metallo ci riporta in atmosfere tipicamente orientaleggianti».
Zahir, tracce di un corso tutto nuovo. «Sì, è un lavoro che nasce con la volontà di rinnovarsi, di sperimentare, di cercare nuove strade: un atteggiamento doveroso, per evitare di ripetersi. Credo che questo progetto mi abbia condotto in alcune direzioni che continuerò a perseguire in futuro: come l’uso del sound processing, un arricchimento compositivo che apre ad infinite possibilità. Anche se in Seven, il mio primo disco, ci sono comunque degli elementi che, in qualche modo, anticipano quello che poi è andato ad evolversi in Zahir». Ma, anche, il frutto di un lavoro di ricerca. «Il primo lavoro di ricerca è passato innanzi tutto attraverso me stesso. Zahir arriva a quattro anni da Seven, un arco di tempo considerevole in cui sono maturate nuove esperienze di vita e professionali che, penso, mi abbiano fatto crescere sotto diverse angolazioni. Tutto ciò, forse, è avvenuto anche in maniera inconscia, contribuendo ad arricchirmi di nuovi stimoli, nuove idee e soprattutto, nuove cose da raccontare. Tornando più propriamente al disco, in Zahir c’è stata una particolare attenzione sul tipo di suono che doveva venir fuori, un aspetto che non ho trascurato sin dal primo passo: la scelta dello strumento. Sono venuto in contatto con uno Steinway del 1917 che Nicola Farina custodisce gelosamente nel suo negozio di Ostuni. E’ stato amore a prima vista: tra tante proposte, non ho avuto dubbi. Il secondo incontro magico, invece, è stato quello con Tommy Cavalieri, un vero maestro del suono. Il suo contributo è stato determinante per il risultato finale del disco».
Un disco, tra le righe, anche autobiografico. «Basta leggere qualche titolo: "Terraross", "Father", "Under Manhattan Sky". Non è difficile capire certi collegamenti. Chi mi conosce da vicino lo sa: c’è molto di mio. Racconto cose alle quali sono legato e che mi porto dietro, nel bene e nel male. Dentro, c'è l’essenza del mio personale zahir. Ogni traccia racconta una storia che, in qualche modo, è venuta in contatto con me. Ci sono luoghi, persone, stati d’animo, sentimenti. Non riesco a pensare alla mia parte artistica completamente scollegata da quella umana: quello che vivo e che sento in prima persona è la base di partenza sulla quale costruisco tutto il resto».

Zahir (Effemusic, novembre 2011)
Massimo Carrieri (pianoforte, sinth e berimbau). Guest Imma Giannuzzi (voce) e Salah Addin Roberto Re David (voce)

martedì 21 settembre 2010

Giovanni Baglioni e la chitarra differente


Il cognome è un po’ ingombrante. Anche se, molto spesso (o quasi sempre), sui palcoscenici aiuta a carburare e a farsi spazio. Ma non a crescere, ovviamente. Facile pensare, perciò, che Giovanni Baglioni, figlio di Claudio, disponga di un passaporto buono per tutte le frontiere. E per tutte le situazioni. Invece, il ragazzo ha talento indelebile e tecnica finissima: e l’etichetta che si trascina non incide sul suo diritto di residenza nel panorama musicale di questo Paese. Di Claudio, peraltro, Giovanni non lascia ricordare molto, nonostante alcune esperienze dal vivo (le prime) si consumino proprio al fianco del padre. Innanzi tutto, perché non canta: deludendo, magari, quanti non lo conoscono e vanno incontro al concerto cercando assonanze. E poi perché il chitarrista romano ha scelto un percorso arduo, quello delle note di nicchia. Che, però, non gli impedisce di raccogliere, nel corso dei suoi concerti, estimatori fedeli.
Giovanni Baglioni, a volte, è debordante. Perché è uno di quelli che vive con lo strumento. E per lo strumento. Debordante, al limite del leziosismo. Che, piuttosto, chiameremmo studio maniacale della chitarra acustica. Perché maniacale appare, sin dai primi accordi, il lavoro speso sulle corde, negli anni, da questo ventottenne ricercatore di timbriche differenti. Debordante, certo: ma anche rigoroso. Pignolo, pure. E fantasioso: nella composizione e nell’ideazione. Nonché dotato di buone capacità comunicative con la platea: frutto copioso di personalità spiccata e buona padronanza di linguaggio. Che è tanta roba, di questi tempi. E non solo in ambito musicale. Ed è, innanzi tutto, chitarrista un po’ fuori dagli schemi. Probabilmente, perché il fingerpicking (arte di pizzicare la chitarra con le dita: ma la traduzione, presentata così, è riduttiva) non è per tutti.
Indubbiamente, il ragazzo si costruisce lo spettacolo da solo: non ha bisogno di altro, neppure di una loop station, per intenderci. O dell’elettronica. Riempie il silenzio con i suoni marcati della sua Martin, chitarra che diventa anche strumento da percussione. Quando si esibisce, incalza se stesso, non si placa mai. E pure la composizione è sufficientemente sostenibile, da tutti i tipi di orecchie: dettaglio non trascurabile. Idealmente, viene dalla musica di un californiano andato via molto presto, Michael Hedges, che non dimentica mai di citare e riverire. Permettendosi di riproporre almeno tre pezzi del maestro. Le altre composizioni (tra i diversi titoli, “Get Up!”, “Quando Cade una Stella”, “Sirena”, “Toro Seduto Ascendente Leone”, “Bijou”, “L’Insonne”, brano emerso quasi per caso, proprio in una notte difficile) sono produzione propria: la maggior parte delle quali integrano una raccolta di dieci tracce pubblicata già da tempo, Anima Meccanica, che è poi il titolo anche di un singolo, dedicato alle figure dei carillon o degli orologi a figure.
Artista differente, Giovanni Baglioni. Come, orgogliasemente, tiene a ribadire appena può. «Anche perché utilizzo accordature alternative e una maniera di espressione differente. Risvolti particolari che lasciano transitare chi esegue e chi ascolta in un universo non convenzionale». Esattamente l’obiettivo dichiarato del Tour Differente, concluso proprio a Cisternino, l’ultima di dodici tappe consumate in altrettanti borghi storici di tutta Italia. «Il mio obiettivo – spiega ancora Baglioni – non è solo quello di concatenare una serie di note. Le mie composizioni cercano soprattutto di raccontare una storia, pur senza servirsi delle parole. Sono convinto, del resto, che la musica debba trasportare la nostra mente in una dimensione parallela».
La chitarra virtuosa è fonte di energia, sempre. «Una volta, scrivendo un nuovo spartito, “Bloody Finger”, mi accorsi all’improvviso di essermi ferito ad un dito. Le corde della chitarra erano insanguinate. Mi sono sentito felice: era il segno che ero riuscito ad ottenere quello che volevo». Differente, determinato. Ossessionato dallo stile. Ma l’ossessione, talvolta, porta buoni risultati. «Avevo una passione. Meglio, un’ossessione: il cubo di Rubik. Nello stesso periodo, stavo lavorando ad una composizione che non riuscivo a chiudere. Mi sentivo vicino alla soluzione, ma non ci arrivavo. Poi, un giorno, dopo applicazione lunghissima, la risoluzione del caso: un accordo maggiore». Sì: perché, certe volte, basta un semplice accordo.

