domenica 16 agosto 2009

La musica è nuda

Musica nuda non significa musica spoglia. O, peggio, povera e precaria. Anche se il progetto è architettato spartanamente e adagiato su un tessuto sonoro essenziale. Meglio ancora: intimo. Asciutto, verrebbe da dire. Asciutto nel confezionamento, però: molto più che nell’esecuzione. Musica nuda è la voce plastica e lo sguardo felino di Petra Magoni, pisana magra e scattante, dolce e aggressiva, un po’ dark e un po’ tenera. Fredda e calda, assieme. Voce duttile che si plasma attorno alle note sottili del contrabbasso del casertano Ferruccio Spinetti e a qualche effetto artificiale, utile a condire un’esibizione di tecnica e inventiva. Di improvvisazione e di sguardi. Dove darsi, così semplicemente, non basta. Perché, con le armi – seppur affilate - delle corde vocali e di quelle di uno strumento con cui è difficile inventarsi un concerto, è saggio e opportuno concedersi di più. Molto di più. Totalmente.
Musica nuda non è, tuttavia, un progetto recente. Il suo cammino, anzi, è sufficientemente datato. E ben rodato, ormai. Particolare di non trascurabile peso. L’esperienza accumulata, tra live e dischi (quattro, se non ricordiamo male), lascia l’impronta, smussa qualche spigolosità trovata in passato sul cammino, depura il prodotto finale, ne addolcisce qualche lineamento, arrotonda il repertorio. La performance dal vivo di Noci, di fronte ad un’affollatissima piazza Plebiscito, quella della Chiesa Madre (suggestiva, ma anche inadeguata, in virtù dell’affluenza copiosa: del resto, Ferragosto è appena transitato), è – per intenderci – pienamente convincente. Sotto ogni angolazione: compresa quella della scelta dei brani in scaletta. Molto più convincente, ad esempio, dell’incursione all’Alterfesta di Cisternino, concretizzatasi qualche anno addietro. Perché, forse, più matura e consapevole. Meno rigida, cioè. Al di là delle differenze strutturali delle location: quella (a Cisternino, tra la terra rossa e le pietre di una masseria) più dispersiva; questa (a Noci, appunto) più accogliente e ovattata.
L’atmosfera di complicità facilmente solidificatasi con la platea, poi, aiuta. Certo, la gente arrivata in piazza sa a cosa va incontro. Non è di passaggio: arriva anche da fuori porta, appositamente per ascoltare. Per ascoltare Petra, un fascio di muscoli e nervi che si agita, si contorce ed esplora teatralmente la moltitudine delle tonalità, applicando le regole del mestiere, ma anche l’irruenza e gli impulsi dell’animo. E per abbracciare gli arrangiamenti di Spinetti, uno che – si dice - ha scelto di abbandonare la formazione più originale del panorama cantautorale italiano, gli Avion Travel, anche per dedicarsi completamente alla causa. Causa che non possiede una strada segnata, ma che spigola qua e là, attingendo dai Beatles e da De Andrè, dai classici internazionali (“Nature Boy”) e dal bagaglio degli autori di casa nostra (Pacifico), passando per Ornella Vanoni e Cristina Donà. Saltando da un universo all’altro, provando a catturare quello che può diventare congeniale al progetto. E che può confortare la qualità dei profili musicali dei protagonisti. Una voce e un contrabbasso che, un giorno, si sono trovati, cominciando un viaggio coraggioso e niente affatto scontato. E che, anni dopo, sono ancora lì, a scoprirsi e a rincorrersi.

Petra Magoni (voce ed effetti) & Ferruccio Spinetti (contrabbasso) in “Musica Nuda”
Noci (BA), piazza Plebiscito
Nocincanta ‘09

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

domenica 9 agosto 2009

Tra humor e note libere

«Amo i giochi di parole: E, soprattutto, quelli che titolano i miei brani. Del resto, i miei lavori sono musica strumentale, privi di voce e parole. E, allora, si fa più difficile trovare un titolo adatto». Firmato Marcello Zappatore, chitarrista leccese. E one man band di un disco scandito da ritmi variabili e appena licenziato. Anzi, autolicenziato: perché, appunto, si tratta di un’autoproduzione. Il disco è La Ciliegina sulla Porta. Un gioco di parole. Né più, né meno. Come “Gocce Novelle”, “Nasi Comunicanti”, “Zappando S’Impara”, “Sinfonia della Scapece”, “Come il Cacio sui Pantaloni”, “Velo Mieloso”, “Epilogo Senza Fine” e “Ghiro d’Italia”, alcune delle diciassette composizioni inserite nell’album. «Ma sì: perché utilizzare i soliti inglesismi? Ho preferito un titolo ironico, che incuriosisca, faccia sorridere e, magari, inviti all'ascolto». Un ascolto senza troppi vincoli musicali. Perché il concetto è questo: si parte dalla musica. E poi si naviga. «Quando suono e quando compongo, mi piace spaziare e, spesso, senza alcun senso logico». Tra input diversi, sfiorando stili e filosofie musicali persino distanti tra loro. Dove porta il vento delle note.
La La Ciliegina sulla Porta è un progetto, però. Un progetto nel progetto. O una maniera di misurarsi, da solo con se stesso. Un’idea autarchica. Che non nasconde il proprio fascino. «Esatto. Questo disco è stato registrato interamente da me. E dietro ogni strumento ci sono io». Non c’è una formazione, non ci sono compagni di viaggio. «E sì, posso tranquillamente affermare che questo è un disco tutto mio, integralmente mio. Concepito, realizzato e prodotto dal sottoscritto». Registrato, peraltro, nel 2003. E sgorgato materialmente sei anni dopo. «Ironicamente, verrebbe da dire che questo cd è come il buon vino: invecchiando, migliora. E che un buon vino va stagionato, prima di poterlo assaporare. La realtà racconta però che, attualmente, c'è pochissimo mercato, soprattutto in Italia. E, ancor di più, per il tipo di proposta musicale che offro». Ma non è mai troppo tardi, evidentemente.
Marcello Zappatore ama Frank Zappa. E a lui, dichiaratamente, si ispira. Trentatre anni, venti dei quali dedicati alla chitarra. «Sono un autodidatta, perfezionatosi frequentando innumerevoli masterclass. E, sul palco, ho suonato con artisti di estrazioni differenti. Con Alex Damiani, ad esempio. Oppure, con i Kiss of Death, con i quali ho inciso Inferno Inc., nel 2004. Ma ricordo anche le esperienze di spalla ai Sepultura, nel 2002. E, ovviamente, quella di due anni e mezzo con una delle formazioni salentine più amate dalle nuove generazioni, gli Après la Classe. Gruppo con cui ho partecipato nella produzione di Luna Park, del 2006, e del cd live uscito nel 2008, salendo sul palcoscenico di Arezzo Wave nel 2005. E anche su quello di San Giovanni in Laterano, a Roma, in occasione della festa del Primo Maggio, due anni fa. Davanti, dicono, a settecentomila persone, dividendo il palco con Chuck Berry e numerosi altri artisti di spessore».
Prima, durante e dopo, invece, la solita spola tra questa e quella formazione. Cammino obbligato per chi di musica si nutre. E vive. L’ultima situazione, ad esempio, è un espressivo viaggio tra le parole delicate (tra il soft e l’impegnato, tra il cantautorale e il pop) di Agnese Manganaro, vocalist salentina di nicchia. Ma non solo musica: Marcello Zappatore, nel 2005, è protagonista di un cortometraggio firmato da Massimiliano Verdesca, In Religioso Silenzio. Pellicola che, oltre tutto, si aggiudica il premio della critica al Milano Film Festival. Alla fine, però, tutto ruota attorno alle sette note. «Il messaggio che mi preme far passare non è razionale, cioè indirizzato in una direzione precisa. Il mio modo di suonare è la genuina espressione di quello che io sono e sento nel momento in cui scrivo e, in parte, nel momento in cui incido. E’ triste pensare che scrivere e fare musica debba necessariamente assecondare l'ascoltatore o chissà chi altro. Per quel che riguarda i generi musicali, apprezzo, studio ed approfondisco tutti gli stili, tendendo poi ad inserirli nei miei lavori. La mia musica, peraltro, è molto strutturata: in sala di registrazione non dedico eccessivo spazio all’improvvisazione. Dal vivo, invece, è diverso: adoro improvvisare. E' per questo motivo che mi stimola molto il jazz: ma difficilmente produrrò un disco di jazz vero e proprio. A mio nome, almeno. Anche se, nella vita, non si sa mai».

Marcello Zappatore
La Ciliegina sulla Porta
(autoprodotto, maggio 2009)

