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lunedì 25 luglio 2011

Il Mediterraneo di Echoes


Capire il progetto Echoes è un’operazione che passa anche spigolando attraverso le inclinazioni e le esperienze personali di ciascun protagonista della formazione. Adolfo La Volpe, ad esempio: il chitarrista, uno dei più eclettici della sua generazione, è da sempre profondamente legato al filone colto della musica etnica e, più in generale, a certe tonalità più speziate che si affacciano in un universo senza confini. Un universo che attinge in ogni contrada e in ogni porto, ad oriente ed occidente. Oppure Vittorio Gallo, di estrazione più jazzistica, temprato da collaborazioni suggestive, che ama spesso misurarsi con partiture free o al di fuori di certi schemi prestabiliti, dedicandosi a commistioni anche ardite, comunque gravide di una variegata gamma di soluzioni artistiche. Servendosi, perchè no, di strumenti a fiato assemblati in maniera assolutamente artigianale e singolari. Oltre a quelli più tradizionali: da suonare, magari, due per volta, allo stesso momento. Oppure, ancora, Vito Laforgia, un contrabbassista che arriva da repertori decisamente jazzistici, ma anche da un ambito musicale più classico e che ora si ritrova a ricucire le diverse anime del gruppo. E, infine, il percussiosta Francesco De Palma, segnato da un percorso che pianta le radici in un humus dichiaratamente più popolare, come può facilmente testimoniare un curriculum che tiene conto della militanza nei Radicanto, giusto per fare nomi.
Ma, per capire il progetto Echoes, è pure necessario soffermarsi sulla composizione di un gruppo pronto ad allargarsi con la complicità di un paio di ospiti: perchè l’esibizione, talvolta, è una combinazione di note e disponibilità. Altrui (location, budget) e proprie (una data che si sovrappone oppure no ad altre, di differenti gruppi: perchè ognuno coltiva altre situazioni e si adatta in residenze diverse). E, così, se ad Alberobello (la settimana prima) il quartetto si presenta più asciutto e anche meno legato dai vincoli delle sinergie, a Noci – all’interno del Chiostro di San Domenico – si aggiungono il sassofonista (e, da un anno, anche flautista) Fabrizio Scarafile e il pianista Francesco Fornarelli (nota di servizio: da non confondere con Kekko). L’Echoes Special Six, con un solo pomeriggio di prove, si concede così qualche sonorità più marcata e più jazzistica, mettendo da parte, probabilmente, qualche atmosfera consegnata al pubblico nell’occasione precedente. Il prodotto, tuttavia, continua a nutrirsi ugualmente di una forte vivacità interpretativa, partendo dalla base di una composizione solida, strutturata, spessa. Sfumature (visto che ci siamo, approfondiamo: più delicate e intense con il quartetto), intrecci sonori e proposte coraggiose convivono in bilico tra stili vicini e lontani, guardando con interesse all’intero vaso comunicante del Mediterraneo, che ospita culture e patrimoni artistici popolari e sofisticati assieme.
Alla produzione originale (un paio di brani, "Sincopatia" e "Il Passo del Geco", sono composizioni di Vito Laforgia) si affiancano testimonianze della tradizione sufi o di quella yiddish, ma anche riproposizioni di spartiti firmati da Abdullah Ibrahim, John Zorn o persino da Arcangelo Corelli ("Sarabanda", pezzo del settecento, è appositamente rivisitato per i giorni nostri). Il differente cammino dei due sassofoni, poi, non intralcia nè Gallo, nè Scarafile (in Italia per un po’, prima di rientrare a Madrid e di proseguire il tour sudamericano al fianco di Jorge Drexler Prada, uno dei cognomi importanti della musica uruguayana), nè il progetto comune, che si alimenta di umori e ricerca, di improvvisazioni e rigore. Come nella migliore tradizione della musica di nicchia che arricchisce da un po’ di anni questa terra di Puglia.

Echoes Special Six (Adolfo La Volpe: chitarra e oud; Vito Laforgia: contrabbasso; Francesco De Palma: percussioni; Vittorio Gallo: sax tenore e sax soprano; Fabrizio Scarafile: sax tenore e flauto; Francesco Fornarelli: piano)
Noci (BA), Chiostro della Chiesa di San Domenico