Giovanni Baglioni (chitarra acustica)
Cisternino (BR), piazza Garibaldi
Tour Differente 2010

giovedì 5 agosto 2010

Kapedani, pianismo balcanico dagli orizzonti vasti


Il mondo è sempre più piccolo, raccolto. E le sue impronte ritmiche sembrano riassumersi e fondersi tra le tastiere di Markelian Kapedani, trentottenne che arriva dalle tradizioni sonore di un’Albania ancora ancestrale e che, ormai, si esprime compiutamente in italiano. Pianista forbito, Kapedani: uno che possiede doti intuitive e compositive. Che miscela tecnica e orizzonti vasti. Che divaga tra spartiti, ad un primo ascolto, impegnati. Eruditi, persino. Ma che, in realtà, attinge ad un ventaglio vasto di proposte dall’animo fortemente popolare. Proposte che rielabora e che ci restituisce con eleganza. Kapedani è uno di quegli artisti che, ultimamente, attirano tanto: anche e soprattutto perché il suo è un pianismo che viene definito contemporaneo. Che entra facilmente nel cuore del pubblico e della critica: e che, quindi, diventa di tendenza. Ma il talento è cristallino. Tutte argomentazioni che non sono sfuggite a Bass Culture, ovvero la mente organizzativa del Locus Festival, la rassegna locorotondese che, solitamente, si diverte a catturare questo genere di situazioni e che, difatti, si è chiusa proprio con il solo dell’artista di Scutari, esibitosi a queste latitudini per la prima volta in assoluto. L’arte di Kapedani, ovvio, è solidamente temprata da ritmi e dinamiche di provenienza balcanica. Lì ci sono le radici, lì sgomita l’ispirazione. Lì nasce il progetto che, poi, si allarga, si completa, si corrompe. Dentro c’è l’Albania da cui non ha saputo separarsi. E dentro ci sono i suoi primi studi musicali, forgiati dal padre Djon Kapedani, scomparso un anno fa, forse l’espressione più autorevole della musica popolare del proprio Paese. E lì ci sono i timbri di una certa scuola musicale, la passione e la conoscenza per certe danze, per certe sonorità. Che sconfinano, peraltro, in Bulgaria, in Grecia. Anche in Egitto. O a Cuba.
La circumnavigazione del globo è agile. Ma l’esibizione dal vivo è sempre molto densa. Markelian ha tocco, ma anche temperamento. Le sue linee espressive si concedono, per alcuni momenti, pure alle illusioni flamenche. Anche se, poi, la strada punta nuovamente sui Balcani e alle sue tradizioni ("Ortensia" è uno standard della sua terra, non può mancare). L’esibizione, tuttavia, va seguita attentamente: del resto, una certa freddezza melodica può renderla vagamente ostica alle orecchie meno allenate. Ma la pulizia d’esecuzione non può lasciare indifferenti. Come non lasciano indifferenti la fluidità pianistica e il lavoro ricerca speso sin qui. La qualità è anche questo. E’ innanzi tutto questo. Quelli del Locus, dunque, possono pubblicizzare tutta la loro soddisfazione: anche per il livello medio del cartellone, indiscutibilmente alto. Come gli altri anni. Anzi, forse di più.


Markelian Kapedani (pianoforte)
Locorotondo (BA), piazza Convertini
Locus Festival 2010