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

martedì 4 agosto 2009

Quel vinile dimenticato

«Io musicista militante? Ebbene sì, l’ammetto. E’ l’etichetta che mi sono creato, un po’ di tempo fa. Il tempo dei movimenti studenteschi, sulla scia del ’68. Il tempo della lotta di classe, negli anni settanta. Quando avevo qualche capello in più. Anzi, più che un’etichetta, quella del musicista militante è stato un modo di essere. E di sentire la musica: nel mio caso il jazz. Ma tutto vissuto in assoluta normalità: logico, per chi, come me, fa parte di quella generazione. Sì, il movimento studentesco mi ha iniettato determinate emozioni: che poi ho trascinato nella composizione della mia musica, della nostra musica». La musica di quel gruppo che, trentacinque anni fa, scrisse I Signori della Guerra.
Gaetano Liguori porta un cognome napoletanissimo, ma è milanese. Molto milanese: l’accento non tradisce. E il suo jazz ha cavalcato più di tre decenni. Ma per raccontare questa storia è necessario riavvlgere il nastro del tempo. E tornare al 1974. L’anno, appunto, de I Signori della Guerra, un vinile che, come tanti altri lavori di quell’epoca, non è stato rimasterizzzato. E, quindi riproposto, al pubblico dei cd e di internet: dove la musica non si compra, ma si scarica. Un vinile, ormai, quasi sconosciuto. E praticamente dimenticato. O quasi. Un album che, a suo modo, offre uno spaccato di quel momento storico. Che è la testimonianza di un periodo politicamente caldo, socialmente convulso. Che è stato il prodotto di un nuovo filone musicale. Musica di rottura, si disse anche. Rottura con il passato. In una stagione in cui il jazz, almeno in Italia, era terra di manovra per pochi.
Ecco, Liguori e il suo gruppo, il Liguori Idea Trio, in quei mesi che collegano l’austerity agli anni di piombo compongono quel vinile dal titolo straordinariamente ancora attuale. Dalle sonorità fresche, dai ritmi serrati. Poi, trentacinque anni dopo, o poco meno, il direttore artistico di Ceglie Open Jazz Festival, Pierpaolo Faggiano, sfogliando le pagine virtuali di un blog, scopre (o riscopre) questo vinile. «Per la verità – ammette Faggiano – con Liguori eravamo già in contatto e stavamo pensando ad una collaborazione tra lui e la nostra rassegna, che ques’anno festeggia il suo sesto anno di vita. Perciò, ho immediatamente raccolto l’imput arrivatomi dal web: perché, mi sono chiesto, non riproporre quel lavoro e la fragranza di quel periodo in una serata? Del resto, il Ceglie Open Jazz Festival, sin dall’inizio, ha voluto rappresentare un contenitore di musica scelta in un ambito specifico, innervato da un progetto. Un progetto che non si limita a replicare cose già ascoltate o ascoltabili altrove. Credo, infatti, che un appuntamento come il nostro non debba limitarsi ad ospitare dei concerti, ma possedere soprattutto una propria identità. Non solo: quel disco, I Signori della Guerra, è stato uno dei simboli di un’intera generazione e di un grande fermento culturale. Liguori, allora, ha raccolto l’idea e mi ha assecondato, riconvocando il bassista Roberto Del Piano e il batterista Filippo Monico, cioè i compagni di quel viaggio musicale, con i quali non si esibiva assieme da una ventina d’anni. E di questo lo ringrazio: perché ci ha consegnato l’opportunità di offrire alla manifestazione anche un’impronta – diciamo così - sociale».
La prima delle tre serate del Ceglie Open Jazz Festival si macera nel ricordo. Forse anche nell’autocelebrazione. Ma l’idea è valida. «A distanza di tempo, in qualche composizione di questo disco – continua Gaetano Liguori – ho ritrovato una certa carica interiore, quella di quei tempi. Ed è stato bello, sotto il profilo squisitamente umano, misurarmi nuovamente con i musicisti che mi accompagnarono in quel progetto. Musicisti che, peraltro, ho ritrovato anche più tardi, nel corso del mio tragitto artistico, durante il quale ho lavorato anche per il teatro, al fianco di Dario Fo, per esempio. Va detto, peraltro, che questo progetto ci offrì l’occasione di poterci esibire davanti ad una cornice di pubblico corposa, anche all’interno dei palazzetti dello sport. Non un dettaglio da poco, per i jazzisti degli anni settanta».
I Signori della Guerra: anche un modo per ricordare Mario Schiano, a cui è dedicata una traccia del vinile e, contemporaneamente, l’intero festival cegliese. «Schiano, per noi milanesi, era il punto di riferimento romano. Musicista fedele alla propria linea, un esempio. Il disco, però, nacque sull’onda emozionale di un film girato da Rosi, poco tempo prima. Una pellicola che, ovviamente, parlava della guerra e di quanti ne muovono i fili». Tra una traccia e ‘altra, però, spunta anche la produzione meno datata di Liguori, come “Il Comandante” e “Agnese”. «Al di là delle epoche e dei riferimenti temporali, però, è bello accorgersi che il mondo della musica, ancora oggi, è sensibile alle tematiche sociali», scandisce il pianista milanese. Vero. E il fatto non guasta. Anzi, un po’ ci consola.

Gaetano Liguori Idea Trio (Gaetano Liguori: pianoforte; Roberto Del Piano: basso elettrico; Filippo Monico: batteria)
Ceglie Messapica (BR), piazza Plebiscito
Ceglie Open Jazz Festival 2009

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

mercoledì 29 luglio 2009

Ricordi senza frontiere

Concierto Intimo. Concerto sulle tracce del Sudamerica. Il Sudamerica quasi arcaico. Ma anche il Sudamerica dei giorni appena passati: giorni di lotta dura e di sangue, soprattutto. Giorni vissuti intensamente, nel terrore e nella speranza. E, infine, nel Sudamerica di sempre: che ha rivendicato terra e libertà, oppure la semplice dignità nazionale. E che ancora rivendica: una visibilità vera, un posto al tavolo della concertazione globale. Concierto Intimo. Ma intimo perché? Perché, se poi gli spartiti dirottano verso il Messsico e verso Cuba, affettivimante vicini, ma geograficamente più distanti? E se poi la musica plana sulle coste dell’Europa? Concierto Intimo, allora, è davvero un modo per seminascondere la matrice di un’idea? Quella, cioè, di ripercorrere gli anni più avvelenati e il percorso più faticoso ed esaltante degli Inti Illimani, gruppo di culto di una generazione intera e simbolo tra i simboli di un’epoca? Sì, verrebbe da dire di sì. Perché, sul palco delle Cave di Fantiano, a Grottaglie, singolare teatro all’aperto recentemente recuperato (concerti o no, è consigliabile la visita) e scelto dalla locale amministrazione comunale per accogliere le tre date della rassegna Musica Mundi, con gli Acanto – formazione italianissima – ci sono il chitarrista cileno Raul Céspedes e, innanzi tutto, Max Berrú Carrión, uno dei fondatori di quella formazione ormai transitata nella leggenda della musica del secolo passato. Del resto, quelle prime quattro lettere di Intimo, coincidono perfettamente con le prime quattro di quella parola un po’ magica, Inti Illimani. Utili, chissà, a risvegliare gli animi di certi nostalgici che ancora possiedono la forza di muoversi, riunirsi ed ascoltare. E sperare, perché no. Adesso più di prima: proprio quando gli Inti Illimani – l’ensemble che continua a trascinarsi il nome del progetto originario e il senso della storia - hanno già inaugurato un percorso differente. O meglio: più vicino alle origini, ovvero alla musica popolare latinoamericana. Con una produzione nuova, sgravata da certe ombre di avant’ieri.
Intimo ed Inti Illimani: ecco, sembra tutto chiaro. Eppure, Concierto Intimo sembra solo gravitare attorno agli Inti Illimani e a quelle ombre di avant’ieri. E’ vero, c’è il pretesto: Max Berrú, appunto. E c’è anche un certo prurito, perché negarlo. Anche perché molta di quella gente seduta in platea non attende che certe quarantennali note. Quelle note di un’epoca. Di una generazione. Ma Concierto Intimo cerca di scavalcare la barriera. Di sganciarsi da quella palpabile sensazione di attesa. Da quel marchio di fabbrica che, consapevolmente oppure no, si è incollato addosso. Ecco perché l’approccio dell’esibizione circumnaviga i titoli delle canzoni più amate. E la scaletta viaggia, come si diceva, dal Messico di “Nuestro México Feverero ‘23”, un inno che celebra la vittora di Panza sulle forze statunitensi e una storia cancellata dalla storia, e di “La Petenera” ai ritmi caraibici come la sfruttatissima “Guantanamera”; dalle composizioni dell’indimenticabile Victor Jara al duplice ed apprezzabile omaggio (la felicissima versione di “Dolcenera” e “Andrea”) a Fabrizio De Andrè; dalla rivisitazione molto rispettosa di “Pe’ Dispietto”, della Nuova Compagnia di Canto Popolare, alla riscoperta di motivi colombiani e peruviani. Lasciando, peraltro, lo spazio per un brano originale, “Apeninas” di Giancarlo Odoardi, pluristrumentista di lunga navigazione, e per le intillimaniane “Rin del Angelito” (atto dovuto alle qualità compositive di Violeta Parra), “Simón Bolívar” e “Alturas”. Come a dire: ritroviamo lo spirito di quegli anni, di quel gruppo, di quegli Inti Illimani. Ma sappiamo fare anche altro. E cerchiamo di abbracciare la terra latinoamericana per intera. Anzi, il mondo. Intimo sì: ma il Concierto azzera le frontiere e respira profondamente.
«Vengo dal Cile e porto il saluto dei cileni e della democrazia, faticosamente riconquistata», dice Max Berrú. «Quella democrazia che si è allargata in tutto il continente». E’ l’unico tributo del leader al ricordo. Prima e dopo, solo note ricostruite con maniacale fedeltà (talvolta, sembra di riascoltare i vecchi vinili) e un’ambientazione curata nei particolari. Gli Acanto, i sei componenti della formazione che accompagna i guest Céspedes e Berrú, ruotano attorno agli strumenti e si esprimono in uno spagnolo convincente: merce rara, in tempi di globalizzazione spicciola e di superficialità sovrana. Alla fine, però, devono pur cedere alle pressioni del pubblico che aspetta e che ancora non si è completamente riscaldato. Dopo gli applausi di fine concerto, arrivano i bis, come un treno. Il treno del passato, mai dimenticato. “Fiesta de San Benito”, “Canción del Poder Popular” e “El Pueblo Unido Jamás Será Vencido”: sì, ci siamo. Siamo al punto in cui saremmo dovuti arrivare. In cui sapevamo di dover arrivare. Parte, timidamente, anche il pugno sinistro di Max Berrú e qualcuno chiede – inutilmente – gli accordi immortali di “Hasta Siempre, Comandante”. Sarà per un’altra volta, magari. L’atmosfera si è infervorata, proprio sui titoli di coda. Ma la gente defluisce contenta. Soddisfatta da due ore lontane dagli schemi. E appagata: in fondo, molti erano lì per un solo motivo.

Max Berrú Carrión (voce e congas), Raul Céspedes (chitarre) & Acanto (Riccardo Iacobone: voce e chitarra; Pietro D’Antonio: flauto, chitarre e voce; Giancarlo Odoardi: chitarra, fisarmonica e percussioni e voce; Normando Marcolongo: basso, contrabbasso e voce; Giuliano Angelozzi: flauti, chitarre, percussioni e voce; Luca Bellisario: batteria, percusioni e voce) in “Concierto INTImo”

