domenica 27 luglio 2003

Salento, finestra sul Brasile

Negroamaro è una finestra sul mondo. Negroamaro è già un`etichetta di prestigio. La world music d`autore penetra nel Salento, impossessandosi di palazzi, piazze e masserie storiche. Negroamaro è una rassegna di qualità, sulla soglia della popolarità, studiata e germogliata per essere apprezzata, più che per riempire i vuoti dell`estate. Negroamaro entra nel cuore del Brasile. E i tre concerti accartocciati attorno ad un unico filo conduttore proiettano la rassegna più frizzante del panorama musicale pugliese nel circuito dei live di assoluto prestigio. Time Zones coordina e propone: la firma è un certificato di garanzia. Si intuisce, si sente. Cominciano Maria Bethânia e Gilberto Gil, nel cortile di Palazzo dei Celestini, la casa dell`Amministrazione provinciale di Lecce che organizza la rassegna. Ritmo e riflessione, buon gusto e provocazione: il concerto è persino sobrio, ma non ingessato. Gil è un menestrello prestato alla politica e al governo di Lula, di cui è Ministro della Cultura. Niente giacca e niente cravatta: l`abbigliamento è quello di sempre, fortemente casual. I capelli intrecciati sono più lunghi del solito. Sessantun anni, senza sentirli: Gilberto entra ed esce dal reggae, deborda nella bossa nova, naufraga nel tropicalismo. Colpisce dritto ai sentimenti, si affida ad un repertorio sicuro, datato ("Requiem", "Os Mais Doces Bárbaros", ad esempio), parla di intolleranza religiosa, omaggia l`immortale Dorival Caymmi. Maria Bethânia è voce carismatica e forte, è sorriso contagioso. Pretende un suo spazio e lo occupa, a piedi nudi. Entra ed esce dalla scena, dosandosi, sovrapponendosi ed alternandosi a Gil. L`approccio comune è un tributo a Milton Nascimento ("Fé Cega, Faca Amolada"), poi arriva "Filhos de Gandhi", quindi l`intensa "O Indio". "Sem Fantasia" (di Chico Buarque de Hollanda) è, più tardi, un`interpretazione vibrante, suggestiva: le voci si incrociano, Gil si inginocchia in rigoroso rispetto. Il pubblico accompagna e, talvolta, preme. Dimenticando i disguidi delle ore che precedono l`appuntamento, la fila al botteghino e le ridotte dimensioni del cortile che non può accogliere tutto il mondo che pulsa dietro al portone del palazzo. La seconda tappa del segmento si sposta (anzi, devia a programma già pubblicato) in Piazza Duomo, dove Lecce svela i segreti migliori. Il palcoscenico ospita due protagonisti: Caetano Veloso e la sua chitarra. Caetano non è più l`artista sondato dalla fetta più alternativa del popolo musicale. Caetano, adesso, è una realtà ramificata e digerita dalla grande folla. Che segue e recita ogni brano, ricalcandone il portoghese. La piazza è gremita, la gente decodifica e canta, sostituendosi all`autore (è il caso di "Terra" che, a proposito, Teresa De Sio sta lanciando nella versione italiana). La scaletta introspeziona il passato ("Os Passistas", "Branquinha", "Minha Voz Minha Vida", "Lua Lua Lua", "Meu Coração Vagabundo", "Genipapo Absoluto", "Você é Linda", "Sampa", "O Estrangeiro", "O Leãozinho"), accarezza il suo sogno cinematografico ("Michelangelo Antonioni" è un brano espressamente pensato e scritto in italiano), cede ad un classico americano ("Stardust"), si avvicina all`immortalità delle note di "Volare", ripercorre il viaggio rischiato con Pedro Almodóvar ("Cucurucucu Paloma") e riapproda in Brasile ("Desde que o Samba è Samba"). Caetano è la voce modulata di sempre, è sonorità lieve e intensa, slanci e compostezza, ricami e concretezza, timidezza e sfrontatezza. Il Brasile di Negroamaro 2003, poi, emigra in provincia. Il terzo appuntamento coinvolge Cannole, a metà strada tra Maglie e Otranto: l`effervescente e verboso Chico César si affaccia alla Masseria Torcito, fortificata e ristrutturata, un angolo di storia tra i campi che annunciano la Grecìa. Il paraibano movimenta l`atmosfera quasi distratta di un pubblico ristretto: l`ultima tappa oroverde della manifestazione (che continua anche nel mese di agosto, attirando iniziative collaterali) è quella meno attesa e anche quella meno visitata, ma diventa presto la più spontanea. La gente colma il vuoto tra il palco e la prima fila destinata alle autorità, fatalmente assenti: il suo invito alla partecipazione popolare è accolto con simpatia. Gli addetti alla sicurezza, spiazzati, cedono lo spazio («Voi fate il vostro mestiere, io il mio: il pubblico resta qui»). Chico César è un nordestino tuttora legato alla cultura profondamente rurale della propria terra: e allora il frevo e il côco incrociano la strada di sonorità più contemporanee. L`innovazione innerva il folclore, o viceversa. «Non sono il Brasile consacrato, sono il Brasile alternativo»: il concetto scaccia gli avanzi di un dubbio. Il personaggio è trasparente, comunicativo. "Respeitem Meus Cabelos, Brancos" ("Rispetta i Miei Capelli, Uomo Bianco", brano inciso recentemente in compagnia di Chico Buarque) è l`ironia che precede "Mama Africa" e, più tardi, un tributo rigorosamente strumentale al jazz, un assaggio di reggae e un appello a favore dell`azzeramento del debito estero dei Paesi più poveri. Perchè la musica popolare, in Brasile, sa ancora navigare nel mare dell`impegno sociale.