sabato 4 giugno 2011

Bari in Jazz, una residenza per cominciare


Il quartetto nordico di Tomasz Stanko, James Taylor, Bojan Z e la reunion coordinata da Mauro Gargano, i Blues Breakers Renewed, il quintetto di Sylwester Ostrowsky e Piotr Wojtasik, Cuong Vu e l’Apulian Orchestra, Anthony Joseph, il trio di Blake Allison Drake, la Cosmic Band di Gianluca Petrella: il cartellone duemilaundici di Bari in Jazz offre il meglio che la ricerca last minute del suo direttore artistico Roberto Ottaviano è riuscita a selezionare. La kermesse targata Abusuan (quindici concerti in quattro date, dal ventotto giugno al due luglio) è già vicina. Come sempre, dislocata in diverse location (il Teatro Piccinni, piazza del Ferrarese e l’Auditorium della Vallisa) e, come sempre, aperta anche ad espressioni autenticamente pugliesi quali i Camillorè (gruppo che, peraltro, si allontana dai canoni del jazz), l’Hocus Pocus Quartet di Gianni Lenoci, il quartetto di Rino Arbore, la band di Dario Skepisi, la Reunion Platz di Michele Giuliani e la tribù di Raffaele Casarano, che propone Argento, la sua ultima fatica discografica.
La settima edizione del festival, però, propone altri due episodi fuori programma. Uno, quello di chiusura, è assolutamente pregiato: il tredici ottobre si esibisce Wayne Shorter, leggenda vivente che, in Puglia, costituisce uno degli appuntamenti musicali più attesi dell’intero anno. L’altro, invece, è l’antipasto che lo stesso Ottaviano si è ritagliato per sé e per un plotone di amici (il contrabbassista Giorgio Vendola e il trio olandese dei Boi Akih) nella chiesa di Santa Teresa dei Maschi. Greencard (è questo il nome del progetto) è, innanzi tutto, il prodotto sgrezzato di una reunion, il frutto più immediato della residenza incoraggiata da Puglia Sounds, che affianca nel lavoro quotidiano di Bari in Jazz 2011 il Centro Abusuan, e dell’ambasciata dei Paesi Bassi in Italia, in collaborazione con il programma Dutch Italian Music Exchange e il Performing Art Fund. Lavoro che, prossimamente, la formazione presenterà nei festival di Amsterdam, Rotterdam ed Utrecht. E che, nello specifico, si incarica di riassumere l’incontro tra il patrimonio musicale di terre lontane (le Molucche, suolo d’origine della voce del gruppo, Monica Akihary), gli umori e i sapori della musica etnica e, infine, la storia del jazz di matrice europea, oggi particolarmente attirato dalla contaminazione e stimolato da una sete di modernità travolgente.
Dalla commistione, peraltro, esce un concerto dai contorni cameristici, non eccessivamente terragno, dove vocalizzazioni e scat offrono la sponda a un lavoro delicato e ad un sound di gradevole raffinatezza, che viaggia attraverso molteplici linguaggi, sfiorando talvolta anche il free jazz. Monica Akirahy possiede molta tecnica, voce plastica e modulata. Gli oggetti sonori di Sandip Bhattachraya sussurrano, ma offrono densità. La chitarra di Niels Brouwer si muove tra mille atmosfere, trasformandosi spesso in strumento di percussione. I sassofoni di Roberto Ottaviano, artista dalle intuizioni argute (non ricordiamo un solo progetto fallito), entrano nel tessuto del live con robustezza e il contrabbasso dosato di Giorgio Vendola unisce le varie anime della formazione. «Tutto nasce – fa sapere Ottaviano – da uno scambio di registrazioni: Monica e il suo gruppo hanno avuto la possibilità di ascoltare Pinturas, un recente lavoro realizzato a mio nome, e noi abbiamo valutato i loro primi due album. E, infine, ci siamo incontrati due giorni prima di esibirci, provando proprio all’interno di Santa Teresa dei Maschi. Del resto, è da tempo che cercavamo di confezionare una residenza come questa: che, di fatto, è l’esperienza d’esordio».
Il resto, dicevamo, sta per arrivare. In coda alle solite difficoltà di percorso e tra qualche venatura polemica. «Questa – puntualizza lo stesso Ottaviano – è un’avventura nata alle piscine comunali, sette anni fa. Da allora, si sono sviluppate situazioni differenti, con le quali il festival è cresciuto, nonostante i tempi difficili che la cultura e, quindi, anche la musica hanno dovuto affrontare. Ritengo, tuttavia, che gli sforzi e l’attenzione verso questa idea non debbano attenuarsi. Anzi. Bari in Jazz non può più essere considerato come il frutto dell’impegno di un’associazione culturale come Abusuan, che si avvale dell’affiancamento di alcune istituzioni e di uno sponsor importante. La progettualità, invece, necessita di nuove risorse, più robuste. Parlo per quel che mi riguarda: un direttore artistico di una manifestazione di livello non può limitarsi a concentrare le proprie energie sui last minute, né preoccuparsi di sforare il budget di mille euro. Un festival non può e non deve accontentarsi su situazioni di ripiego, ma nutrirsi di una propria identità, anno dopo anno. Arricchendosi, se possibile, di momenti di incontro che valorizzino i concerti e che seguano i suggerimenti che arrivano dal resto del Paese e pure dall’estero. Lavorando, cioè, in anticipo con i tempi: dunque, con un budget prestabilito e solido». Limpido, inequivocabile. Ma, oggi, persino utopistico.