Grottaglie (TA), Cave di Fantiano
Musica Mundi 2009

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

domenica 26 luglio 2009

Joana, fadista di impronta antica

Tra il concetto di contaminazione e l’allargamento della prospettiva della world music, che sviluppano gli orizzonti e confondono le tracce, Joana Amendoeira è il nuovo che avanza, ma senza scavalcare. Joana Amendoeira è giovane e già ben inserita nella realtà del suo paese, il Portogallo. Ma il suo fado è l’ideale continuazione di quel vecchio percorso tracciato da Amália Rodrigues (ma non solo da Amália Rodrigues, sia chiaro) e battuto da Maria da Fé, Beatriz Da Conceição, Anabela, Dulce Pontes o Margarida Bessa. Il fado di Joana Amendoeira, cioè, è il nuovo vecchio fado. Non quello che prova ad arruffianarsi la simpatia di un pubblico più eterogeneo e anche più giovane, dentro e soprattutto al di fuori dell’universo lusitano. Non proprio quello ipotizzato, ad inizio di carriera, dalla meravigliosa Teresa Salgueiro, con i Madredeus. Ma quello più vicino all’anima popolare di Alfama, il quartiere di Lisbona dove il fado è nato. E cresciuto. E dove ancora vive, seminascosto alle ondate di turisti. Oppure quello che resiste in certi angoli della Lapa.
Il fado di Joana è quello tradizionale. E’ quello classico. Quello speziato dagli aromi di una terra unica, affiscinante. E di una città, Lisbona, attorno alla quale il fado si tempera e prende sostanza. Una città che non è la sua: perché Joana arriva dall’interno, cioè da Santarém, caposaldo della Reconquista portoghese. Lisbona che, appunto, nel fado si muove con pieno diritto di cittadinanza, senza uscirne mai. Il fado di Joana è il rispetto pieno del passato. Anche se, delle fadiste di un tempo, non possiede la teatralità marcata. Questa ragazza (ventisette anni a settembre) possiede però molta naturalezza. Unita all’ammirazione sincera per la musica che interpreta: «Questa è un’espressione artistica fortemente portoghese. Il fado canta la vita e le storie della vita. E aiuta la gente a ricordare le storie della propria vita».
Non è alta, Joana. Ma occupa il palcoscenico ugualmente. I musicisti al seguito si armano della sobrietà che il fado pretende. Pedro Amendoeira, che della cantora è anche fratello, imbraccia la chitarra portoghese e firma pure un brano in scaletta: perché inseguire la tradizione non significa precludersi la possibilità di creare nuove composizioni. Pedro Pinhal è il padrone della chitarra acustica, Paulo Paz supporta con il basso acustico. Il primo passo è un ricordo doveroso di Amália Rodrigues: e, dunque, l’esecuzione di uno dei suoi successi, “Estranha Forma de Vida”. E un omaggio al passato sono anche “Madrugada de Alfama”, “Aquela Rua”, “Se Eu Adivinhasse o Que Senti”, “Naufrágio”, “Barco Negro”, “O Fado de Outrora”. “Sopra o Vento” è, invece, la musicalizzazione di una composizione di Fernando Pessoa, così come “Viana” è il tributo all’omonima città del Minho, nel nord del Portogallo. La produzione più recente si sintetizza in tre canzoni, una delle quali è la delicata “Lisboa, Amor e Saudade”, titolo un po’ scontato che perrò accorre a rinsaldare il rapporto con la tradizione. Tradizione a cui - va detto per inciso - l’Adriatic International Festival, contenitore intelligente di musiche attinte da diverse culture, del quale il live è parte integrante (anzi, è l’appuntamento che chiude il ciclo di quattro incontri, smistato in altrettante location della provincia di Brindisi), si ispira dichiaratamente. Come i precedenti incontri con la musica irlandese dei Kila (alla Selva di Fasano), la banda di cornamuse palestinesi Guirab (a Brindisi) e il klezmer degli Amsterdam (a Sandonaci) si sono permessi di sottolineare.
«Non parlo bene la vostra lingua»: Joana si schermisce. Ma il linguaggio del fado è assolutamente diretto. Universale, a dispetto del Paese da cui proviene: nostalgico, appartato e, da sempre, abbastanza impermeabile agli impulsi che arrivano dall’esterno. La voce di Santarém, anzi, si fa intendere. E, alla fine, sorprende la platea salutandola con un brano in più che discreto italiano, “Canzone Per Te” di Sergio Endrigo, che l’autore istriano condusse a Sanremo sul finire degli anni sessanta, al fianco di un brasiliano, il giovane Roberto Carlos. Tempi andati, certo. E che ritornano, magari solo per un attimo. Tra le contaminazioni che si incrociano, certe volte, può accadere.

Joana Amendoeira (voce), Pedro Pinhal (chitarra acustica), Pedro Amendoeira (chitarra portoghese), Paulo Paz (basso acustico)
Cisternino (BR), piazza Vittorio Emanuele
Adriatic International Festival 2009

(pubblicato sul sito www.levignepiene.com)

mercoledì 15 luglio 2009

L'anima latina di Mordente

Caetano Veloso, ormai, è un riferimento musicale un po’ abusato. Merito dell’avvenuta internazionalizzazione dell’artista e, soprattutto, di un linguaggio sonoro ampiamente digeribile: negli States e, ovviamente, anche in Europa. Perché la moda e la globalizzazione, da sempre, passano prima da quelle contrade e, succesivamente, da queste parti. Di più: le sonorità e, più in generale, il songbook di uno dei padri del Tropicalismo (con lui Gilberto Gil, Torquato Neto e qualcun altro) posono essere tranquillamente riconvertiti ad un pubblico eterogeneo. Senza avvertire imbarazzo o il pericolo di fallire l’approccio con la platea. E un interprete – un interprete brasiliano che vive in Italia – queste cose le sa. Le sa bene. Le composizioni del cantautore baiano, del resto, erano e rimangono assai stimolanti: anche e soprattutto per un artista sudamericano che si appropria del piacere di omaggiarne il percorso artistico.
Rosa Emília, pure lei baiana ma residente a Venezia, voce dal pedigrée già ben definito e assai apprezzata dagli appassionati del genere di casa nostra, sceglie così un itinerario sicuro, garantito all’origine. E, al secondo appuntamento di Jazz à la Cruz, intinge la propria esibizione in una quindicina di pezzi più o meno conosciuti al grande pubblico. Rivestendoli con versioni sufficientemente fedeli, eppure personalizzate. “O Samba e o Tango”, “Cajuína”, “Sampa”, “Qualquer Coisa”, “Trilhos Urbanos”, “Trem das Cores”, “Eclipse Oculto” e qualche altro titolo saccheggiano qua e là una carriera ormai quarantennale, senza seguire un disegno prestabilito. Né un percorso temporale. Rosa Emília canta quel che le va, puntando ai successi universalmente accreditati. E, generalmente, scegliendo testi gravidi di charme e, talvolta, socialmente robusti (come “Recado”, tratto dall’album Fine Estampa, rivisatazione velosiana di una composizione in lingua spagnola degli anni venti, o come “Haiti”).
«Caetano – spiega Rosa Emília – non ha mai nascosto di cogliere le sfumature culturali e sociali del proprio Paese, disegnandosi un percorso eclettico. Per questo è, in Brasile, tra gli autori più amati. Per questo mi piace riproporlo». In Puglia («qui sembra di essere più vicini alla mia terra: è una questione di colori, è una questione di luce. Sì, questa luce mi ricorda un po’ il Brasile», dice) si fa accompagnare da una formazione indigena (il batterista Accardi, padrone di casa; il contrabbassista Vendola, il chitarrista De Giosa e il pianista Andrioli, rientrato temporaneamente da Bruxelles) che, con ironia e persino un po’ di orgoglio, si è autoribattezzata Caetanear (testualmente, significa “caetanizzare”, termine storicizzato da “Siná”, fortunatissima composizione di Djavan, tradotta anche in inglese dai Manhattan Transfert negli anni ottanta). E, ovviamente, di fronte a quattro jazzisti, gli spartiti oroverde finiscono per impastarsi di jazz. Poco male. Anzi, bene. Del resto, Caetano è personaggio assai duttile, assai attratto dalla contaminazione. Come duttile è la voce di Rosa Emília, che sa enfatizzare i dettagli e giocare sugli accordi, dedicandosi un’interpretazione libera da ogni vincolo di imitazione. Anche quando chiude il concerto, prima del bis, abbandonandosi alle note di un’altra composizione di lingua spagnola, quella “Cucurucucu Paloma” recentemente impiegata (e, dunque rivalutata) da Almodóvar come colonna sonora di una sua pellicola.
A proposito di lingua spagnola. A proposito di donne. E a proposito di Jazz à la Cruz, la rassegna creata dall’Associazione “Mordente” che possiede una breve ramificazione, cioè Jazz à la Vedette (cambia la location e pure la città: da Polignano si passa temporaneamente a Giovinazzo). Appena tre giorni dopo scende in Terra di Bari Eva Cortés, honduregna di nascita, sivigliana di cuore e madrilena di residenza, punto di riferimento di un quartetto che si avvale del contributo del pianista Remi De Cormeille, del contrabbassista aragonese Tonio Miguel e del già citato Fabio Accardi. Esile, garbata e profondamente castigliana nella pronuncia, la ragazza ama la Francia e apre un paio di parentesi sulla canzone francese, ma fondamentalmente presenta il suo secondo lavoro discografico, “Como el Agua Entre los Dedos” (“Come l’Acqua tra le Dita”). Album, questo, dalle sonorità calde: che l’esibizione dal vivo, di gusto dichiaratamente jazzistico (la formazione, del resto, è diversa da quella che ha cooperato in sala d’incisione), tende peraltro a raffreddare. Al di là di tutto, sulla Terrazza della Vedetta, attico che sorveglia il porto, domina il centro storico e sembra quasi abbracciare il mare, Eva cavalca il pop, ma dimostra di conoscere i tempi e le abitudini del jazz, che poi è il suo campo d’azione. Puntando sapientemente sulla modulazione della voce, com’è giusto, e sulla simpatia naturale. E in attesa di lasciare il palcoscenico ad un'altra signora della canzone, l’italianissima Paola Arnesano, padrona del palcoscenico nell’ultima e imminente tappa del cartellone.

Rosa Emília (voce), Nico Andrioli (piano), Francesco De Giosa (chitarra), Giorgio Vendola (contrabbasso) & Fabio Accardi (batteria)
Casello Cavuzzi di Polignano a Mare (BA), Masseria Crocifisso
Jazz à la Cruz
11.07.2009

Eva Cortés (voce), Remi De Cormeille (piano), Tonio Miguel (contrabbasso) & Fabio Accardi (batteria)
Giovinazzo (BA), Terrazza della Vedetta
Jazz à la Vedetta
14.07.2009

