martedì 7 agosto 2007

Dalla memoria necessaria al futuro possibile

E' vero: nell’immaginario collettivo la storia e la musica degli Inti Illimani si raggomitolano alle date, alle situazioni. Al momento storico e alla brutalità di un regime, alle pieghe dolorose di un Paese. Musica e storia sopravanzate dagli accadimenti sociali e politici che hanno spazzato la paura, la repressione, i progetti di riconquista, gli istinti della rivoluzione. Accadimenti indissolubilmente legati al passato prossimo di una terra (il Cile) e, in generale, di un continente (il Sud America) in bilico eterno tra lotta e sofferenza. E, soprattutto, dipendenti da anni oscuri e da un'afflizione pesante. Ma quel Cile sanguinario di Pinochet non esiste più e non esiste più neppure la sua criminale negazione di qualsiasi diritto personale. E, sulla Moneda, ora sventola la democrazia al femminile targata Bachelet. Sì, quei tempi sono un incubo mal cicatrizzato: eppure andati. E, con essi, si è sbiadita tutta una letteratura. Della quale la produzione degli Inti Illimani fa parte legittimamente. Come un certo movimento musicale degli anni settanta o l'eterna figura di Victor Jara.E’ vero: quel gruppo di impavidi (anche se, della formazione originaria, sono rimasti in tre) si trascinava con dignità il peso di una storia e degli anni, ma anche l'ammirazione di una parte (schierata) di una generazione: che, trentacinque anni fa, avrebbe voluto modificare e plasmare il mondo, guadagnando - in cambio - troppe disillusioni. Alla quale, però, le canzoni degli Inti Illimani rievocavano ancora travagli e passioni, barbarie e resistenze. E producevano ancora emozioni. Una parte di una generazione che, molti anni dopo, popolava testardamente i loro concerti, alzando quel pugno sinistro e rincorrendo le strofe di rabbia, lacerate dal tempo. Perché vibrava ancora qualcosa, di fronte a quelle note, a quelle parole. Perché quella storia pulsava sempre e quella febbre continuava a crescere. Non era solo la nostalgia, ad agitarsi. C'era, piuttosto, una forza viva che proseguiva a sgomitare: e ogni esibizione dal vivo della formazione cilena, rifugiata in Italia negli anni della dittatura, abbatteva il muro dell'archeologia ideologica e i vincoli temporali. Rafforzandosi di energia propria, vivida, sempre giovane. Difficile spiegarlo, difficile crederlo: ma la tensione, neppure troppo tempo fa, era fresca e si arrampicava possente. E quella musica sapeva trascinare come prima: chi, trentacinque anni fa, viveva la quotidianità degli eventi e anche chi non c'era ancora. Ma il tempo passa. E qualcosa cancella, obbligatoriamente. Gli Inti Illimani hanno già deciso di varcare l’epoca. Sentite Horácio Durán, il leader del gruppo: “La nostalgia è un brutto sentimento, quando diventa sociale. E la nostra formazione deve rappresentare un ponte tra la memoria necessaria e un futuro possibile. Ormai siamo un ottetto multigenrazionale: fra di noi c’è chi è nato dopo il golpe, dopo i primi vagiti del terrore. E, soprattutto, non vogliamo essere il museo di noi stessi: ma un’espressione di un continente molto vivo”. Allora, il progetto si ammoderna, si trasfigura, si allarga. Cambia. Differenziando il passo, mutando tratti somatici. Quello che è stato, è stato. Dopo, c’è altro. La frase magica (“el pueblo unido jamás será vencido”), con la musica che le ruota attorno, resta un tributo doveroso, al quale è impossibile sottrarsi, ma solo a fine concerto. E un tributo al passato è anche “Rin del Angelito”. Due rarità, ormai. Il repertorio attuale, proposto a Martignano, è però assolutamente nuovo e, sostanzialmente, taglia i rapporti con il retroterra emozionale. Proiettando un live ben curato, sobrio (anche troppo), ricco di motivi attinti dal patrimonio tradizionale sudamericano, vicinissimo al concetto di world music. Eppure lontano dai sentimenti partoriti un tempo e dalle scenografie già viste e vissute. In una parola, raffreddato. Forse anche per la scelta (lodevole, ci mancherebbe) della locale amministrazione comunale di sistemare davanti al palco un numero consistente di sedie: se non altro, per celebrare degnamente il ventunesimo compleanno di Piazza della Repubblica, la location dell’evento che, proprio dagli Inti Illimani, fu inaugurata nel 1986. Ma un concerto come quello del gruppo cileno, correggeteci se sbagliamo – andrebbe vissuto in piedi, popolarmente. Come, riteniamo, sia sempre accaduto, dovunque. E’ il nuovo corso, gente. Occorre guardare avanti. E cade, probabilmente, un altro mito. Certo, dentro la nuova storia c’è ancora il legame forte con le proprie radici. C’è la cultura dell’appartenenza, l’orgoglio, il sentimento, una certa leggerezza che accomuna tutti gli artisti sudamericani, il gusto di proporsi, una giovialità naturale. Gli Inti Illimani si divertono ancora. Affacciandosi deferentemente sull’Italia che li ha protetti, salvaguardati e, forse, anche incoraggiati: “Buonanotte Fiorellino” di De Gregori e una versione interessante della tarantella sono, del resto, due maniere di esprimere la propria gratitudine verso un popolo che hanno sentito e sentono sempre amico e di prepararsi il cammino verso il futuro possibile. Due maniere per non dimenticare che la loro musica non possiede frontiere, perché mai le ha possedute. Anche quando la formazione, alla fine degli anni sessanta, si costituì, confrontandosi con i canti popolari boliviani. Da allora, sì, il tempo è passato in fretta, infilandosi nello sconvolgimento dei costumi e nella frenesia dei rinnovamenti del ventesimo secolo. E’ passato, cancellando qualcosa. E’ il nuovo corso, gente. E gli Inti Illimani, persino loro, si adeguano. Il tempo è andato. Lasciando, sul fondo, uno strato di tristezza.

Inti Illimani
Martignano (LE), Piazza Della Repubblica

(pubblicato sul sito www.levignepiene.com)