Roberto Ottaviano (sax soprano e sopranino), Giorgio Vendola (contrabbasso) & Boi Akih (Monica Akihary: voce; Niels Brouwer: chitarra; Sandip Bhattachraya: percussioni) in “Greencard”
Bari, Chiesa di Santa Teresa dei Maschi
Bari in Jazz 2011

venerdì 10 novembre 2006

Intrecci suggestivi

Antiphonae 2006, atto secondo. Con due protagonisti già stabilmente accreditati sulla scena nazionale. E una trama niente affatto convenzionale. Perché inusuale (e suggestivo) è l’intreccio tra un pianoforte e un bandoneón. Lì, nel mezzo del palco, quello dell’Auditorium Comunale di Locorotondo: strumenti di stuzzicante convivenza, oltre tutto senza ulteriore accompagnamento. Evidentemente, però, l’esperimento può azzardarsi. E riuscire. Arricchendo la lista dei significati della rassegna, partita ad ottobre con il live dei Talea e ormai all’ottava edizione. Il piano è tra le mani di Rita Marcotulli, versatile quarantasettenne romana, jazzista della seconda ora (l’approccio con la musica è legato, piuttosto, alle sonorità sudamericane), ma assolutamente stimata. E non solo in Italia o in Svezia, dove ha vissuto e sperimentato. La cura del bandoneón, invece, è affidata a Daniele Di Bonaventura, marchigiano di Fermo, compositore di estrazione classica, eppure affascinato e contagiato dalle atmosfere di molti angoli di mondo (Argentina, innanzi tutto) e da progetti differenti tra loro (qualcuno, forse, ricorderà la collaborazione con Francesco Guccini nell’album «Ritratti», del 2004). L’alchimia partorisce un risultato arioso, cioè un concerto di facile assorbimento, che svicola senza intoppi, che si sparge senza frizioni, confezionato con leggerezza. Malgrado il prodotto custodisca una certa impronta classica, lasciando qualche metro di distanza dall’interpretazione jazzistica. E dove, comunque, la Marcotulli e Di Bonaventura provano a mescolare stili e preferenze, cercando soluzioni nuove. E senza oscurarsi (e togliersi spazi) a vicenda, ma compensandosi. Il repertorio è ispirato a musiche popolari raccolte un po’ ovunque. Canto alla Terra diventa così l’occasione buona per divagare tra la geografia e la musica, con eleganza, forma e sostanza. Ovvero un percorso sonoro che oltrevalica le terre conosciute, raggiungendo luoghi in cui le radici musicali riemergono con vigore. Affidandosi a brani originali (come “Just Feel”, tratto da «Koiné», del 2002, già eseguito dall’israeliana Noa, che – anzi - l’ha dirottato su un proprio album) e successi altrui, riarrangiati e riadattati. Tutti frutti di un progetto recente, proposto a Locorotondo per la seconda volta assoluta (il debutto è avvenuto ad aprile, a Pedaso, nelle Marche), come Rita Marcotulli sottolinea, lasciando trasparire un alone di orgoglio. Ma anche di un progetto fresco e impegnato, sentito: che va a collocarsi in fondo alla lista delle diverse esperienze della pianista, molto spesso rapita dai richiami del cinema o della letteratura o della poesia. E sempre pronta a ispezionare nuovi sentieri: come dimostra la prossima data pugliese, quella del 15 dicembre, quando al Teatro Paisiello di Lecce dividerà il palcoscenico di Jazle 2006 con il sassofonista britannico Andy Sheppard. Assieme al quale, detto per inciso, sta per pubblicare un nuovo lavoro, diretta conseguenza di un’intesa musicale datata già un paio d’anni.

Rita Marcotulli (pianoforte) & Daniele Di Bonaventura (bandoneón)