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

sabato 11 luglio 2009

Dischi - Replay, il ritorno di Casarano & Locomotive

Spesso ritornano. Rafforzando o ampliando il proprio cammino artistico. Attualizzandolo, se è il caso. Ritornano in sala di incisione, che è poi la naturale trascrizione dell’impegno quotidiano, del disegno musicale cullato nel tempo e forgiato dagli incontri, dalle contaminazioni, dai confronti, dai festival e dalle trasferte europee. Che, ovviamente, non accolgono chiunque. Ma solo chi, oltre confine, possiede qualcosa da dire. O da offrire. Spesso ritornano. Molti, tanti. Ma non tutti. E un nuovo disco, allora, si collega al primo. Diventando la prosecuzione di un percorso. Ma non sempre, davanti al fonico e al mixer, in uno studio di registrazione, la line up torna intatta. Così com’era la volta precedente, cioè. «E, invece, questo è il nostro caso. In questo lavoro, il secondo a mio nome, ci siamo sempre noi. Noi, il gruppo storico: che resiste da sei anni. E che, tempo addietro, portò alla creazione di Legend», il disco di debutto. Con me, ci sono ancora Marco Bardoscia al contrabbasso, Alessandro Napolitano alla batteria, Ettore Carucci al piano. E, soprattutto, Paolo Fresu, un’icona del nostro jazz. Ma anche un amico e un guest di pregio. Che, ai Locomotive, si è evidentemente abituato. Tanto da bissare l’esperienza. Una persona, oltre tutto, che ammiro: per come vive il concetto di musica e per l’abilità di non ripetersi mai. Al di là di tutto, però, questo è un gruppo ormai collaudato. Anzi, un gruppo che si è solidificato. Dentro, c’è sintonia, complicità. E non ho problemi ad affermare che, adesso, suoniamo anche meglio, assieme».
Raffaele Casarano, ventott’anni ben spesi, da Sogliano Cavour, nel cuore del Salento, è un sassofonista ambizioso. Nel senso migliore del termine. Uno di quelli che cerca di valicare – se ce ne sono ancora – nuove frontiere. Che prova a ridiscutersi. Che allarga gli orizzonti, puntualmente. Che tenta di capire cos’altro si muove oltre la palestra delle proprie idee e della propria musica. Che si sforza di captare nuovi linguaggi musicali. Che viaggia attraverso le note e gli spartiti con l’entusiasmo dei primissimi giorni e con la la prospettiva di saperne di più. Raffaele è un sassofonista ambizioso che si sta ritagliando spazi sempre più larghi, nel territorio immenso del jazz italiano. Del jazz attento alla realtà che gli si struscia addosso. Un artista giovane, dalla mentalità aperta. Che guarda alla professione imponendosi degli obiettivi. E accarezzando una progettualità che scavalca la logica della semplice quotidianità. Il Locomotive Jazz Festival, ad esempio, è una sua intuizione. Da gestire e proteggere, nella sua città. Soprattutto adesso: «Anche quest’anno la rassegna si terrà, per il quarto anno consecutivo: malgrado i contributi siano stati letteralmente segati. Ma troveremo ugualmente il modo di esserci, nella prima settimana di agosto: costi quel che costi. Rimango fiducioso. E poi il cartellone è definito da tempo. Ci sono, tra gli altri, il gruppo di Mirko Signorile, l’Orchestra Jazz del Conservatorio di Lecce, la Banda Musicale di Berchidda, lo stesso Paolo Fresu, il Soweto Kinch Quintet, Achille Succi, Luca Aquino e la Locomotive Percussion Orchestra».
Il nuovo album, appena prodotto e commercializzato dalla Universal, si chiama invece Replay. Un manifesto programmatico, quasi. Dieci tracce, di cui sette originali. I tre standard sono “Skylark” (Carmichael-Mercer), “This is New” (Gershwin-Weill) e “Besame Mucho” di Consuelo Velázquez, che Raffaele Casarano ha tuttavia riarrangiato. Cinquantasette minuti complessivi, condivisi anche con Wiliam Greco (pianoforte), Alberto Parmegiani (chitarra), la giovanissima Carla Casarano (voce), il percussionista Alessandro Monteduro, le altre voci di Dario Muci e Maria Mazzotta e, infine, l’arpa della miggianese Angela Cosi, che assicurano incursioni qua e là. «E’ un lavoro corale – garantisce il leader del progetto -. Un lavoro che punta molto sui colori. E che ritengo, sotto diversi aspetti, più maturo e completo di Legend. Ci siamo impegnati molto, ma anche divertiti. E poi c’è sempre spazio per l’improvvisazione, lo stimolo migliore per qualsiasi jazzista».
Improvisazone, certo. E, qualcuno, suggerisce anche contaminazione. «In realtà – rivela Raffaele Casarano – c’è solo un pezzo, tra i dieci di Replay, che può lasciar pensare a qualcosa del genere. Mi riferisco a “Replay in Salento”, spartito al quale sono particolarmente legato. E’ un atto di affetto alla mia terra, il Salento, e alla radice fortemente tradizionale della sua musica. Diciamo pure che, in quegli otto minuti e quaranta secondi, confluiscono il jazz e la pizzica, che restano pur sempre due mondi differenti. Direi, anzi, paralleli. Perché, allora? E perché no? Alla base dell’uno e dell'altra c’è la passione. E poi c’è questa formazione: di estrazione jazzistica, ma che opera essenzialmente nel Salento e, più in generale, in Puglia. Non solo: questa traccia è introdotta dalle voci dei miei nonni, che rendono più personale la composizione».


Replay (Universal, 2009)

Raffaele Casarano (sassofoni ed elettronica), Ettore Carucci (piano e fender rhodes), Marco Bardoscia (contrabbasso ed elettronica), & Alessandro Napolitano (batteria). Guest Paolo Fresu (tromba ed elettronica), Wiliam Greco (pianoforte), Alberto Parmegiani (chitarra), Carla Casarano (voce), Dario Muci (voce), Maria Mazzotta (voce), Alessandro Monteduro (percussioni) e Angela Cosi (arpa)

(pubblicato dal sito www.legnepiene.com)

domenica 5 luglio 2009

La notte è veloce

La notte è lunga. Ma, talvolta, sa passare leggera, veloce. Soprattutto se la notte è bianca. Bianca di suoni, di gente, di reading e teatranti, di fervore. Che è poi il fervore dell’abbandonarsi al percorso delle postazioni. Il percorso che ogni Notte Bianca si impone o che ognuno si costruisce idealmente, seguendo il proprio istinto, i propri gusti. Oppure i sentieri del caso. Arriva gente, a Lecce. Tanta gente. Da tutto il Salento. Che si confonde con quella residente. Il centro storico pulsa. Più del solito. La Notte Bianca è una notte serena, strappata alle cattive evoluzioni atmosferiche. Una notte per ciascuna preferenza, come pretende la tradizione. Dal jazz alla pizzica, dai monologhi alla canzone d’autore, dal blues alle gallerie di pittura, dalla mostre fotografiche agli spazi per le selezioni dei dj. Una notte da passare assieme. Tra gli stand e le proposte di uno spettacolo autenticamente popolare. Una notte buona per zigzagare per i bar, dribblando i crocchi, incrociando le fantasie del barocco. Una notte per tutti. Una notte che, appunto, passa leggera. E veloce.
Impossibile godere di tutto. Spesso, si vive di ritagli, di assaggi, conquistati qua e là. Ma va bene ugualmente: questa gente curiosa che sciama vuole sapere di tutto e di tutti. Le situazioni musicali, peraltro, non si protaggono tanto. Quaranta minuti l’una. Quarantacinque, al massimo. La programmazione è complessivamente discreta. Nessun nome di prestigio (non si può, il budget a disposizione del comitato organizzatore è limitato: non ci meravigliamo, il duemilanove è anche questo, malgrado la rincorsa istituzionale all’ottimismo), ma tanti artisti chiamati ad esibirsi (meglio: a cooperare). Con una prerogativa: sono essenzialmente locali. Salentini. E, forse, è giusto così. Questa Notte Bianca è una notte salentina. Tipicamente salentina. Non mancano, però, delle felici intuizioni. Come quella di creare, dentro la Notte Bianca, una Notte Rosa. E sì, perché la location allestita davanti alla Chiesa Greca è espressamente dedicata all’universo femminile. Dove ci piace segnalare la performance della raffinata e niente affatto convenzionale Agnese Manganaro, accompagnata dalla chitarra di Marcello Zappatore. Agnese prova un paio di cover (una, ad esempio, è "Leãozinho", di Caetano Veloso), ma ci mette molto di suo, presentando a chi non lo conosce Mille Petali, il suo cd (vendutissimo ai piedi del palco) che parla di una quotidianità dolce e di sentimenti, senza essere però stucchevole o scontato. La vocalist è bella, intrisa del proprio fascino, ma è soprattutto elegante. La voce, spesso, è un filo sottile, ma che si insinua, che penetra. I testi sanno essere ricercati, pur possedendo una freschezza di fondo. L’accompagnamento di Zappatore, infine, non è invasivo, ma completa un live che la Manganaro interpreta in cinque lingue, giapponese compreso (del resto, Mille Petali circola anche sulle rive del Pacifico, oltre che in Italia).
Prima di Agnese Manganaro, invece, si presenta Eneri, cioè Irene Bello, giovane e sicura, pianista che ama anche la chitarra, autrice di versi di sufficiente profondità: la sua ricetta è un cantautorato giovane, ma ben strutturato, dalle tonalità cangianti. Dopo, invece, ecco il quartetto vocale Vuaolè (Irene Scardia, Carolina Bubbico, Antonella Mucelli, Grazia Sibilla), che comincia parafrasando il percorso artistico delle Faraualla, ma che poi devia decisamente sul terreno del pop internazionale. Voci agili, ben assortite. Come assortito (e, quindi, vasto) è il perimetro entro cui si allarga il repertorio: che, così, trascina tutti i benefici - e anche i limiti - del caso. E, infine, anche tanto temperamento interpretativo, contraddistinto da frequenti scambi di ruoli e postazioni che forse tolgono qualcosa, sotto il profilo puramente formale. Elementi, questi, che – tuttavia – creano audience. Overo, un dettaglio a cui una Notte Bianca deve decisamente puntare. E, sempre a proposito di voci al femminile, non merita di passare inosservata l’operazione di aggiornamento (negli arrangiamenti, evidentemente) della musica popolare salentina voluta dalla giovanissima Alessia Tondo, da Emanuela Gabrieli e da Carla Petrachi (accompagnate al basso da Marco Bardoscia). Triace è un progetto ormai avviato da un po’, ma la formazione invitata per l’occasione è, in realtà, la versione ridotta dell’originale. Opzione che, nello specifico, sottrae qualcosa.. Ma abbiamo già detto del clima di austerity piovuto pure sulla Notte Bianca leccese. Un ingranaggio che, comunque, gira ugualmente. Sino a tardi. Quando la gente che continua a sciamare non si arrende all’evidenza dell’alba. Indugiando per vicoli, piazze e corti. Lì, dove la kermesse si consuma sul tappeto di bottiglie vuote. La Notte è andata: bianca, chiassosa, veloce.

Notte Bianca 2009
Lecce, centro storico (varie location)