lunedì 21 giugno 2010

La vita nuova di Vincenzo Deluci


Sei anni duri (e inattesi) non si cancellano. Né si dimenticano. Ma il tempo, talvolta, non passa invano. E, se non restituisce tutto, almeno sa alleviare la sofferenza pura, le difficoltà di ogni giorno, il buio di un tunnel. Premiando il coraggio di vivere. Il coraggio di sperare: malgrado tutto. E la voglia di tornare in trincea: con la musica, nella musica. Per la musica. La voglia di esserci. Di sentirsi parte del sistema. O, più semplicemente, parte della quotidianità. Propria e altrui. Quella quotidianità che ha scolpito i giorni migliori. Quando tutto sembrava facile. Quanto tutto procedeva come doveva. Quando la musica, appunto, riempiva le ore. Tutte le ore della settimana. Quando gli spartiti erano causa ed effetto, esigenza e diversivo, passione e professione. Mistero e certezza. Sostentamento e ambizione.
Vincenzo Deluci suonava. Spesso, molto spesso. E bene. Parola di chi lo frequentava. Di chi lo conosceva. Di chi si avvicinava al suo bop duro, alle sue tonalità suggestive. Parola di spettatori attenti, di appassionati del jazz, di colleghi importanti, di critici consacrati. Componeva (anche il primo disco a proprio nome, interamente originale: La Rana dalla Bocca Larga, lavoro leggero e profondo, frizzante e intenso, delicato e itinerante) e suonava: la tromba e il flicorno. Qui e là, per le rotte di Puglia. Affacciandosi sistematicamente oltre il confine regionale. Preparando l’ingresso definitivo nel circuito nazionale: quello spazio che diluisce le agitazioni della sopravvivenza e che avvicina le gratificazioni economiche. Ma non solo quelle economiche. In attesa di un tour, davvero imminente. E di una conferma: la partecipazione, in Spagna e in Germania, a due festival di spessore. Vincenzo suonava. E pianificava: sogni e futuro. Strategie ed alleanze artistiche. Poi, lo schianto: la strada che svaniva, l’auto che volava nel fossato. Tornava da Maglie, dopo un concerto nel jazz club gestito artisticamente da Maurizio Quarta. E cercava di tornare a casa, a Fasano: era la notte del 23 ottobre del 2004.
Vincenzo si risvegliava a Brindisi, nel nosocomio del Perrino. Dopo molti giorni virtuali. Più tardi, si trasferiva in strutture meglio attrezzate. Ma la funzione delle gambe era persa. E anche quella degli arti superiori. Tetraplegico: si dice così. L’impatto con la realtà diventava violento: forse, ancora di più di quello accusato sulla superstrada. La vita cambiava. Radicalmente. E cambiavano le abitudini. Cambiava tutto. La tromba rimaneva lì, in un angolo: eppure, sempre al centro dei pensieri, nella testa. Ma senza una mano che la guidasse. La musica, a quel punto, sembrava lontana: l’ultimo dei problemi. Con una carrozzina comandata elettricamente, le priorità sono altre. Psicologicamente, però, il ragazzo resisteva, reagiva. Anche se, a trent’anni, il mondo sembrava essersi rivoltato contro. Da un momento all’altro. La famiglia, poi, gli rimaneva vicina. E anche gli amici di un tempo. Iniziava, così, la rincorsa alla normalità. La normalità che si chiama poter pranzare, bere, leggere. E studiare, magari. Vivere, ecco. Con il tempo, Vincenzo si adattava alla novità. Pensando in fretta di ricominciare. A comporre, innanzi tutto: sfruttando i progressi della tecnica e i programmi computerizzati. Buoni per rivalutare intuizioni, talento, capacità. E, infine, a suonare. La tromba. In pubblico.
Tutto vero, questa è storia. E’ la storia di Vincenzo Deluci. Ventuno giugno duemiladieci, quasi sei anni dopo: il palcoscenico è quello della Grave delle grotte di Castellana: scenario unico, senza tempo. E Vincenzo è lì, con un guanto e la sua tromba. Che poi è un trombone adattato: la coulisse sostituisce i tasti. Ma è lì: con la sua tecnica e tutta la sua vita. Davanti, c’è il suo mondo. E anche VianDante, Paradiso - Inferno A/R è un progetto suo. Tutto suo. Un progetto di note e parole. Una suite di quaranta minuti e una composizione conclusiva, innervate di emozioni e intervallate da quasi due minuti di applausi. Continui e convinti. Un progetto pregno di certezze, più che di speranze. Perché, in fondo, è di certezza che Vincenzo ha vissuto, sin qui. La certezza di tornare, un giorno, a suonare. Ad esibirsi. Combattendo a suo modo le asperità del destino. Eccolo, Vincenzo De Luci: con le sue idee, il suo sound creativo. E il suo pubblico. I versi fuori campo, invece, sono quelle registrati da Peppe Servillo, portavoce storico degli Avion Travel, artista raffinato ed eclettico. Le pagine, infine, arrivano dalla Divina Commedia dantesca e avvolgono le composizioni di Vincenzo, preparate e mixate con l’apporto dell’elettronica.
Parole e musica procedono assieme, vibranti. Eteree. Tra stalattiti e stalagmiti, sul palco che sembra sospeso al centro della terra, nella migliore location possibile, VianDante è il viaggio di Vincenzo. Verso gli abissi. E, sùbito dopo, verso la luce. Partendo dal canto terzo dell’Inferno, passando per il Purgatorio. Destinazione Paradiso. Tra note prima oscure, viscerali. E, poi, trasparenti, vaporose. VianDante, diretto da Giuliano Di Cesare, confezionato da ZonaEffe, arrichito dal supporto tecnico di Marcello Di Pace e Vincent Lounguemare, realizzato con il patrocinio delle Grotte e dell’amministrazione comunale di Castellana, tocca nell’intimo e lascia qualcosa. Forse, per la storia che galleggia dietro. Forse, per la forza della musica, che rende tutto più semplice. Anche se il braccio che sorregge la tromba è quello sinistro: l’unico che si permette ancora qualche movimento. Anzi, anche per questo particolare, forse. Ma, sicuramente, perché VianDante è la sintesi di un ritorno in superficie, di una battaglia ardita, di una lotta ostinata. E simbolo di risveglio. E perché, in fondo, è una vittoria. La vittoria di Vincenzo. Godiamocela tutti.

Vincenzo Deluci (tromba ed elettronica) in "VianDante Paradiso-Inferno A/R"
voce narrante fuori campo di Peppe Servillo
Castellana Grotte (BA),
Grave delle Grotte