Maria Bethánia e Gilberto Gil
Lecce, Atrio del Palazzo dei Celestini

Caetanno Veloso
Lecce, Piazza Duomo

Chico César
Cannole (LE), Masseria Torcito

Salento Negroamaro Festival 2003

(pubblicato dal sito www.musibrasil.net)

venerdì 25 luglio 2003

La nipote sensuale del poeta

Mariana è profondamente carioca. Nell'accento, nei gesti, nella sensualità. Mariana è voce da bossa. Mariana è minuta, gracile, mora ed espressiva. Mariana ricorda Gal Costa, ma di Gal non trascina né gli eccessi, né i barocchismi vocali. Però di Gal ne rievoca il timbro: non possente, ma languido. Mariana schizza dalla bossa nova, riattualizzandola. E riconsegnandola ad un panorama musicale che, è più di un'impressione, la sta soffocando e perdendo. Mariana è anche talento: va ascoltata con attenzione. Magari in un teatro, nell'intimità del silenzio. O in un club ovattato. Mariana è la nipote di Vinícius De Moraes, il poeta diplomatico. Ed è la figlia di Pedro ("Pedro, Meu Filho" è un poema commercializzato anche sul vinile da Vininha). Mariana, soprattutto, è un' interprete vera. Orgogliosa di un cognome ingombrante, ma sganciata dalla sua schiavitù. Mariana non è solo la nipote dello zio: è pure -innanzi tutto- un'artista con dignità e fascino propri. Quel cognome non la sospinge e non la comprime: Mariana cammina da sola tra le note e tra due compagni di viaggio, il chitarrista Sérgio Farias e il percussionista Silvano Michelino, di solare origine italiana. Mariana De Moraes attraversa l'estate italiana più brasiliana di sempre, guadagnandosi una nicchia tra Gil e Caetano, Bethânia e Chico César, Toquinho e João Gilberto. E scende in Puglia, nella notte giovane del Torre Regina Giovanna, antica stazione di posta immersa nelle campagne tra Brindisi e San Vito dei Normanni. Come Bethânia, si esibisce scalza, sotto una quercia. Meriterebbe un pubblico meno sfuggente, Mariana. Ma il luogo è un crocevia di incontri: si beve, si discute, si passeggia. L'atmosfera da discopub non gratifica, non solletica. Più in là, la pista si riempie e si balla con altre note. Il bar, poco distante, diffonde sonorità prediscotecali. Eppure, Mariana continua a sussurrare il suo Brasile. Al pubblico Mariana parla di samba, ma il prodotto è bossa certificata. Lo conferma una versione di "Você e Eu", di Carlos Lyra. Lo attestano due brani firmati da Vinícius per la pièce «Orfeu Negro». Lo asserisce un inciso mutuato dall'inossidabile "Manhã de Carnaval" di Luiz Bonfá. Lo spiegano gli spartiti che il De Moraes Trio propone, tra cui Juazeiro. Un'ora, però, passa spedita. Lasciando una sensazione piacevole: la sensazione di qualcosa che sembrava circoscritto alle evoluzioni degli autori del passato e che, invece, continua a soffiare, con garbo. Una sensazione, forse, respirata da pochi anacronisti: gli ascoltatori più attenti.