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

venerdì 3 luglio 2009

Clessidra, il tempo di Mirko Signorile

L’avevamo lasciato a Ruvo, appena l’estate scorsa. E lo ritroviamo tra Polignano e Castellana, in una delle masserie più interessanti (architettonicamente, ma anche sotto il profilo della qualità dei lavori di conversione apportati) di quest’angolo di Terra di Bari. Mirko Signorile è ispirato come sempre. E, come sempre, sente fortemente la sua musica. Come sempre vive intensamente e intimamente il suo concerto, il suo progetto. Perché, tra gli ulivi delle campagne di Casello Cavuzzi, il pianista modugnese non riposa, ma si esibisce. Aprendo il cartellone dell’associazione culturale Mordente, appena generata dalla passione, dalla verve (e dall’ambizione imprenditoriale, oseremmo dire) di Fabio Accardi, batterista di questa Puglia che crede ancora nella musica e che, da Parigi, è tornato definitivamente. Per lavorarci e investire: professionalità e anche un po’ di denaro. Allestendo un gruppo di lavoro giovane, motivato e fresco: con il quale ha cominciato l’avventura. Avventura che, per il momento, si concentra in quattro avvenimenti live (tre alla Masseria del Crocifisso, appunto, e uno sulla Terrazza della Vedetta di Giovinazzo), tutti programmati per il mese di luglio. E che, più tardi, dovrebbe sfociare in altre iniziative musicali. Anche al di là della semplice organizzazione di rassegne.
Ma dicevamo di Mirko Signorile. Che nel vernissage di Mordente ha ripresentato il suo ultimo (e bellissimo: però, di questo, pochi nutrivano dei dubbi) cd, Clessidra: licenziato dalla Emarcy e parzialmente eseguito proprio a Ruvo, qualche mese addietro, ma questa volta pubblicizzato totalmente. E non da solo. Perché Jazz à la Cruz (è il titolo della rassegna) gli ha permesso di affiancargli la formazione che lo sostiene nelle tracce realizzate in studio. Quindi, traducendo, l’inseparabile Giorgio Vendola al contrabbasso, il percussionista coratino Cesare Pastanella e lo stesso Fabio Accardi alla batteria. Tre nomi che, da queste parti, non necessitano di troppe presentazioni e che, in chiusura di concerto, sono stati raggiunti sul palco da un altro amico antico come il sassofonista Gaetano Partipilo, guest per un paio di brani. «Il lavoro – sottilinea Signorile – è un racconto. Il racconto di una storia. La storia del tempo immobile. Oppure del tempo che continua a scorrere. Ed è un lavoro confezionato nel tempo. Diciamo in un arco di dieci anni. E sì, perché, ad esempio, una composizione che fa parte di Clessidra, cioè "Ortigia", nasce proprio allora. Ero ancora giovanissimo e mi ritrovai a Siracusa per il mio primo concerto al di fuori dei confini regionali. Ortigia è quella penisola che costituisce il centro storico del capoluogo siciliano. Ed è un luogo di grande bellezza, al quale ho voluto dedicare qualcosa di mio».
“Ortigia”, e poi “Monadi”, “Un passo Dopo l’Altro”, “Intorno a Noi”, “La Gatta Pensierosa”, “Mondo Notturno” e altre cinque passaggi dell’intera track list: La ricchezza compositiva e l’espressione convincente del mosaico musicale del disco, la versatilità del suo autore, la musicalità degli spartiti e la forza interiore di ogni passaggio riassumono il mondo di Mirko e si traducono in uno dei migliori prodotti discografici partoriti in Puglia negli ultimi anni. Un prodotto che entra ed esce dal jazz, abbracciando semplicemente il concetto di musica contemporanea. Clessidra si fa ascoltare. E, ascoltandolo più volte, cattura e si fa amare. Perché, al di là della tecnica e delle qualità fondamentali del musicista, pulsa il sentimento. E sgomita il rigore musicale elaborato e rielaborato in anni di palcoscenico, tra festival e vita di club. E di studio. Perché, conoscendo Signorile, Clessidra appare, sin da sùbito, non un disco come tanti. Ma il “suo” disco. «L’occasione ideale – aggiunge Fabio Acardi, che di Jazz à la Cruz, oltre che leader dell’organizzazione (è il presidente dell’associazione culturale Mordente) è anche direttore artistico – per cominciare bene questo percorso. Un percorso che prosegue l’undici di luglio con l’intervento della brasiliana Rosa Emília e del suo gruppo, sempre a Casello Cavuzzi, con il live dell’honduregna, ma spagnola di adozione, Eva Cortés (alla Vedetta di Giovinazzo, il 14 luglio, ndi) e con l’omaggio di paola Arnesano a Peggy Lee (ancora alla Masseria del Crocifisso, ma a fine mese, ndi). Ma Mordente, più avanti, vuole allargare i suoi confini. Rafforzare le propria fondamente, ramificarsi. E, perché no, diventare anche etichetta discografica. Le idee ci sono, ci stiamo lavorando». Non ci resta che attendere.

Mirko Signorile (pianoforte), Giorgio Vendola (contrabbasso), Fabio Accardi (batteria) & Cesare Pastanella (percussioni)
Casello Cavuzzi di Polignano a Mare (BA),
Masseria del Crocifisso
Jazz à la Cruz

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

venerdì 26 giugno 2009

Bari in Jazz, tra sacro e profano

Cinque voci, un contrabbasso e percussioni discrete. Bari in Jazz 2009 si presenta così, esplorando il progetto di Gianna Montecalvo e Lisa Manosperti, due signore della musica pugliese, della rampante Rossella Antonacci, di Stefano Luigi Mangia e di Giorgio Valerio, sostenuti dalle note di Pasquale Gadaleta e Maurizio Lampugnani. Progetto di respiro ampio, commissionato e sviluppato espressamente per il festival, “Sussurri” è vocalità senza tempo e senza confini, che sa attingere senza remore da diverse esperienze, prelevando qualcosa nel giardino di differenti stili e autori (da Rachmaninov ai Nirvana, per intenderci). Giocando, all’interno della navata unica della Chiesa di Sant’Anna, con leggerezza tra i sentieri dell’improvvisazione, della manipolazione musicale e, perché no, dell’ironia. Sùbito dopo, invece, nel chiuso dell’Auditorium della Vallisa (il tempo è capriccioso ed è meglio non rischiare: la location inizialmente approntata, quella del cortile del Castello Svevo, è bypassata per cause di forza maggiore), il quartetto del trombettista beneventano Luca Aquino (con lui Marco Bardoscia al contrabbasso, Giovanni Francesca alla chitarra elettrica e Gianluca Brugnano alla batteria) presenta Lunaria, lavorazione discografica spesso energica, ma dotata di ampi recinti dedicati all’atmosfera, che si regge sul concetto di jazz moderno, dove certi impulsi rockettari, sonorità talvolta ponderose e l’elettronica si ritagliano agiatamente il proprio spazio.
La prima giornata della rassegna ideato da Roberto Ottaviano e gestita dal Centro Interculturale Abusuan conforta dunque le attese e ribadisce la linea programmatica dell’appuntamento barese, che non si accontenta di veleggiare dentro e attorno al jazz, ma che – da sempre – cerca di vivere la musica con genuina curiosità e profondo rispetto per le tematiche che può liberare. Provando, magari, ad ereditare – come puntualizza il direttore artistico del festival – il percorso e le intenzioni di due ormai dispersi contenitori di assoluto riferimento per la realtà pugliese come il Talos di Ruvo e l’Europa Jazz Festival di Noci. «Bari in Jazz – continua Ottaviano – è un progetto che avanza, malgrado la quinta edizione non possa considerarsi un traguardo particolarmente significativo. Avanza perché ci sostengono l’energia attiva di diverse componenti che collaborano e, soprattutto, la riflessione e i frequenti confronti di opinione che ci spingono ad operare. E’ un progetto che avanza e che, però, vuole migliorarsi ancora: anche per questo, stiamo ostinatamente ripensando alla creazione di un circuito jazzistico che colleghi le diverse realtà pugliesi. Ma, prima di ogni altra cosa, ci impegnamo a pensare ad una musica che sappia guardare al di là dell’occasione episodica, del concerto fine a se stesso».
Bari in Jazz 2009, peraltro, trascina con sé un tema conduttore (”Il Sacro ed il Profano”) che implica impegno e attenzione: nella ricerca delle proposte musicali e nella tessitura della trama di una manifestazione che tende a scavalcare il concetto di già visto e sentito. O, meglio, di scontato. “Il Sacro ed il Profano”, cioè una traccia che bene si integra con la decisione di utilizzare, per l’occasione, alcuni luoghi di indubbia suggestione come due chiese (di Sant’Anna e di San Giacomo) della città vecchia e che istruisce la strada della seconda serata del cartellone, aperta da “Suoni Sacri”, performance multietnica e multireligiosa dell’Ottonando Brass Ensemble di Mino Lacirignola, dove culture e riti apparentemente lontani tra loro trovano identica dignità. Alla quale, a seguire, si accoda l’omaggio di Lisa Manosperti, del pianista tranese Davide Santorsola, della violoncellista Giovanna Buccarella e di Javier Girotto ad Edith Piaf, lavoro – del resto – già confluito due anni addietro in un disco.
La testimonianza di Furio Di Castri, personaggio di culto e leader della formazione che inaugura la sequenza di live nel Cortile del Castello Svevo, è invece un agile happening di prime firme (Tamburini, Negri, Marcotulli, Lee e Alluche) tra incursioni elettroniche e buon umore. L’ensemble si agita attorno alle figure e alla filosofia di due autori visionari, ancorchè distanti tra loro, come Thelonius Monk e Frank Zappa, musicisti che - per pubblica ammissione – hanno influenzato l’attività e il pensiero del contrabbassista milanese. «Ma Bari in Jazz – spiega Ottaviano – chiede ai propri ospiti linguaggi e situazioni particolari. E, soprattutto, pretende artisti che, musicalmente, non vogliono adagiarsi». “Zapping”, allora, diventa un concerto itinerante, all’interno della struttura del festival, che – a seguire – propone al pubblico della terza serata “Megalitico”, progetto ben congegnato dal sardo Gavino Murgia, che può appoggiarsi su delle sonorità articolate, ma ben amalgamate, e peraltro già sperimentato nella scorsa estate dal Locus Festival di Locorotondo.
Infine, la quarta ed ultima tappa riserva altre tre situazioni diverse: prima si esibisce l’Arundo Donax, quartetto di sassofoni asciutto che punta sulla varietà dei timbri, sulle sfumature e sui colori. Poi, nuovamente al Castello Svevo, l’attesissima tromba di Tom Harrell distribuisce eleganza ed atmosfere, perfettamente suffragate da un quartetto di alta pulizia interpretativa e da una scelta di repertorio assolutamente indovinata e, perciò, gradita in platea. Quindi, prima che si riversi il temporale, minaccia costante dellaa manifestazione intera, ecco la frenetica orgia di suoni del clarinettista bulgaro Ivo Papasov e del suo gruppo, ancora sufficientementi legati alla tradizione della propria gente e del proprio Paese. Dove la musica da matrimonio (e, quando occorre, da funerale) mantengono uno spessore sociale e musicale particolarmente alto. E dove, appunto, sacro e profano si sovrappongono. «Esattamente quello che volevamo vedere e ascoltare – analizza Roberto Ottaviano - . Un messaggio che la gente, rispondendo con la propria presenza, ha mostrato di apprezzare. Apprezzando, di conseguenza, il nostro sforzo». Un messaggio che incoraggia a rinnovare l’impegno, l’anno prossimo. Anzi, prima: perché sta arrivando Bari in Jazz Winter, già ad ottobre, nel nuovo teatro di Telebari. Ma, adesso, è presto per approfondire il discorso. Arriverà l’occasione, più avanti.