venerdì 3 luglio 2009

Clessidra, il tempo di Mirko Signorile

L’avevamo lasciato a Ruvo, appena l’estate scorsa. E lo ritroviamo tra Polignano e Castellana, in una delle masserie più interessanti (architettonicamente, ma anche sotto il profilo della qualità dei lavori di conversione apportati) di quest’angolo di Terra di Bari. Mirko Signorile è ispirato come sempre. E, come sempre, sente fortemente la sua musica. Come sempre vive intensamente e intimamente il suo concerto, il suo progetto. Perché, tra gli ulivi delle campagne di Casello Cavuzzi, il pianista modugnese non riposa, ma si esibisce. Aprendo il cartellone dell’associazione culturale Mordente, appena generata dalla passione, dalla verve (e dall’ambizione imprenditoriale, oseremmo dire) di Fabio Accardi, batterista di questa Puglia che crede ancora nella musica e che, da Parigi, è tornato definitivamente. Per lavorarci e investire: professionalità e anche un po’ di denaro. Allestendo un gruppo di lavoro giovane, motivato e fresco: con il quale ha cominciato l’avventura. Avventura che, per il momento, si concentra in quattro avvenimenti live (tre alla Masseria del Crocifisso, appunto, e uno sulla Terrazza della Vedetta di Giovinazzo), tutti programmati per il mese di luglio. E che, più tardi, dovrebbe sfociare in altre iniziative musicali. Anche al di là della semplice organizzazione di rassegne.
Ma dicevamo di Mirko Signorile. Che nel vernissage di Mordente ha ripresentato il suo ultimo (e bellissimo: però, di questo, pochi nutrivano dei dubbi) cd, Clessidra: licenziato dalla Emarcy e parzialmente eseguito proprio a Ruvo, qualche mese addietro, ma questa volta pubblicizzato totalmente. E non da solo. Perché Jazz à la Cruz (è il titolo della rassegna) gli ha permesso di affiancargli la formazione che lo sostiene nelle tracce realizzate in studio. Quindi, traducendo, l’inseparabile Giorgio Vendola al contrabbasso, il percussionista coratino Cesare Pastanella e lo stesso Fabio Accardi alla batteria. Tre nomi che, da queste parti, non necessitano di troppe presentazioni e che, in chiusura di concerto, sono stati raggiunti sul palco da un altro amico antico come il sassofonista Gaetano Partipilo, guest per un paio di brani. «Il lavoro – sottilinea Signorile – è un racconto. Il racconto di una storia. La storia del tempo immobile. Oppure del tempo che continua a scorrere. Ed è un lavoro confezionato nel tempo. Diciamo in un arco di dieci anni. E sì, perché, ad esempio, una composizione che fa parte di Clessidra, cioè "Ortigia", nasce proprio allora. Ero ancora giovanissimo e mi ritrovai a Siracusa per il mio primo concerto al di fuori dei confini regionali. Ortigia è quella penisola che costituisce il centro storico del capoluogo siciliano. Ed è un luogo di grande bellezza, al quale ho voluto dedicare qualcosa di mio».
“Ortigia”, e poi “Monadi”, “Un passo Dopo l’Altro”, “Intorno a Noi”, “La Gatta Pensierosa”, “Mondo Notturno” e altre cinque passaggi dell’intera track list: La ricchezza compositiva e l’espressione convincente del mosaico musicale del disco, la versatilità del suo autore, la musicalità degli spartiti e la forza interiore di ogni passaggio riassumono il mondo di Mirko e si traducono in uno dei migliori prodotti discografici partoriti in Puglia negli ultimi anni. Un prodotto che entra ed esce dal jazz, abbracciando semplicemente il concetto di musica contemporanea. Clessidra si fa ascoltare. E, ascoltandolo più volte, cattura e si fa amare. Perché, al di là della tecnica e delle qualità fondamentali del musicista, pulsa il sentimento. E sgomita il rigore musicale elaborato e rielaborato in anni di palcoscenico, tra festival e vita di club. E di studio. Perché, conoscendo Signorile, Clessidra appare, sin da sùbito, non un disco come tanti. Ma il “suo” disco. «L’occasione ideale – aggiunge Fabio Acardi, che di Jazz à la Cruz, oltre che leader dell’organizzazione (è il presidente dell’associazione culturale Mordente) è anche direttore artistico – per cominciare bene questo percorso. Un percorso che prosegue l’undici di luglio con l’intervento della brasiliana Rosa Emília e del suo gruppo, sempre a Casello Cavuzzi, con il live dell’honduregna, ma spagnola di adozione, Eva Cortés (alla Vedetta di Giovinazzo, il 14 luglio, ndi) e con l’omaggio di paola Arnesano a Peggy Lee (ancora alla Masseria del Crocifisso, ma a fine mese, ndi). Ma Mordente, più avanti, vuole allargare i suoi confini. Rafforzare le propria fondamente, ramificarsi. E, perché no, diventare anche etichetta discografica. Le idee ci sono, ci stiamo lavorando». Non ci resta che attendere.

Mirko Signorile (pianoforte), Giorgio Vendola (contrabbasso), Fabio Accardi (batteria) & Cesare Pastanella (percussioni)
Casello Cavuzzi di Polignano a Mare (BA),
Masseria del Crocifisso
Jazz à la Cruz

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martedì 17 marzo 2009

Non solo tango

Il nome della formazione (Tangaria) non inganni. Non c’è solo tango, dietro le note del quartetto di Richard Galliano, il francese di sangue italiano che – già da qualche tempo – si trascina il peso dell’eredità artistica di Astor Piazzolla. O che, se non altro, si lascia inseguire dall’ombra del mito del maestro di Baires: malgrado si schermisca, preferendo rifuggiarsi nella più comoda ansa della modestia. No, non c’è solo tango: certo, il tango appare, allieta e poi svicola veloce. Aprendo spazio, invece, a molta produzione propria, a qualche sprazzo di jazz e anche a una veloce conversione sull’altra faccia del Sudamerica: il Brasile di Asa Branca e di Luís Gonzaga, ad esempio. Tangaria è una formazione che riunisce individualità ed esperienze diverse, convogliate nell’unica direzione dell’eleganza interpretativa e saldamente ancorate allo charme e alle virtù del suo leader. E il tango è solo una della sue anime. Anche se, ad un certo momento, dalla platea del Teatro Orfeo di Taranto, il pubblico chiede (ed ottiene, per qualche secondo: Galliano è un professionista cortese, dentro e fuori dal palco) l’esecuzione della popolarissima Cumparsita, dichiaratamente avulsa dal contesto del repertorio e dalle linee del progetto. Ma tant’è.
Richard Galliano, Sebastian Surel (violino), Philippe Aerts (contrabbasso) e Rafael Mejías (percussioni) , ovvero la line-up su cui punta l’ennesimo appuntamento del cartellone approntato dagli Amici della Musica di Terra Jonica, confezionano un live leggero e sinuoso, rotondo e – non sembri una contraddizione – anche essenziale. Malgrado emergano alcuni inconvenienti (il contrabbasso, talvolta, non segue l’accordeon) e nonostante Galliano non si sforzi per mascherare i disagi impartiti dall’acustica. «Abbiamo viaggiato tanto, negli ultimi giorni. Troppi aerei: e, per chi deve esibirsi su un palco, non è il massimo. Poi, questa di Taranto è stata una serata difficile, proprio dal punto di vista dell’acustica. Del resto, le vibrazioni sono fondamentali, come l’interazione con il pubblico. Ma, alla fine, i problemi si superano ugualmente: conta l’universalità del linguaggio, no? E poi ogni concerto è diverso dall’altro. Per fortuna». Sicuro, maestro. Come è vero che conta la progettualità. «Chiaro. La progettualità deve combinare ed amalgamare i protagonisti. Prendete il nostro caso: il contrabbassista arriva dal jazz, il violinista si poggia su solide basi classiche, il percussionista è un venezuelano naturalmente forgiato dai colori e dagli umori della musica della propria terra. Ogni artista di questa formazione, dunque, ha portato qualcosa di sé: e il risultato è una sonorità che varca il confine degli stili. E, comunque, la vità è una collezione di progetti. E io, noi, di progetti ne abbiamo ancora tanti, davanti.».
Non solo tango, dicevamo. Anzi, molto altro: al di là del tango. Ma il tango è arte ed è anche magia. Galliano, senza accompagnamento, dedica alla gente il brano che non può (e che non deve) mancare. Quello che la gente si aspetta, Libertango. E Libertango significa Piazzolla. Maestro, non possiamo deviare. Ci tocca parlarne. E sappiamo anche che è consapevole di doverne necessariamente parlare. «Io erede di Piazzolla? Queste sono cose da giornalisti. Guardi, Piazzolla è, in realtà, il punto di riferimento per chi, come me e come tanti altri, coltiva la passione per la fisarmonica. Siamo tutti eredi di Piazzolla, questa è la verità. Ovvio, per me Piazzolla è stata la guida. Ed è stato un amico, innanzi tutto. Gli devo molto. E molti gli devono qualcosa». Anche noi, intanto, dobbiamo qualcosa a Richard Galliano: per un’ora e venti minuti di musica impregnata di buone idee e di garbo. E non solo di tango, transitato lieve. Senza scalfire, però, le emozioni. Quelle hanno diritto di cittadinanza, sempre e comunque. Al di là della magia del tango: Piazzolla capirebbe.

