sabato 26 gennaio 2013

Curve nella memoria

Quando il gusto del racconto si confonde con il canto e le note della tradizione e qualche piccola scoperta lacera la patina di banalità che ci ingabbia o, peggio ancora, scalfisce le ipocrisie del nostro tempo, significa che abbiamo ancora ottimi maestri da ascoltare. E Moni Ovadia è uno di questi. E poi il suo mondo, in bilico tra storia e culture differenti, nella complessità che lo caratterizza, diventa persino di facile approccio, di agevole lettura. Per tutti: o tranne, forse, per chi si industria nel non intendere. Perchè arrampicarsi sullo specchio dell'intolleranza e dell'opportunismo è una delle discipline più praticate del secondo e del terzo millennio.
Sangue turco, discendenza ebraica, bulgaro all'anagrafe, residenza italiana: Ovadia, del resto, ne può raccontare parecchie. Fluttuando tra la storia e le storie, tra i culti e la cultura della memoria. Ripercorrendo trasversalmente gli ultimi ottant'anni di quotidianità. Presentandosi sul palco del Teatro il Saltimbanco di Santeramo, praticamente in coincidenza con la Giornata della Memoria, nella prima delle quattro serate inserite nel circuito griffato Teatro Pubblico Pugliese (il tour passa da Mesagne, Martina e si esaurisce a Gioia del Colle). E viaggiando, come sempre fa, attraverso le vicende che, nel tempo, hanno saputo involvere i processi di aggregazione (e, spesso, anche di pace) tra i popoli.
E di gente, infatti, Ovadia parla. Con l'ironia di sempre, ma anche con la forza della logica negata. «Quello degli ebrei della diaspora, degli yiddish, e quello dei sinti o dei rom sono popoli d'Europa in tutto e per tutto. Con la propria identità, la propria lingua, le proprie tradizioni, la propria letteratura. Ma senza territorio e frontiere, senza polizia e democrazia. Due popoli insultati, calunniati, segregati e, talvolta, massacrati. Che hanno vissuto in prima persona l'altrui progetto del proprio annientamento. Popoli che ci hanno lasciato musica, racconti e riflessioni. E dal destino comune, almeno per duemila anni. Perchè, sùbito dopo la Seconda Guerra Mondiale, qualcosa è cambiato, sepur lentamente: gli ebrei sono entrati nel salotto buono, quello dei vincitori, proprio mentre nasceva lo stato ebraico. I rom, invece, sono rimasti fuori dal contesto».
Dalle parole dello scrittore austriaco Joseph Roth alle danze che hanno influenzato la musica del novecento il passo è breve. E il quintetto che accompagna Ovadia (due clarinettisti italiani, il napoletano Ennio D'Alessandro e il romano Paolo Rocca, e tre rom) imbastisce la sua trama, dettata dall'agilità del cymbalon di Marian Serban, dalle tre corde percussive del contrabbasso di Marin Tanasache e dal dinamismo sonoro della fisarmonica di Albert Florian Mihai. «Quella zingara è una cultura al di fuori della routine. I rom festeggiano la vita, proprio mentre gli occidentali la rincorrono, schiavi della loro quotidianità e persino delle parole. Essere rom è avere il senso primario della vita. Molti di noi lo ignorano, nella miopia dell'universo che ci circonda, ma i sinthi si sono espressi egregiamente in ogni ambito. La loro musica, ad esempio, ha influenzato Brahms. Le danze ungheresi, che poi sono danze rom, nascono così. Ma anche il jazz: Django Reinhardt ha creato il gipsy. E la stessa musica popolare russa ha attinto da loro. E, se vogliamo parlare di musica leggera, ricordo un pezzo reso popolare dalla francese Mirelle Mathieu, ma di estrazione zingara».
Dalla Russia alla Francia, per sbarcare infine in Grecia: Moni Ovadia si avventura anche nel sirtaki. «Il meticciato produce grandi emozioni musicali. E la canzone popolare greca sa celebrare il buon bere, in pieno stile zingaresco. Del resto, qualcuno diceva: "Polvere eri e polvere ritornerai. Ma, tra una polvere e un'altra, una buona bottiglia non può fare male" ». Senza dribblare i drammi dell'ipocrisia («Guardiamo solo alcuni aspetti, abituandoci ai concetti della consuetudine. Oppure a quello che ci è comodo guardare»). Il viaggio tra la musica e i pensieri completa la seconda ora, il quintetto scende in platea e invade il foyer, regalando altri quindici minuti di note. La Memoria non è solo olocausto: parola di Moni Ovadia, parola di ebreo. «I campi di concentramento hanno ucciso sei milioni di yiddish, lo so bene. Gli altri sei, però, erano portatori di handycap, antifascisti e oppositori del nazismo, soldati ammutinati, omosessuali, prostitute e anche rom e sinti. Dobbiamo ricordare tutti: se no, la memoria diventa falsa coscienza».

Moni Ovadia (voce narrante e canto) in "Senza Confini - Ebrei e Zingari", con Paolo Rocca (clarinetto), Ennio D'Alessandro (clarinetto), Albert Florian Mihai (fisarmonica), Marian Serban (cymbalon) e Marin Tanasache (contrabbasso)
Santeramo in Colle (BA), Teatro Il Saltimbanco
Stagione Teatrale 2012/2013 del Teatro Pubblico Pugliese