Bari in Jazz 2009

Gianna Montecalvo (voce), Lisa Manosperti (voce), Rossella Antonacci (voce), Stefano Luigi Mangia (voce), Giorgio Valerio (voce), Pasquale Gadaleta (contrabbasso) & Maurizio Lampugnani (percussioni) in “Sussurri”
Bari, Chiesa di Sant’Anna
23.06.2009

Luca Aquino Quartet (Luca Aquino: tromba; Giovanni Francesca: chitarra elettrica; Marco Bardoscia: contrabbasso; Gianluca Brugnano: batteria) in “Lunaria”
Bari, Auditorium Diocesano Vallisa
23.06.2009

Ottonando Brass Ensemble (Mino Lacirignola: tromba e cornetta; Giovanna Bianchi: tromba; Donato Semeraro: corno; Giuseppe Zizzi: trombone; Domenico Zizzi: tuba)
Bari, Chiesa di Sant’Anna
24.06.2009

Lisa Manosperti (voce), Davide Santorsola (pianoforte) & Giovanna Buccarella (violoncello) in “La Foule – Omaggio ad Edith Piaf”. Guest Javier Girotto (sassofoni)
Bari, Auditorium Diocesano Vallisa
24.06.2009

Furio Di Castri (contrabbasso), Nguyen Lee (chitarre), Rita Marcotulli (piano e tastiere), Marco Tamburini (tromba e flicorno), Mauro Negri (sax alto e clarinetto) & Joel Alluche (batteria) in “Zapping”
Bari, Cortile del Castello Svevo
25.06.2009

Gavino Murgia Quintet (Gavino Murgia: voce e sax soprano; Michel Godard: tuba e serpent; Luciano Biondini: accordeon; Francois Tortiller: vibes e marimba; Pietro Iodice: batteria) in “Megalitico”.
Bari, Cortile del Castello Svevo
25.06.2009

Arundo Donax Sax Quartet (Pasquale Laino: sax soprano; Pietro Tonolo: sax alto; Mario Raia: sax tenore; Rossano Emili: sax baritono)
Bari, Chiesa di San Giacomo
26.06.2009

Tom Harrell Quintet (Tom Harrell: tromba e flicorno; Wayne Escoffery: sax tenore; Danny Grissett: piano; Ugonna Ukegwo: contrabbasso; Johnathan Blake: batteria)
Bari, Cortile del Castello Svevo
26.06.2009

Ivo Papasov Band (Ivo Papasov: clarinetto; Maria Karafizieva: voce; Matjo Dobrev: kaval; Nesho Neshev: fisarmonica; Ateshhan Yousseinov: chitarra; Vasil Denev: tastiera e gadulka; Salif Alì: batteria)
Bari, Chiesa di San Giacomo
25.06.2009
Bari, Cortile del Castello Svevo
26.06.2009

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

venerdì 12 giugno 2009

Multiculturita 2009, due set per cominciare

Multiculturita è un summer festival che si conferma. Malgrado le insidie di questi tempi avversati dalla recessione. E che si amplia, geograficamente. Allargandosi, cioè, a Casamasima e Valenzano, in due distinte location di fascino che si aggiungono a quella – già ampiamente testata – del piazzale antistante la Reale Basilica di Capurso, dove la rassegna (alla settima edizione) è nata e cresciuta, conquistando nel tempo consensi e visibilità. Cioè apprezzamenti del pubblico ed adesioni (persino pregiate) di personalità consolidate nel panorama jazzistico nazionale e, spesso, anche internazionale. Si amplia, Multiculturita: se non per dispetto, per esigenza. Perché, scavando nel giardino delle motivazioni, il buon umore si sgonfia. Come spiega il líder máximo del progetto, un polemico (meglio: avvelenato) Michele Laricchia: «Capurso, evidentemente, non possiede spazi e argomenti da dedicare alla cultura e alla gente. Le amministrazioni cambiano, ma a noi non pensa nessuno. Logico, allora, guardare anche altrove. A Casamassima e Valenzano, per esempio. Il problema, alle nostre latitudini, è la volontà politica. E, badate bene, il marchio Multiculturita non ha nulla a che vedere con maggioranza o opposizioni. A noi piace offrire musica, al di là di chi ci governa. E questa nuova avventura è un ulteriore sforzo dell’associazione Porta del Lago, che mantiene un impegno ormai tradizionale senza il sostegno della politica cittadina».
Il festival, oltre tutto, corregge il proprio format. Questa volta si parte un po’ prima, nella prima metà di giugno, con un’anticipazione robusta, ovvero con un doppio live all’interno del Chiostro della Reale Basilica. Un doppio live che serve da prologo pubblicitario, innanzi tutto. «La scelta è precisa – spiega Laricchia - : meglio risparmiare sul materiale divulgativo, come la cartellonistica, ed investire maggiormente sulla musica. Offrendo praticamente un appuntamento in più, utile anche e soprattutto a presentare ufficialmente il cartellone programmato per luglio, periodo nel quale ospiteremo l’ensemble di Mino Lacirignola, i Quintorigo e Luisa Cottifogli (il 2, ndi), il quartetto capitanato da Vito Di Modugno (giorno 8, ndi), il Mina Agossi Trio (il 14, ndi) e il sestetto del cubano Arturo Sandoval (è l’evento certamente più atteso, previsto per il 21, ndi)». E la prima, sia detto sùbito, non è affatto male. Tutt’altro. Perché si dividono il palco un protagonista rampante della scena pugliese (il pianista Livio Minafra, miglior giovane talento jazz per il 2008, ormai destinato ad un percorso artistico di spessore, sovvenzionato com’è da creatività e copertura mediatica, che non disturba mai) e un duo di prestigio più consolidato (la voce della napoletana Maria Pia De Vito incontra il pianoforte e l’istinto del gallese Huw Warren). E la miscela è una serata attraversata da tonalità, colori, vivacità e intuizioni.
Minafra, ovviamente, spende l’esibizione per pubblicizzare un lavoro dell’anno scorso, che vanta già vernissage distribuiti un po’ ovunque, «La Fiamma e il Cristallo», disco in cui il musicista ruvese debutta nel ruolo di solista. Ventisette anni, parola facile e atteggiamento informale: il ragazzo sa approcciare con la gente e utilizza la personalità di cui dispone, senza filtrarla. Il suo pianismo è moderno, fresco, ironico, istrionico. Naviga tra ritmi incalzanti e scale armoniche accattivanti. Non inventa niente, ma ha imparato a gestire bene il rapporto con la platea. Limando alcune forzature del passato, probabilmente. E ricordando, da questo punto di vista, il più navigato Allevi. Del quale, sicuramente, possiede più sfrontatezza. E maggior naturalezza. «Volevo diventare un batterista, poi mi hanno messo a suonare il pianoforte e mi sono adattato», dice. «Provo attrazione per i Balcani (l’esperienza formativa alla ledership della Municipale Balcanica è un ricordo piacevole, ndi), ma anche per l’Africa e qualche altro angolo del pianeta, come la Turchia». “Bulgaria”, invece, è un pezzo che si avvale della collaborazione (simpaticamente estorta) di un ascoltatore scelto tra il pubblico, che deve disporre sulle corde del piano, ad esecuzione in corso, oggetti che contribuiscono ad arricchire la melodia. Dopo tutto, la musica è leggerezza, allegria.
Secondo set, altra scena. La voce duttile di Maria Pia De Vito e l’improvvisazione serrata del piano di Huw Warren interagiscono in un repertorio gravido di orpelli e di slanci un po’ naif, ma di assoluta brillantezza interpretativa. «Diàlektos», la loro recente produzione discografica, sa gradevolmente spartirsi tra Napoli e il Brasile, tra una poesia (opportunamente musicata) del principe De Curtis, uno spartito firmato da Rita Marcotulli (“Miguelim”), l’immensa Beatriz (di Edu Lobo e Chico Buarque, ma interpretata da Milton Nascimento ne «O Grande Circo Místico») e altre cose ancora. «Diàlektos – sottolinea la vocalist partenopea – è la lingua specifica di ogni popolo, ma significa anche dialogo, conversazione, articolazione della parola. Per noi, però, significa anche improvvisazione». Ovvero, il segno distintivo di un progetto nato su Myspace. O quasi. «E sì, perché io e Huw ci siamo incontrati un paio di anni fa, dopo esserci scambiati opinioni e complimenti sulla strada virtuale del web. Anzi, proprio su Myspace ho ascoltato la sua musica, che mi ha immediatamente rapita. A quel punto, dopo aver ricevuto un invito in Inghilterra, al festival di Appleby, mi sono presentata al suo fianco». Ben fatto. E approvato.

Livio Minafra (pianoforte)

Maria Pia De Vito (vce) & Huw Warren (pianoforte)

Capurso, Chiostro della Reale Basilica
Multiculturita Summer Festival 2009

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

lunedì 25 maggio 2009

Dischi - Ricordando Fats

Il jazz tradizionale è uno dei canali preferenziali di Fo(ur), l’etichetta indipendente barese che gravita attorno all’attività de Il Pentagramma, la scuola musicale ideata e gestita da Guido Di Leone. La riproposta di un repertorio diciamo pure datato, perciò, non va affatto considerata come un episodio isolato. Soprattutto se gli interpreti che inseguono certi aromi e certi umori degli spartiti afroamericani vivono ed operano in Puglia. O, più specificamente, in Terra di Bari, quadrilatero che garantisce sempre buone idee. O, comunque, fermento musicale: che si traduce in progettualità, esibizioni live e, dunque, registrazioni in studio. E, appunto, dal quel quadrilatero arrivano il contrabbasso gentile e la voce roca di Michele Zonno, artista di rara sensibilità che, in pubblico, appare poco (meglio: meno di altri) e che, generalmente, si divide tra il dixie, i tributi ai grandi padri del jazz e il tango, che sicuramente non è un amore di scorta. Voce roca, dicevamo: volutamente impostata per braccare le asprezze esotiche di Armstrong. Come in un gioco, un gioco rispettoso. Perché, probabilmente, sono proprio il rispetto e la voglia di leggerezza a disegnare le coordinate di Don’t Misbehave, l’album che lo stesso Zonno, il trombettista Mino Lacirignola, Peppino Mitolo (al piano) e il chitarrista Umberto Viggiano hanno confezionato nello scorso mese di marzo (e, peraltro, già presentato ufficialmente nel capoluogo) con il robusto contributo di due ospiti perfettamente calatisi nella filosofia del disco (Paola Arnesano, alla voce, e Beppe Brizzi alle spazzole).
Don’t Misbehave, cioè “non comportarsi male”, ovvero un tributo alla figura del vocalist, del pianista e dell’organista (il primo, nella storia del jazz) Thomas Waller, scomparso negli anni quaranta, oppure una collezione di sedici tracce ben arrangiate che ripercorrono alcune tappe della carriera musicale e compositiva di Fats (“Ain’t Misbehavin’”, “I’ve Got a Feeling I’m Falling”, “Lookin’ Good But Feelin’ Bad”, “Black and Blue”, I’m Crazy Bout My Baby”, “Squeeze Me” e “Honeysuckle Rose”), alle quali si accodano brani di gusto e delicatezza come “Sweet Sue, Just You”, “I’m Gonna Sit Right Down and Write Myself a Letter”, “Dinah”, “Rockin’ Chair”, “Back Jumpin’”, “Sweet and Slow”, “Two Slepy People”, “I Can’t Give You Anything But Love” e “The Sheik of Araby”. «Fats – come sottolinea nelle note di copertina il leder del quartetto Michele Zonno – scrisse centinaia di “songs” per le commedie musicali che, all’epoca, venivano rappresentate ad Harlem. Persona simpaticissima, sempre ben disposta verso gli altri, a cui trasmetteva con entusiasmo il suo proverbiale buon umore, fu tra i primi a far suonare insieme bianchi e neri nelle sue formazioni». Diventando, così, personaggio non solo versatile e suggestivo, ma anche di indubbio carisma: un dettaglio che giustifica (anzi, consiglia) un omaggio discografico sentito, completamente realizzato all’interno degli studi de Il Pentagramma e dedicato all’Agebeo e agli Amici di Vincenzo, onlus che si occupa del sostegno pratico e psicologico ai familiari di quei bambini colpiti dalla leucemia.

