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domenica 11 agosto 2013

Il Brasile del Locus

Il fascino del nome, quello di Jaques Morelenbaum, è molto più che sufficiente per invogliare appassionati, musicisti e un pubblico più vasto a riempire la piazza. Che, in questi giorni di estate piena, si affolla peraltro assai facilmente. Il violoncellista carioca è un cult: per aver assistito, in sala di registrazione e sul palco, gente come Tom Jobim, Caetano Veloso, Milton Nascimento, altri big della scena brasiliana, la fadista Mariza e, particolare che gli ha assicurato notorietà senza confini, pure Sakamoto. Tutte notizie, queste, che si incontrano automaticamente nelle biografie replicate della rete e nelle presentazioni che precedono il concerto. Ma che servono, se non altro, a limitare l’introduzione e a guardare oltre. E, cioè, al live del suo trio, il Cello Samba, integrato dalla performance di Paula Morelenbaum, ex corista del già citato Jobim, vocalist ancora assai ancorata alla bossa universalmente più conosciuta e, contemporaneamente, compagna di vita dello stesso Jaques. Esibizione dal vivo che, per inciso, il dieci agosto ha chiuso la nona edizione del Locus Festival di Locorotondo e, di conseguenza, anche la tregiorni dedicata dalla rassegna firmata Bass Culture alle sonorità che arrivano dal Brasile, ultima tranche di un percorso fratturatosi in tre differenti momenti. E che, prima, ha toccato il pop, il soul e le sue derivazioni (con Cody Chesnutt, Robert Glasper e Peter Cincotti) e, successivamente, il jazz più o meno contaminato (con Fresu, Ferra e i Locomotive e il trio di Joe Barbieri, di cui abbiamo già parlato in un post precedente).
Morelembaum, giunto per entrare compiutamente nei dettagli, è esattamente l’artista di qualità che ci saremmo attesi di ascoltare: asciutto, versatile, inappuntabile. Ci sono, poi, gli ingredienti per un grande concerto: spartiti ben eseguiti, arrangiamenti sicuri e talvolta ricercati, ma sempre agili, mestiere consumato e ottimi punti di appoggio, come il chitarrista Lula Galvão, brasiliense che risiede a Rio e che segue il front man da diversi anni, e il misurato batterista carioca Rafael Barata. Il trio apre con un superclassico (“Samba de uma Nota Só”), ma si avventura felicemente anche attraverso composizioni, diciamo così, meno commerciali (“Avarandado” di João Donato è un esempio). Toccando, per la cronaca, anche il repertorio di Gilberto Gil , con la più conosciuta “Eu Vim da Bahia”, e abbracciando il gusto dell’autocelebrazione (in scaletta anche un brano scritto dal violoncellista fluminense). L’ingresso sul palcoscenico di Paula Morelenbaum, di cui già ricordavamo un’esibizione difettosa a Conversano, un paio di anni fa, decurta però un po’ di originalità e atmosfera, consegnando alla serata un repertorio abbastanza convenzionale e sfruttato, sempre ben confezionato (su quello, non si discute neanche, ci mancherebbe), ma prevedibile e – purtroppo - anche previsto. E sul quale, in definitiva, preferiamo glissare. Da promettente, in sostanza, la serata si riscopre vagamente incompiuta: e il dato, sinceramente, addolora. Ma tant’è: la gente, in platea, si diverte e, evidentemente, il problema è di chi, come noi, pronuncia un altro alfabeto. Amen.
Decisamente meno ovvio e stereotipato e, dunque, più intrigante dal punto di vista della proposta (ma anche meno pubblicizzato: un vero delitto) è, invece, il live centrale della sera precedente (abbiamo, del resto, già parlato dei tre giorni dedicati al più grande paese sudamericano), in cui Bianca Gismonti e Cláudia Castelo Branco, due espressioni della giovane guardia brasiliana, interagiscono e si completano dietro due pianoforti, uno sistemato di fronte all’altro. Il Duo Gisbranco è un’ottima intuizione del Locus: sono sobrie, ma vivaci. Ed eleganti, ma senza esagerare. Le tastiere colloquiano tra loro, senza sfidarsi. E, soprattutto, il repertorio soddisfa il palato: si transita da Toninho Horta a Baden Powell (bella la versione di “Deixa”), dalle composizioni originali (“Serra do Céu” è un prodotto della collaborazione tra Cláudia Castelo Branco e Marcos Campello) a quelle di Ernesto Nazareth ed Edu Lobo (intrigante la rilettura di “Pontéio”), passando anche per “Festa do Carmo”, scritta dall’immenso Egberto Gismonti che, poi, altri non è che il padre della stessa Bianca. In tutto, tre quarti d’ora di note delicate, ma anche spesse, supportate da una scenografia lieve e dalla freschezza delle protagoniste, che a metà del cammino si alzano e si scambiano gli strumenti.
E, infine, ci sembra doveroso anche ricordare lo spazio ritagliato dal Locus alla musica di Os Argonautas, quintetto barese che, in pratica, apre la strada al concerto del Duo Gisbranco. La voce di Federica D’Agostino, le chitarre di Domenico Lopez e Giulio Vinci, il contrabbasso di Alex Mazzacane e la fisarmonica e la batteria di Giovanni Chiapparino fluttuano tra le note della musica brasiliana d’autore (ecco, ad esempio, “O Quereres” e “Os Argonautas” di Caetano Veloso e “Sinhazinha” di Guinga), di quella popolare (spunta l’antico tema di “Peixinhos do Mar”), delle composizioni originali (una bossa e due fado pensati da Giovanni Chiapparino), del fado della casa madre (e qui si emigra in Portogallo, con “Alfama” dei Madredeus e “Rosa Branca”) e della morna di Capo Verde (c’è tempo per una composizione targata Cesária Evora). Il gruppo, che assai bene si è comportato nell’ultima edizione del Multicultura Festival di Recanati, possiede l’intelligenza di progettare un repertorio lontano da quelli più scontati, concedendo momenti anche raffinati. Anche per i timbri e i colori della sua vocalist, evidentemente cresciuta e modellata attorno alla figura di Teresa Salgueiro, che talvolta ricorda (e, non a caso, Federica D’Agostino sembra più a suo agio con il portoghese del Portogallo, piuttosto che con quello parlato in Brasile). Agli Argonautas, in definitiva, non sembra mancare il gusto per la ricerca: e questo è confortante, soprattutto di questi tempi, in cui persino profili musicali più solidi e rispettati si concedono sempre più facilmente al richiamo della commercializzazione e, quindi, dell’appiattimento artistico.