Tangaria Quartet (Richard Galliano: accordeon e accordina; Sebastian Surel: violino; Philippe Aerts: contrabbasso; Rafael Mejías: percussioni)
Taranto, Teatro Orfeo
65ma Stagione Concertistica dell’Associazione “Amici della Musica Arcangelo Speranza”

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sabato 31 gennaio 2009

Le note guascone di Antonello Salis

L’esecuzione nervosa, i toni intensi, l’interpretazione fortemente personale, il look assolutamente informale (anzi, scientificamente trasandato), il sound marcato, la bandana irriverente, l’improvvisazione spaziosa, il pianismo ampio e fertile, l’orizzonte aperto, il temperamento istrionico. Antonello Salis è questo. Non da adesso. E questo è il suo modo di essere, di sentire. La musica e la vita. Questo è Antonello Salis e questo è il suo mondo. E questa è anche ogni sua esecuzione dal vivo: un incrocio di note libere e divagazioni colorite. Una mescolanza di provenienze musicali e di ritmi, centrifugati in un repertorio che può apparire caotico. E che, probabilmente, lo è davvero. Che, in realtà, non possiede confini certi: soprattutto perché non li cerca. Ma che trascina ugualmente un certo appeal. Dentro un programma che riserva composizioni erudite e meno ponderose, passaggi arditi, momenti leggeri e guasconerie assortite.
Antonellis Salis è un po’ così: bruscamente genuino, genuinamente estroso. Quando si inchina teatralmente al pubblico e all’omaggio floreale riservatogli dall’associazione Aurora, curatrice della rassegna in cui il concerto viene ospitato, al Teatro Olmi di Latiano. Quando gioca con lo sgabello, trait d’union tra il pianoforte e la fisarmonica: gli strumenti di sempre, tra i quali continua a dividersi. Con devozione assoluta. Quando accompagna uno spartito con i gargarismi. Oppure, quando affida le sonorità della tastiera alle corruzioni artificiali di una busta o di una bottiglia di plastica. E, ovviamente, quando esegue: una suite di mezz’ora (con il pianoforte), un’altra di venticinque minuti (con la fisarmonica) e altri brani di contorno.
Non ama commentare la sua musica, Salis. Parte, si lascia trasportare, viaggia veloce e arriva. Alla fine della serata, poi, dimostra di conoscere anche l’arte dello schermirsi e ringrazia la gente sistemata in platea per la prova di «resistenza umana». Tutto fa spettacolo e l’artista di Villamar lo sa bene. Ma è già forte l’impressione di un’esebizione dall’impatto robusto: e quella basta, da sola. Più delle parole, della gestualità e del pedigrée personale, già consacrato e ultimamente accresciuto con il premio Top Jazz 2008 quale migliore strumentista italiano alle tastiere. Attestazione che, di fatto, niente di più certifica e niente modifica nel tragitto artistico di un autodidatta cha ha saputo veleggiare dal rock alla musica etnica, transitando autorevolmente per l’universo del jazz, pur senza sentirsene mai parte ingrante. In ossequio a quel concetto di infedeltà puntualmente vantato con divertita guasconeria.

Antonello Salis (pianoforte e fisarmonica)
Latiano (BR), Teatro Olmi
I Concerti di Aurora

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giovedì 11 settembre 2008

Mirko Signorile, il pianismo creativo

Mirko Signorile è il pianismo creativo. Il pianismo che è difficile non apprezzare. E non perché possegga un approccio alla musica semplicistico o un’indole commerciale che, in quanto tale, riesca ad accontentare una larghissima fetta di pubblico. No, Signorile sa essere impegnato e fruibile. Ispirato e, al contempo, morbido. Tecnico, ma attraente. Per gli amanti del jazz e per quelli che, propriamente, non lo sono. Forse perché, dal jazz, quel ragazzo dai modi informali, eppure garbati, sa trarre le coordinate che lo aiutano ad espatriare oltre confine: dove può toccare la musica contemporanea o, comunque, definire il suo stile.
Mirko Signorile suona spesso (in trio o in quartetto, allargandosi da una formazione all’altra) e, spesso, compone. E, talvolta, rischia l’esibizione di piano solo. Da dove, sicuramente, esce il meglio di sé. Cioè, il suo taglio, le sue letture, la sua visione musicale. La sua fertilità compositiva, le sue intuizioni. Se vivesse altrove, probabilmente, godrebbe di una popolarità e di una visibilità ancora superiore. In ogni angolo della penisola. E, magari, firmerebbe diverse tournée: che, pure, non gli sono mancate, in passato: come dimostra l’ancora recente trasferta in Giappone, con il suo Synerjazz Trio. Se operasse ad altre latitudini, potrebbe approfittare di un blasone indistruttibile: che meriterebbe ampiamente. Signorile, però, è pugliese. Ed in Puglia, felicemente, suona e crea. E, in questa terra, non sempre il talento viene valorizzato come deve. Al di là della verità che il pianista modugnese una sua collocazione – ben salda e ormai datata – ce l’ha. Così come dispone di un peso specifico unanimemente riconosciuto: in virtù di una lucidità interpretativa acclarata, di una vivacità inossidabile e di una militanza puntuale nelle migliori kermesse musicali di Puglia e dintorni.
Non a caso, Signorile è uno dei protagonisti di Pianoforte Songbook – Pianisti Pugliesi in Concerto, una vera e propria anteprima del Talos Festival di Ruvo, una delle rassegne più antiche, sofferte, avversate e discusse di queste contrade, affidata quest’anno alla direzione artistica di Paolo Lepore, ormai universalmente abbinato alla Jazz Studio Orchestra, di cui cura il coordinamento e la direzione da anni già lunghi, ma personaggio temprato da altre (e numerose) avventure. Talos Festival che, in fondo al periodo di lungo regno di Pino Minafra, ha conosciuto troppe traversie e sopportato anche l’antipatico fermo biologico dello scorso anno. Ritrovando, però, la forza per riemergere con un cartellone che omaggia (e, con la presenza di Lepore, non potrebbe essere altrimenti) le big band, come quella del Parco della Musica di Maurizio Giammarco, la Civica di Milano e la Lydian Sound affidata alla supervisione di Riccardo Brazzale.
Ma dicevamo di Mirko e della sua abilità di reggere senza esitazioni anche le situazioni di solo piano: là dove esprime appieno la propria espressività, giocando sul filo della tensione somatica (diremmo pure fisica, nell’accezione più pura del termine), che è poi uno dei suoi marchi distintivi. Ingobbito sullo strumento, sembra pedinare ogni nota, riuscendo a spremere da ognuna di esse vitalità e sentimento, pienezza e armonia. Il repertorio è una fusione di brani inseriti in The Magic Circle, album confezionato con il Synerjazz Trio, e di composizioni recentissime e ancora inedite. «Sono tornato al Talos Festival – sottolinea lui stesso – dopo quattro anni. Nella prima occasione, presentai il mio primo disco prodotto. Questa volta, invece, propongo il mio prossimo lavoro discografico, in uscita nel prossimo febbraio per la Universal Music». Lavoro dal sapore fortemente contemporaneo che si chiama Clessidra e che assicura composizioni (qualche titolo: “Un Passo Dopo l’Altro”, “La Gatta Pensierosa”, “Mondo Notturno”, “Piccoli Labirinti”, “Clessidra”) lievi e dense, accattivanti. Qua e là, poi, c’è il tempo di tornare a suonare Sting, oppure la colonna sonora di un film diretto da Pietro Marcello, Il passaggio della Linea. Per non dimenticarsi del passato. E per dire tutto quello che il ragazzo si sente di dare. Che è ancora molto, fidatevi.