Locorotondo (BA), Auditorium Comunale

Antiphonae 2006

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

sabato 28 ottobre 2006

Tra i Balcani e il jazz

La seconda vita di Antiphonae abita a Locorotondo, nella raccolta – ed evidentemente più accogliente – cornice dell’Auditorium comunale. E sì, perché il punto della questione (o della discordia) era la casa. E i suoi affittuari. Il fatto è più o meno universalmente conosciuto: la rassegna jazzistica più longeva e interessante della provincia di Taranto si trasferisce. Anzi, emigra. Da Martina Franca, per sette edizioni sede tradizionale di un cartellone talvolta persino importante. Emigra: trascinando attriti, disguidi, incomprensioni e qualche spicciolo di polemica. Leggera, ma anche risentita. Consumando, di fatto, quella che era sembrata una minaccia. E che, invece, adesso è diventata realtà. Dunque: c’è un nuovo direttivo, quello dell’Associazione Antiphonae, creatice della kermesse, edificato sulle macerie del precedente, scioltosi polemicamente lo scorso inverno: se Martina non ci segue e l’Amministrazione Comunale non ci ama – dissero i protagonisti - abbassiamo la saracinesca. C’è un nuovo presidente (Caterina Mutinati invece di Pasquale Mega) e c’è una nuova piazza (oltre provincia, appena sei chilometri più in là, dove si sono concentrate più attenzioni e qualche aiuto economico e logistico, particolarmente gradito). E c’è, ovviamente, anche un nuovo programma: più limitato (la recessione, del resto, non si cancella facilmente, neppure cambiando indirizzo), eppure dignitosissimo. E, complessivamente, godibile: malgrado qualche nome - Javier Girotto, ad esempio - già visto e ascoltato la scorsa stagione (cambia, però, il progetto) e nonostante il massiccio impiego (ma chi ha detto che possa rappresentare un problema?) di musicisti pugliesi. Ai quali, peraltro, in passato la rassegna non ha mai fatto mancare il sostegno, cioè la visibilità e il cachet. E, allora, la prima pietra miliare dell’esilio di Antiphonae, ancora saldamente martinese nelle sue radici e nella composizione del direttivo, si chiama Talea. Il gruppo, ultimamente riemerso sui palcoscenici dopo il debutto (positivo) di qualche anno addietro e un periodo contraddistinto da una minore frequenza concertistica, apre un cammino che, di qui a dicembre, sarà percorso anche da Rita Marcotulli, Daniele Di Bonaventura, i Córdoba Reunión, il già citato Javier Girotto, Raffaele Casarano & Locomotive, il Vertere String Quartet e l’Antonio Dambrosio Ensemble. Primo appuntamento dai larghi orizzonti, verrebbe da dire. Perché l’idea che sorregge la formazione (incrociare le sonorità dell’area balcanica alle esperienze jazzistiche di casa nostra) è buona, anche se ormai sfruttatissima, a tutte le latitudini. Un’idea che, però, si appoggia anche sulla consapevolezza di aver intrapreso il sentiero prima di altri, in tempi maturi, ma non eccessivamente sospetti. Riassumendo, le espresssioni vocali dense dell’albanese Meli Hajderaj e l’esperienza consumata dello slavo Hadnan Hozic (compagno di viaggio, per intenderci, di Cesare Dell’Anna in una formazione di culto come Opa Cupa) incrociano i sassofoni di Gaetano Partipilo (la provenienza è Cassano Murge, Puglia, Italia), il contrabbasso di Giorgio Vendola (barese, vicinissimo all’area di influenza di Mirko Signorile), la tromba del cistranese Giorgio Distante, il sax contralto di Alessandro Nocco, la batteria del cilentano Vincenzo Bardaro e le percussioni di Mario Grassi. Tutti, orfani, per l’occasione, del capobanda, Admir Shkurtaj, fisarmonicista albanese perfettamente integrato nel panorama musicale di queste contrade e bloccato da un problema di salute. Assenza, questa, che toglie qualcosa al prodotto finito, ma che tuttavia non lo svilisce: elemento utile, però, a dimostrare la solidità del gruppo, malgrado gli imprevisti. Una solidità che, peraltro, non impedisce a nessuno di crearsi spazi corposi di creatività e di ritagliarsi applausi privati. Assoli (frequenti) a parte, il repertorio e le atmosfere sono profondamente balcaniche. Le incursioni e qualche interpretazione, invece, più specificamente jazzistiche. La commistione, di fatto, riesce a scaldare la gente e a infrangere le incertezze dei mesi passati a cercare soluzioni diverse e a inseguire nuove strategie. Perché, come sottolinea nella brochure di presentazione della manifestazione Caterina Mutinati, presidente dell’Associazione "Antiphonae", «nessuna edizione è stata più sofferta di questa. Solo un paio di mesi fa nessuno avrebbe più scommesso su di noi. Il risultato è qui, in questa rassegna che non doveva più esistere e che invece esiste ancora, ostinatamente e a dispetto delle crescenti difficoltà e del placido disinteresse che la cultura, a volte, incontra presso certe istituzioni». Traducendo, esserci è già una vittoria.

Talea Modern Balcan Project (Meli Hajderaj: voce; Hadnan Hozic: voce e chitarra acustica; Gaetano Partipilo: sax soprano e sax contralto; Alessandro Nocco: sax contralto; Giorgio Distante: tromba; Giorgio Vendola: contrabbasso; Vincenzo Bardaro: batteria; Mario Grassi: percussioni )

Locorotondo (BA), Auditorium Comunale

Antiphonae Jazz 2006

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)