Maria De Moraes (voce), Sérgio Farias (chitarra) e Silvano Michelino (percussioni)

Apani di Brindisi, Torre Regina Giovanna

(pubblicato dal sito www.musibrasil.net)

giovedì 10 aprile 2003

Tom, quel fascino immortale

Lecce, ultimo chilometro. Il viaggio europeo del Quarteto Jobim Morelembaum sfuma nel Salento, sotto l’etichetta di Jazle 2003, affermato contenitore di jazz e aromi latini miscelati nella cornice intima del Teatro “Paisiello”. L’ultima pièce è raffinata e discreta come l’approccio al palcoscenico e il fascino di Tom Jobim: si snoda lieve, composta. Quasi non volesse disturbare. E il fascino di Tom trasuda prepotente: da note e spartiti di settantacinque minuti asciutti, da un tributo che lo accompagna e che lo fotografa accanto ai suoi successi, dal timbro vocale di Paulo e Daniel. Di Tom, Paulo è il figlio chitarrista, semplice e pulito, dosato tra voce e chitarra. Daniel, invece, di Tom è il nipote pianista, puntuale e coraggioso: perché accettare il rischio di un confronto è già una sfida ingrata. Eppure, sia chiaro, l’onore familiare rimane intatto: sul palco sgorga bossa pura, fedele alla linea, dichiaratamente rispettosa dell’impronta. Addirittura dogmatica: senza eccezioni pericolose, senza evoluzioni azzardate. Di più, senza arrangiamenti eccessivi. Cioè, bossa genuina: quella già ascoltata direttamente dal vinile. Sì, Tom avrebbe gradito.
Il Quarteto Jobim Morelembaum, in realtà, è una formazione a cinque punte. C’è Paula Morelembau, la voce ufficiale di un progetto partito nel 1995, e c’è soprattutto Jacques Morelembaum, un microcosmo a parte. Ma c’è pure Feijão, batterista senza orpelli, appositamente reclutato per la tournée italiana. Si parte con “Wave”, un classico: Jacques si rivela sùbito quel qualcosa in più. Naturale, vellutato, unico solista autorizzato ad escursioni peraltro mai invadenti. Il suo violoncello, spesso, si trasforma in basso: con profitto immutato. Paula compare in seconda battuta: ecco “Ela E’ Carioca” e poi “Outra Vez”. L’impressione, magari, è che viaggi con una velocità d’esecuzione diversa da quella del resto del gruppo, ma più tardi sembra adeguarsi. Anche se l’impressione, talvolta, torna ad insinuarsi. Nessuno è protagonista assoluto e ciascuno completa i compagni di palco, senza scavalcarli. Segno chiarissimo di un affiatamento totale, di uno spettacolo rodato, ma anche essenziale. Che spazia verso brani meno sfruttati per poi concedersi una parentesi. Anzi, due.
Il tributo dentro il tributo è costruito espressivamente per Dorival Caymmi (“Saudade da Bahia”, “Marina Morena”, “Samba da Minha Terra”) e, sùbito dopo, per Baden Powell e Vinícius de Moraes (“Berimbau”). Quindi, ancora Tom Jobim: “Agua de Beber”, “Desafinado”, “Aguas de Março”. La colonna sonora del bis, infine, è scontata: “Chega de Saudade”, “Garota de Ipanema”, “Samba do Avião”. «L’Italia è calorosa, sembra il Brasile»: Paulo Jobim mastica poche frasi, in bilico tra due lingue. Ma l’ultima tappa del viaggio, velocemente, sta evaporando. Dispensando, però, il profumo intenso delle note di un tempo che indugia. «La bossa nova è ancora dentro la testa della gente e non può più uscirne. Anche se il mondo cambia». Paulo, figlio di Tom, custodisce una certezza.

Quarteto Jobim Morelembaum (Paulo Jobim: voce e chitarra; Daniel Jobim: voce e pianoforte; Jacques Morelembaum: violoncello; Paula Morelembaum: voce; Feijão: batteria)
Lecce, Teatro Paisiello
Jazle 2003