Mirko Signorile (pianoforte)
Ruvo di Puglia (BA), Chiostro del Convento dei Domenicani
Pianoforte Songbook – Pianisti Pugliesi in Concerto
Anteprima Talos Festival 2008

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domenica 21 ottobre 2007

Dischi - Seven (Massimo Carrieri)

Massimo Carrieri è martinese, ha trentatre anni e qualcosa da dire. E da dare. Con la musica. Con composizioni corpose. Di quelle che lasciano trasparire il lavoro che esiste alla base, nelle fondamenta. E' un autore giovane, ma sufficientemente navigato. Eppure, sgambettato dalla scarsa visibilità: sin qui. Perché assorbito da studi lunghi (di arrangiamento e orchestrazione, con Luís Bacalov), in Italia e anche all'estero (al Berkler College of Music di Boston, per esempio). Perché il ritorno alle origini (la Puglia, appunto) è un avvenimento ancora abbastanza giovane. Perché il pianismo contemporaneo è una zona ancora di frontiera: non è musica classica e non è neppure jazz o altro: e, allora, gli spazi per esprimersi si affievoliscono. Perché la materia è complessa: e poi possiede già i suoi miti, quei nomi e cognomi rampanti che un po' tutti conoscono e cominciano ad amare. E che, magari, prima o poi, apriranno la strada a chi è arrivato dopo, cronologicamente parlando. Massimo Carrieri è un compositore discretamente eclettico. Dentro la sua musica sgomitano impegno e intuizioni. Ma la sua carta d'identità è tuttora sconosciuta ad un pubblico più vasto. Anche a queste latitudini: che, alla fine, sono anche le sue. Malgrado abbia scritto pure per Antonella Ruggero. E nonostante si siano avvicinati alla sua fonte Nico Morelli o Massimiliano Pitocco, uno dei principi del bandoneón in Italia. Perché, forse, mancava un disco a suo nome, chissà. E la pubblicità è il motore del commercio: anche in campo musicale. Quel disco, però, ad ottobre dell'anno duemilasette è infine arrivato. E regolarmente presentato nel decentrato, ma accoglientissimo (e raffinato) Caffè Letterario Altrove di Crispiano: uno di quei posti di un tempo che escono dall'album dei ricordi o da quello delle nostalgie. Le nostalgie di un luogo che non si è mai creduto potesse esistere davvero, in questa Puglia di contraddzioni infinite. Dove la differenza è dentro l'atmosfera, nei soffitti affrescati o sul pavimento di quelle case di una volta. E parentesi chiusa. Il disco è "Seven", cioè "Sette", praticamente autoprodotto, partorito e gestito con calma e con cura, nel tempo. "Sette", perché sette sono le tracce - tutte ben strutturate - che lo assemblano. «Sette anche perché - confida l'autore - quello è il numero che mi accompagna da sempre in tutte le date importanti. E anche perché il lavoro è stato ultimato nel 2007: proprio quando, alla settima composizione, mi sono accorto di dover confezionare il prodotto. Di più: sette tracce con sette quadri distinti e, quindi, sette significati differenti». Album intimista e, sicuramente, anche molto intimo, "Seven" affonda le radici nella classica contemporanea e nasconde una storia suggestiva: «Esatto: è stato interamente registrato all'interno dell'Istituto di Meditazione e Preghiera "Le Sorgenti", tra Lecce e Novoli. Per scelta, la mia. Un giorno ci passai davanti e mi affascinò l'archiettura da castello medievale. Poi, è passato del tempo. Successivamente, a spartiti completati, volevo evitare la freddezza di uno studio di registrazione e la routine dei tecnici. Mi ricordai di quel luogo: ci sono rimasto cinque giorni, da solo. C'ero io e la strumentazione appositamente trasportata sin lì per autoregistrarmi: bastava premere un pulsante e suonare». Massimo Carrieri esegue quello che scrive, senza abbandonarsi all'improvvisazione. Che non fa parte, almeno per adesso, dei suoi progetti. Proprio perché il progetto è scrivere. «E, in effetti, scrivo da tempo. Sono arrivato alla registrazione tardi. Ma gran parte dei brani sono stati ideati nel periodo in cui studiavo e vivevo lontano da Martina, dove sono tornato due anni fa. "Romance", per esempio, è una composizione del 2000. Solo "Alba a Leuca" è abbastanza recente». E neppure il jazz rientra ancora nel progetto. «Anche se - continua - l'interesse con il jazz bianco, peraltro scoccato non più tardi due anni addietro, abbia contribuito a formarmi. Quelle note, non lo nego, mi attirano: ma non sono un jazzista. Scrivere jazz è un'altra cosa, occorrono altre logiche per farlo». E, scavando, neppure il mercato discografico è una priorità: «Assolutamente. "Seven" non nasce con pretese commerciali, ma per il desiderio di comunicare». Chapeau, maestro Carrieri. Il disco merita il successo. Se non altro, per le parole spese. Quelle che non tutti osano spendere. Perché il mercato pretende personaggi, prima di tutto. Abili ad autopromuoversi, soprattutto. Perché, oggi, apparire è sempre più conveniente di essere. E la regola non scritta recluta regolarmente soldati sempre più numerosi. Ma noi, in fondo, siamo inguaribili romantici: e attendiamo ancora fiduciosi il momento in cui l'apparenza mostrerà l'inganno.