Don’t Misbehave
Michele Zonno (voce e contrabbasso), Peppino Mitolo (pianoforte), Mino Lacirignola (tromba), Umberto Viggiano (chitarra). Guest Paola Arnesano (voce) e Beppe Brizzi (spazzole)
Fo(u)r, marzo 2009

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sabato 25 aprile 2009

Tecnica e sentimento

L’artista, di fronte al pubblico, è schietto e diretto. Di solida comunicazione, diremmo. E l’approccio al pubblico è semplice, genuino. La sua chitarra, invece, è persino esuberante. Ricca: di suoni, di accordi, di tonalità. Perché gioca sulla tecnica. E sui colori. Tecnica, certo: moltissima tecnica. Ma anche sentimento. Cioè piacere puro di offrirsi. Franco Morone, frentano di Lanciano, quattro anni dopo bussa nuovamente alla porta della Saletta della Cultura di Novoli, casa tradizionale della rassegna Tele e Ragnatele, longeva creatura di Mario Ventura, uno che ama tanto la musica e poco i confini culturali e musicali, pescando spesso e volentieri nel mare della canzone alternativa o di nicchia. E che, per questo, merita robusti tributi di stima.
Il progetto del concerto proposto da Morone è semplice: al centro c’è la chitarra, la passione per lo strumento, l’immediatezza del messaggio. Attorno, c’è la musica: tradizionale o blues, raccolta oppure originale, non importa. L’essenziale, dice, è che sia piacevole. Da ascoltare o da eseguire. Il percorso non possiede punti di riferimenti geografici. Il sipario si apre nella provincia padana, tra Parma e Piacenza. Lo spartito antico dedicato ai calderai (“Bigordino”), poi, conduce a Gallipoli, dove gli uomini di mare osservano il tramonto dagli scogli. E, quindi, ai piedi della Majella, oppure nelle campagne umbre e toscane (“Giovanottina” è una tarantella di quelle contrade), oppure – ancora – a Napoli. «Amo molto la musica popolare italiana. Che molti musicisti, peraltro, hanno spesso dribblato, evitato. Anche se, ultimamente, qualcosa è cambiato, in questo senso. Ma io ho cominciato suonando blues e pure rock. Il rock dei Rolling Stones. Amando i Beatles. E anche Keith Jarret. E mi sono avvicinato al jazz. Però, è il blues il mio primo vero amore. Il blues e, in generale, la musica tradizionale degli States. Del resto, la chitarra è l’ideale, per suonarla». E l’amore di un tempo è duro da dimenticare.
Morone suona (“Summer Time”, ad esempio) e parla di folk process, cioè della musica trasmessa oralmente da generazione in generazione, quella che si modifica nel tempo. O del fingerpicking, oppure dell’italian fingerstyle guitar, materie in cui può legittimamente distribuire anche consigli: basti ricordare i diversi manuali confezionati per gli esecutori di blues, regolarmente in commercio. Songs We Love, invece, è la sua ultima fatica discografica. Divisa equamente con Raffaella Luna, torinese dai lineamenti eleganti, voce matura e coraggiosa, compagna di vita e di avventura. Il duo attraversa l’album, riproponendo una ninna nanna di Barbara Higbie, “All the Diamonds” e “Plaisir d’Amour”, dirottando poi per “Crazy Bases”, uno swing. Senza dimenticare The Road To Lisdoonvarna, il penultimo cd prodotto. Non tutto, ma di tutto. Perché la musica non gradisce frontiere. E neppure vincoli. Il percorso, però, sta finendo. E occorre tornare. Tornare a casa: con una tarantella frentana, magari. Gli ultimi accordi, le ultime immagini, le ultime emozioni: Franco Morone saluta e va. C’è un seminario che lo attende il giorno dopo, a Santeramo. E, fa capire, è questo il senso: suonare, confrontarsi, spiegare.

Franco Morone (chitarra) & Raffaella Luna (voce)
Novoli (LE), Saletta della Cultura "Gregorio Vetrugno"
Tele e Ragnatele 2009

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martedì 17 marzo 2009

Non solo tango

Il nome della formazione (Tangaria) non inganni. Non c’è solo tango, dietro le note del quartetto di Richard Galliano, il francese di sangue italiano che – già da qualche tempo – si trascina il peso dell’eredità artistica di Astor Piazzolla. O che, se non altro, si lascia inseguire dall’ombra del mito del maestro di Baires: malgrado si schermisca, preferendo rifuggiarsi nella più comoda ansa della modestia. No, non c’è solo tango: certo, il tango appare, allieta e poi svicola veloce. Aprendo spazio, invece, a molta produzione propria, a qualche sprazzo di jazz e anche a una veloce conversione sull’altra faccia del Sudamerica: il Brasile di Asa Branca e di Luís Gonzaga, ad esempio. Tangaria è una formazione che riunisce individualità ed esperienze diverse, convogliate nell’unica direzione dell’eleganza interpretativa e saldamente ancorate allo charme e alle virtù del suo leader. E il tango è solo una della sue anime. Anche se, ad un certo momento, dalla platea del Teatro Orfeo di Taranto, il pubblico chiede (ed ottiene, per qualche secondo: Galliano è un professionista cortese, dentro e fuori dal palco) l’esecuzione della popolarissima Cumparsita, dichiaratamente avulsa dal contesto del repertorio e dalle linee del progetto. Ma tant’è.
Richard Galliano, Sebastian Surel (violino), Philippe Aerts (contrabbasso) e Rafael Mejías (percussioni) , ovvero la line-up su cui punta l’ennesimo appuntamento del cartellone approntato dagli Amici della Musica di Terra Jonica, confezionano un live leggero e sinuoso, rotondo e – non sembri una contraddizione – anche essenziale. Malgrado emergano alcuni inconvenienti (il contrabbasso, talvolta, non segue l’accordeon) e nonostante Galliano non si sforzi per mascherare i disagi impartiti dall’acustica. «Abbiamo viaggiato tanto, negli ultimi giorni. Troppi aerei: e, per chi deve esibirsi su un palco, non è il massimo. Poi, questa di Taranto è stata una serata difficile, proprio dal punto di vista dell’acustica. Del resto, le vibrazioni sono fondamentali, come l’interazione con il pubblico. Ma, alla fine, i problemi si superano ugualmente: conta l’universalità del linguaggio, no? E poi ogni concerto è diverso dall’altro. Per fortuna». Sicuro, maestro. Come è vero che conta la progettualità. «Chiaro. La progettualità deve combinare ed amalgamare i protagonisti. Prendete il nostro caso: il contrabbassista arriva dal jazz, il violinista si poggia su solide basi classiche, il percussionista è un venezuelano naturalmente forgiato dai colori e dagli umori della musica della propria terra. Ogni artista di questa formazione, dunque, ha portato qualcosa di sé: e il risultato è una sonorità che varca il confine degli stili. E, comunque, la vità è una collezione di progetti. E io, noi, di progetti ne abbiamo ancora tanti, davanti.».
Non solo tango, dicevamo. Anzi, molto altro: al di là del tango. Ma il tango è arte ed è anche magia. Galliano, senza accompagnamento, dedica alla gente il brano che non può (e che non deve) mancare. Quello che la gente si aspetta, Libertango. E Libertango significa Piazzolla. Maestro, non possiamo deviare. Ci tocca parlarne. E sappiamo anche che è consapevole di doverne necessariamente parlare. «Io erede di Piazzolla? Queste sono cose da giornalisti. Guardi, Piazzolla è, in realtà, il punto di riferimento per chi, come me e come tanti altri, coltiva la passione per la fisarmonica. Siamo tutti eredi di Piazzolla, questa è la verità. Ovvio, per me Piazzolla è stata la guida. Ed è stato un amico, innanzi tutto. Gli devo molto. E molti gli devono qualcosa». Anche noi, intanto, dobbiamo qualcosa a Richard Galliano: per un’ora e venti minuti di musica impregnata di buone idee e di garbo. E non solo di tango, transitato lieve. Senza scalfire, però, le emozioni. Quelle hanno diritto di cittadinanza, sempre e comunque. Al di là della magia del tango: Piazzolla capirebbe.

Tangaria Quartet (Richard Galliano: accordeon e accordina; Sebastian Surel: violino; Philippe Aerts: contrabbasso; Rafael Mejías: percussioni)
Taranto, Teatro Orfeo
65ma Stagione Concertistica dell’Associazione “Amici della Musica Arcangelo Speranza”