Seven (autoprodotto, 2007)
Massimo Carrieri (pianoforte)

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mercoledì 15 agosto 2007

Istrionicamente Bollani

C'è folla. Troppa folla. La piazza implode. Di gente. Ma insieme si sta bene ugualmente. Certo, quella piazza è piccola. E l'ospite - l'ultimo ospite del Locus Festival 2007 - è prezioso: meglio ancora, concettualmente gradito ad una larga fetta di pubblico. Non solo: Stefano Bollani è, ormai, un pianista di culto. Dalle sfumature popolari. Di più: da Locorotondo si ritrova persino a transitare spesso. Lasciando estimatori nuovi e anche amici, ogni volta che ripassa. Il concerto, poi, comincia prima di quanto ci si possa aspettare. Difficile che accada: eppure, è così. Perchè non c'è quasi più nessuno da accogliere. Sono tutti lì, già da diversi quarti d'ora. Senza contare che la sera della vigilia di Ferragosto, oltre tutto, è un incentivo aggiunto: a essere presenti, a monitorare il territorio. E si parte. Confortati dalla certezza di incontrare il Bollani di sempre: ironico, istrionico, verboso, comunicativo, fedele al personaggio che si è ritagliato dopo i primi vagiti di un successo che ha cominciato a manifestarsi meno di dieci anni addietro, sotto le note del jazz. Jazz che, lentamente, è scivolato verso composizioni che abbiamo imparato a definire contemporanee: e che, cioè, attingono da ogni ambito musicale, e che vengono triturate, digerite e confezionate per una platea eterogenea. Attitudine, questa, che - con il tempo - ha sconfinato in altri panorami: ad esempio, quello bibliografico, raggiunto con un titolo recente, "La Sindrome di Brontolo". Bollani, dunque, trascina ancora la propria simpatia con istinto giullaresco, però mai volgare. Che è poi la sua forza e il suo segreto, commercialmente parlando. Integrando tutto con il suo pianismo sciolto, immediato, gravido di divagazioni dotte, ma anche divertenti. Affrontate con il sorriso, ma anche con una tecnica di base che - tuttavia - non lo costringe, non lo limita, non lo imprigiona. Che, anzi, lo rende universale, ancorchè facilmente fruibile. Il musicista milanese ammicca a situazioni sonore agili, ricche e pastose, ma somministrando puntualmente spunti di spessore, che si agitano senza pesare, senza bussare. E che scivolano, quasi senza farsene accorgere. Come certi virtuosismi, che producono folklore e, contemporaneamnete, infondono sostanza al repertorio. Ecco, il repertorio: si passa da "Il Domatore di Pulci", brano originale, a "Tristeza" di Haroldo Lobo, un autore legato al fortunato movimento della bossa nova, dagli standard americani a "Che Cosa Sono le Nuvole", un poema di Pasolini musicato da Domenico Modugno, dalla battistiana "Mi Ritorni in Mente" a "Samba da Benção" di un altro brasiliano, Vinícius de Moraes, da "Per Elisa" di Beethoven (ma l'interpretazione, in realtà, è uno scherzo riuscito, una riproduzione credibilissima di una registrazione su vinile alterata dal tempo) ad "Antonia", composizione di Antonio Zambrini. Un repertorio, peraltro, tradizionalmente chiuso da una dissacrante madley di brani a richiesta, intrecciati sul momento e di vastissima provenienza musicale: che è, del resto, un'attesissima appendice del programma. Valorizzato, per l'occasione, dalla presenza fugace, sul palco, di un guest con cui duettare, il sassofonista Francesco Bearzatti, friulano assorbito dalle vacanze ostunesi, già tra i protagonisti della manifestazione, al fianco di Gianluca Petrella, non troppi giorni prima. Classico e meno classico, quasi sacro e quasi profano: è tutto commestibile, è tutto lecito. E lo spettatore non rimane insensibile. Il buon umore, infine, fa il resto: trasformandosi in un certo carisma che lascia la maggior parte della moltitudine in rispettoso (e, di questi tempi, anacronistico e, perciò, pregiatissimo) silenzio. E raggiungendo il cuore della gente, senza mostrare fatica. Bollani è questo. E per questo ritornerà (lo fa, del resto, ciclicamente) in Puglia. Riempiendo automaticamente la piazza o il teatro. Degli affezionati che crescono, ma anche del suo talento, del suo fervore, del suo istinto picaresco. Che, poi, è il sigillo finale di una rassegna, il Locus Festival, tra le più convincenti dell'intera stagione estiva pugliese. Per nomi, cognomi e, talvolta, anche progetti. Malgrado qualcuno abbia già dissentito sul concetto: lo sappiamo per certo. E, allora, questa volta non ci resta che dissentire al dissenso. Scusateci, può capitare.

Stefano Bollani (voce e pianoforte). Guest Francesco Bearzatti (sassofono)
Locorotondo (BA), Piazza Convertini
Locus Festival '07

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giovedì 12 aprile 2007

Affabulatore di successo

Giovanni Allevi si arrampica agile. Ma non è più, ormai, solo un semplice emergente ancora esposto alle intemperie del mestiere e all’ineluttabilità degli eventi. Anzi, è da tempo un artista di prestigio ben consolidato. Tournée dopo tournée. Meglio ancora, il pianista ascolano sembra felicemente percorso dal brivido sottile del successo, diciamo pure quasi unanimemente riconosciuto. Successo che, certo, potrà aggradare o meno: solitamente, i detrattori non mancano, dovunque. E neppure i critici, che gli rimproverano di aver fiutato un percorso più comodo e meglio redditizio e di cavalcarlo, accontentandosi e rinunciando ad una composizione più cerebrale: che, detto per inciso, la sua enorme tecnica musicale consentirebbe tranquillamente. E di non cercare soluzioni nuove, autoconfinandosi al già ascoltato e già prodotto. Cioè all’usato banalmente sicuro. E, soprattutto, nonostante la buona conoscenza dello strumento, di non cedere alle tentazioni dell’improvvisazione: che rendono il musicista più completo. Per definizione. Eppure, ad ogni modo, di lui - da un po’- si parla molto. E sempre più spesso. Merito di una certa creatività di base, che gli va comunque (e innanzi tutto) riconosciuta. E che ha persino avvicinato il suo cognome all’opera dei maestri di un tempo: Mozart, Chopin e Liszt (è vero, non inventiamo niente, riportiamo giudizi già emessi). E merito pure della capacità di rendere la propria musica fruibile al grande pubblico, al quale interpone colloqui confidenziali e vincoli di simpatia un po’ costruita. O dell’abilità di non prendersi troppo sul serio, davanti alla platea. E, magari, merito anche di una buona struttura (la comunicazione, cioè) che lo sorregge e lo promuove con efficacia. Oppure di un look moderno (felpa, jeans e scarpe da tennis) che seduce la meglio gioventù e fa vendere. E, perché no, di una composizione fortunata (“Come Sei Veramente”, del penultimo album, «No Concept», diventata la colonna sonora di uno spot BMW) che lo ha pubblicizzato oltre ogni previsione. E, infine, della sua quarta fatica discografica («Joy», 2006, cinquantamila copie vendute), che il ragazzo – un trentottenne ispirato e attento ai dettagli della commercializzazione del prodotto, discreto affabulatore, ironico e anche un po’ ruffiano – sta continuando a presentare, in Italia e anche oltre (New York, Tokio). Scendendo, perciò, anche in Salento, ed esibendosi in un caloroso Teatro Politeama Greco (sold out, per la cronaca). Dopo essere passato, recentemente, anche da Taranto e, il giorno prima, a Barletta. Giovanni Allevi, intanto, possiede un solido presente. Ritagliato da uno stile rilassato e sempre godibile: che va benissimo a chi, da un disco o un concerto, non pretende niente di più che passare ottimamente il proprio tempo. E guarda fiducioso al futuro: l’imminente condivisione artistica con la Berliner Orchestra lo conferma. Scommettendo sulla sua musica, che tuttavia non è propriamente classica e non è sicuramente jazzistica. E che non vanta radici popolari. Ma che lascia incontrare sonorità classiche e pop: dalla cui miscela sorge un sound elegante e misurato, sempre dolce, ma perfettamente assimilabile da questi tempi difficili e sempre più difficilmente etichettabili. Soprattutto in ambito artistico. «Joy», interamente proposto a Lecce, è una sintesi del suo mondo, tra il serio e il gioviale. Un mondo che pesca in tutte le direzioni, senza albergarvi: «Ho sempre chiesto alla musica di portarmi in un luogo incantato». L’ultimo cd realizzato, arrivato in coda a «Dita» (1997), «Compilation» (2003) e al già citato «No Concept» (2005), non tradisce l’impostazione alla quale il talento marchigiano, “Premio Recanati” 2005, sembra coscientemente accartocciato. Impostazione da cui, è una sensazione, non intende facilmente derogare. E solo “Jazzmatic” («Un pezzo che non ha niente di jazz, perché non c’è imporovvisazione») accellera il ritmo di un concerto che percorre felice il suo binario, senza distrasi. E che poi finisce con il tributare la sezione dedicata ai bis a due brani meno recenti, estratti dal penultimo disco. Dimenticando tutto il lavoro precedente. Ma «Joy» è il presente dorato. Ed è quello che la gente chiede, alla fine. «Un dico nato così – confessa Allevi - : tornando dalla Cina, ho sofferto un attacco di panico, è intervenuta l’ambulanza e mi sono trovato al Policlinico. Lì ho giurato: se fossi uscito da quel posto, avrei suonato con gioia di vivere. E’ venuta a trovarmi, allora, una melodia dolcissima, chè è divenuta il primo brano dell’album: “Panic”, appunto. Attorno al quale, poi, è nato il resto del lavoro». Non sappiamo, però, quanta verità esista e quanta letteratura navighi dentro la storia. Ma sappiamo di un pianista dotato, di un affabulatore che decodifica il mondo, che sa guadarlo. E che, in questo tempo periglioso, si muove con agio e scaltrezza. Complimenti sinceri.

Giovanni Allevi (pianoforte)

Lecce, Teatro Politeama Greco

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venerdì 10 dicembre 2004

Einaudi, talento raffinato

Ludovico Einaudi è un talento raffinato. Quasi erudito: anche se non lo fa pesare. La sua impostazione è classica: ma la sua musica è fluida, restia alle etichette. Che sembra piacere anche e soprattutto ai più giovani: quelli che, ad esempio, affollavano la platea del Teatro Kismet OperA, a Bari. E che hanno potuto salutare la recentissima uscita del suo ultimo disco, «Una Mattina» (Decca/Universal), già presentato in diversi punti della penisola. Lo stesso lavoro che, proprio a gennaio, il pianista – cinquant’anni, diplomato al Verdi di Milano - farà conoscere al pubblico di Taranto (Teatro Orfeo), dopo essere passato anche per Milano, Roma, Mestre, Palermo e Bologna.
L’artista e il suo piano. E, intorno, atmosfera. L’idea (e la forza) del live è questa. Un’atmosfera di classe, ma colorata di brio. Niente affatto statica, nè ingessata. Fluttuante tra le note assorbite negli studi di un tempo e le sonorità captate nel lungo viaggio intrapreso sin dagli anni ottanta verso conoscenze nuove. Che, peraltro, hanno condotto il musicista verso il cinema e il teatro, per cui ha già composto. L’artista, i suoi silenzi e le sue pause, che temperano i suoi concerti, lievitando lo spessore del suo stile personalissimo.
L’artista e la sua musica accattivante, densa: che sa, però, scoprirsi persino lieve. Come l’ora e mezza che riesce a riempire, passando per "Leo", brano dedicato al figlio, oppure "Dna", "Fuoco" e "Resta per Me". Brani, questi, che – almeno all’Orfeo – si gioveranno di un pizzico di fascino in più: nella tappa tarantina, infatti, Einaudi si farà accompagnare da Marco Decimo, violoncellista di lunga navigazione cameristica, sempre più spesso al fianco del pianista torinese. La musica colta e le note popolari si incontrano, integrandosi: l’opportunità è interessante. E, chi può, ne approfitti.

Ludovico Einaudi (pianoforte)
Bari, Teatro Kismet OperA

(pubblicato dal mensile "Pigreco")