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mercoledì 11 marzo 2009

Fiorella non tradisce mai

Intendiamoci: Il Movimento del Dare non è, complessivamente (e, ribadiamo, complessivamente) il disco più profondo di Fiorella Mannoia. E neppure il meglio riuscito. O il più originale. Ed è anche il meno intellettuale, nell’accezione più ampia del termine. Malgrado almeno un paio di tracce di sicuro livello. Probabilmente, l’ultimo album, sul mercato discografico dal novembre dell’anno trascorso, non occuperà un posto nella storia della cantante romana. Né nell’ideale raccolta preferita dei suoi sostenitori più affezionati. Magari perché non è poi così scontato confermare puntualmente lo spessore qualitativo della produzione. O forse perché, dentro Il Movimento del Dare c’è abbastanza (o molto) pop: che segna una soluzione di continuità dall’impronta cantautoriale degli album precedenti. Attorno ai quali, appunto, si forgia la storia della Mannoia.
Però, Fiorella è ancora Fiorella. E la sua musica, al di là delle modalità, è sempre impregnata di qualità: interpretativa, quando non anche compositiva. E poi Fiorella non tradisce mai: perché tutto, dal suo microfono, prima o poi finisce per convincere. Sarà per la sua grazia naturale. O per la passione dell’impegno: professionale e sociale. O per l’intensità di quello che canta. O che racconta. Per l’arte di comunicare. E per la semplicità con cui cuce il rapporto: con la platea, con la musica, con le storie di vita quotidiana. Tranquilli: non è un passato (prossimo e remoto) baciato dal successo e il fascino intatto di quest’eterna ragazza a condizionare il pensiero. E non è vero neppure che Fiorella Mannoia debba necessariamente godere di immunità illimitata. Quello che interpreta, però, si valuta puntualmente. Anzi, si ipervaluta. E quel che potrebbe diventare, diventa. Sempre. Fiorella è come un fiume, che lava tutti i dubbi, se i dubbi affiorano.
Il Movimento del Dare, però, è un disco che si fa notare. Dicevamo della svolta in chiave pop. Ma c’è pure dell’altro: innanzi tutto, firma il ritorno di Fiorella all’esecuzione di tracce (dieci, per la precisione) inedite. Dopo sette anni, consumati a riproporre vecchie situazioni dal vivo oppure, come accaduto più recentemente, belle pagine di musica sudamericana, opportunamente tradotte e riarrangiate. Di più: l’ultima fatica discografica consegna una Mannoia che offre la voce a testi di autori mai interpretati, sin qui. Come Ligabue, che in tempi non troppo lontani aveva dedicato il proprio tempo ad un cantautore di culto e di lunga militanza qual è Guccini. Oppure come Bungaro e Tiziano Ferro. Riproponendo, nel contempo, spartiti di vecchi amici come Ivano Fossati e Pino Daniele: diventando un trait-d’union tra ciò che è stato, quel che è e ciò che, un giorno, potrà essere.
L’album , allora, merita un tour: che pasa anche dal Teatro Nuovo di Martina. Dove lei – ci mancherebbe – non evita di accedere corposamente al suo repertorio più celebrato, destinandogli – anzi – un taglio alto. In vestito bianco, a coda, apre con la realistica Io Posso Dire la Mia Sugli Uomini, di Ligabue, che poi è il motivo che inaugura il nuovo disco. Sùbito dopo, però, è il tempo di Mimosa, di Nicolò Fabi («Non la cantavo da un po’ di anni», dice), di Sally, della delicata e fossatiana C’è Tempo, di Come Si Cambia e di E Penso a Te, omaggio vibrante a Lucio Battisti («Ho deciso di mettere a dura prova le emozioni», fa sapere). E’ scalza, Fiorella: alla maniera di Cesária Evora. O, se volete, di Maria Bethania. Fino a Che Non Finisce, di Bungaro, Il Movimento del Dare (di Franco Battiato e Mario Sgalambro) e Il Sogno di Alì, di Piero Fabrizi, arrivano appena più tardi, a chiusura della prima parte del concerto, in cui arrangiamenti ed atmosfera sono assolutamente curati, sobri, eleganti. E in cui emerge ostinata la forza di porsi ancora delle domande: «Mi chiedo se questo è il progresso e se questo è il mondo che volevamo, dove il silenzio e l’indifferenza uccidono due volte».
La seconda parte è più informale. Fiorella passa dal bianco al nero, dai pieni nudi agli stivali scamosciati. L’approccio di Oh Che Sarà è esclusivamente vocale. Poi, un vecchio rap impegnato di Jovanotti (Occhio Non Vede, Cuore Non Duole) chiede un’introduzione accorata («Viviamo in una bolla di rassegnazione e la sensazione è che i giochi siano già stati fatti, e la politica c’entra relativamente. C’è un disegno che ci vuole rassegnati: ma chi è questo nemico planetario, chi c’è dietro questa crisi globale, chi la manovra, chi ci guadagna?». La Bella Strada di Fossati e Il Re di Chi Ama Troppo di Ferro riconducono al disco da presentare; Giovanna D’Arco di De Gregori, Il Cielo d’Irlanda, I Treni a Vapore e Il Tempo Non Torna Più sono tributi al passato. Fiorella non dimentica nappure De Andrè, a dieci anni dalla scomparsa dell’auore genovese. E, infine, chiude «con quella che è la Canzone», cioè Quello Che le Donne Non Dicono, incalzata da una Buontempo in versione latin e da Clandestino di Manu Chao, interpretata anche in platea, a contatto con il pubblico. La Mannoia è tornata. Con un disco nuovo e l’intensità dei giorni più belli. Fiorella è ancora e sempre Fiorella. E non tradisce mai.

Fiorella Mannoia (voce e percussioni), con Fabrizio Leo (chitarre), Roberto Gallinelli (basso), Luca Scarpa (pianoforte), Bruno Giordano (tastiere e sassofoni), Marco Brioschi (tromba e flicorno), Lele Melotti (batteria) e Carlo Di Francesco (percussioni)
Martina Franca (TA), Cineteatro Nuovo

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mercoledì 4 marzo 2009

Una di quelle strane occasioni

La musica senza recinti è una miscela senza schemi. E quello che esce è una situazione di frontiera: tra gli stili, i patrimoni musicali di ciascuno e la fantasia che li sorregge. Che può adombrare i puristi dei generi, oppure solleticare il pubblico. Forse solo perché il già sentito e il già visto sono negli archivi mnemonici: e l’aria nuova stimola sempre. Oppure perché la commistione, se suffragata da un progetto fondato e convincente nella sostanza, sa inevitabilmente regalare qualche emozione. Questa volta interagiscono la tradizione delle bande dell’area balcanica (ormai largamente gradita, nelle platee del Paese: e le esperienze recenti di Goran Bregovic e della sua originalissima formazione incoraggiano le proposte), il flusso delle tonalità di matrice popolare e, ovviamente, l’inventiva personale, cioè le intuizioni di interpreti ormai abituati al palco e alle evoluzioni sonore. Per i quali, oltre tutto, parla saggiamente il curriculum. O, se preferite, le storie pregresse. Questa volta viaggiano assieme la Koçani Orkestar, ensemble macedone che calca i palcoscenici italiani con regolarità da qualche tempo, il trombettista Paolo Fresu (musicista di culto che può permettersi di esplorare nuovi spazi e allacciare nuove alleanze e che, soprattutto, non fallisce mai un progetto) e Antonello Salis, animo libero che recentemen te abbiamo ascoltato a Latiano, da solo, e nella circostanza debilitato da un malanno muscolare. Quindi, privato di parecchia verve, ma non per questo meno incisivo. Tutti assieme, appassionatamente, all’Orfeo di Taranto, in uno degli appuntamenti firmati dall’Associazione Amici della Musica “Arcangelo Speranza”, alla sua sessantacinquesima rassegna.
L’evoluzione dell’esibizione sembra non possedere regole, né conoscere barriere. Il tessuto sonoro fluttua tra l’etnico e il jazz, tra il popolare e la musica contemporanea dettata dal pianoforte di Salis, i cui arrangiamenti curano atmosfere più dettagliate. Fresu è un incursore spigliato che s’insinuia nell’improvvisazione globale. E gli undici elementi della Koçani Orkestar (molto maturati, con il tempo) si agitano versatili tra melodie della tradizione balcanica e composizioni più occidentali (apprezzabilissima, tra le altre, la versione de «Il Bombarolo», uno degli spartiti del De Andrè più impegnato, agli inizio degli anni settanta). «Non solo – aggiunge Paolo Fresu -. Personalmente, mi sono accorto delle affinità che collegano certe tematiche dell’est alla musica popolare della mia regione, la Sardegna. E, allora, ci siamo divertiti a scoprire come due mondi apparentemente così diversi siano in realtà molto più prossimi di quanto si possa supporre. Proprio perché è la musica ad avvicinarli. Per esempio, in questa breve viaggio attrraverso l’Italia, maturato a Milano, Bologna e Taranto, abbiamo riproposto un antico ballo sardo, opportunamente riarrangiato. Divagando anche oltre». Per quasi due ore, frizzanti e toniche. «E malgrado l’insolita tranquillità di Antonello. Mai visto, così – spiega Fresu - . Conseguenza di un colpo duro avvertito ventiquattr’ore prima. Problemi di stagione, càpitano». Anche per questo, dopo il concerto, insolita deviazione per l’albergo. E neppure un calice di rosso robusto, per sigillare la serata. E una di quelle strane occasioni. «E sì, cose che càpitano». Ma che non intaccano l’atmosfera di festa, proseguita per un quarto d’ora abbondante, a live già ufficialmente concluso. In mezzo alla gente, dove la Koçani ha sfilato, suonando ancora. Per ringraziare. E per recuperare gli ultimi applausi. Ampiamente guadagnati.

Paolo Fresu (tromba e flicorno), Antonello Salis (pianoforte) & Koçani Orkestar (Ajnur Azizov: voce; Suad Asanov: basso tuba; Redzai Durmisev: tuba baritono; Sukri Zejnelov: tuba baritono; Nijazi Alimov: tuba baritono; Dzeladin Demirov: clarinetto; Durak Demirov: sassofono; Turan Gaberov: tromba; Sukri Kadriev: tromba; Vinko Stefanov: fisarmonica; Saban Jasarov: tapan)
Taranto, Teatro Orfeo
65ma Stagione Concertistica dell’Associazione Amici della Musica “Arcangelo Speranza”

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sabato 31 gennaio 2009

Le note guascone di Antonello Salis

L’esecuzione nervosa, i toni intensi, l’interpretazione fortemente personale, il look assolutamente informale (anzi, scientificamente trasandato), il sound marcato, la bandana irriverente, l’improvvisazione spaziosa, il pianismo ampio e fertile, l’orizzonte aperto, il temperamento istrionico. Antonello Salis è questo. Non da adesso. E questo è il suo modo di essere, di sentire. La musica e la vita. Questo è Antonello Salis e questo è il suo mondo. E questa è anche ogni sua esecuzione dal vivo: un incrocio di note libere e divagazioni colorite. Una mescolanza di provenienze musicali e di ritmi, centrifugati in un repertorio che può apparire caotico. E che, probabilmente, lo è davvero. Che, in realtà, non possiede confini certi: soprattutto perché non li cerca. Ma che trascina ugualmente un certo appeal. Dentro un programma che riserva composizioni erudite e meno ponderose, passaggi arditi, momenti leggeri e guasconerie assortite.
Antonellis Salis è un po’ così: bruscamente genuino, genuinamente estroso. Quando si inchina teatralmente al pubblico e all’omaggio floreale riservatogli dall’associazione Aurora, curatrice della rassegna in cui il concerto viene ospitato, al Teatro Olmi di Latiano. Quando gioca con lo sgabello, trait d’union tra il pianoforte e la fisarmonica: gli strumenti di sempre, tra i quali continua a dividersi. Con devozione assoluta. Quando accompagna uno spartito con i gargarismi. Oppure, quando affida le sonorità della tastiera alle corruzioni artificiali di una busta o di una bottiglia di plastica. E, ovviamente, quando esegue: una suite di mezz’ora (con il pianoforte), un’altra di venticinque minuti (con la fisarmonica) e altri brani di contorno.
Non ama commentare la sua musica, Salis. Parte, si lascia trasportare, viaggia veloce e arriva. Alla fine della serata, poi, dimostra di conoscere anche l’arte dello schermirsi e ringrazia la gente sistemata in platea per la prova di «resistenza umana». Tutto fa spettacolo e l’artista di Villamar lo sa bene. Ma è già forte l’impressione di un’esebizione dall’impatto robusto: e quella basta, da sola. Più delle parole, della gestualità e del pedigrée personale, già consacrato e ultimamente accresciuto con il premio Top Jazz 2008 quale migliore strumentista italiano alle tastiere. Attestazione che, di fatto, niente di più certifica e niente modifica nel tragitto artistico di un autodidatta cha ha saputo veleggiare dal rock alla musica etnica, transitando autorevolmente per l’universo del jazz, pur senza sentirsene mai parte ingrante. In ossequio a quel concetto di infedeltà puntualmente vantato con divertita guasconeria.

Antonello Salis (pianoforte e fisarmonica)
Latiano (BR), Teatro Olmi
I Concerti di Aurora

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