Locus Festival 2013
Locorotondo (BA), piazza Aldo Moro

martedì 29 maggio 2012

Rangel e Bosso, due vecchie conoscenze




Márcio Rangel non dimentica la Puglia. E, spesso, si fa rivedere. Il mancino di Mossoró e la sua chitarra capovolta sono ospiti ormai abituali dei club di casa nostra. All'Engine di Martina, peraltro, il ragazzo si è già esibito, un paio di stagioni addietro. Questa volta, però, la compagnia è diversa. Anzi, è diverso l'altro cinquanta per cento dell'evento. La serata, cioè, è a doppia trazione: e il nome che lo accompagna è di quelli che, da solo, garantisce il sold out, sempre. Fabrizio Bosso non necessita di presentazioni e neppure di frasi gonfie di retorica. E poi, a questo punto, lo conoscono proprio tutti. Jazzisti e non. Non solo perchè tra lo Jonio e l'Adriatico ci ha anche vissuto, per un po'. Non solo perchè, da queste contrade, ci passa sempre più spesso, con progetti e artisti diversi (Sergio Cammariere, Barbara Casini, Irio De Paula, orchestre sinfoniche varie, Luciano Biondini e qualcun altro di cui ci stiamo sicuramente dimenticando), oppure affiancando gente come Gaetano Partipilo, uno degli enfant prodige di questa terra. Ma anche e soprattutto perchè la televisione e, in particolare, il palcoscenico di Sanremo (dove, proprio ultimamente, è tornato ad esibirsi) restano un veicolo promozionale che non teme concorrenza alcuna.
Duo insolito, magari: ma ormai rodato da tanti live sparpagliati ovunque, per la penisola. E forgiatosi attorno alle note della musica popolare brasiliana che Márcio Rangel Jales De Miranda ha importato, senza dimenticare di concedersi spazi per la produzione propria. Il repertorio, appunto, è una miscela di composizioni originali dell'artista nordestino, assolutamente a proprio agio quando può eseguire se stesso, liberando la sua possente impronta musicale, e di standard notissimi al grande pubblico (che, indubbiamente, finiscono per limitare e stringere la sua verve). L'approccio al live fluttua tra xaxado e samba, due ritmi diversi che riescono, però, a sottolineare la versalità interpretativa del chitarrista, ormai adottato dall'Italia e, specificamente, dalla Toscana, dove risiede da un po' di anni. Due pezzi senza accompagnamento e, quindi, sale sul palco Bosso, solido sulla propria arroganza tecnica, talvolta irridente nella sua accademia. Lo spirito latino di "Triste", di "Só Danço Samba" e di altri titoli si incrocia così con fraseggi be bop, oppure con dinamiche blues, lasciando terreno aperto agli istinti che sorgono sul momento ai protagonisti. Ma, lo ripetiamo, i passaggi più alti e più intensi scorrono sulle note di pezzi come "Jogada de Bola" (un omaggio di Márcio Rangel a Mané Garrincha, leggenda in dribbling del Botafogo e della Seleção), "Dois Amores" («Due amori: per la vita e per la musica», chiosa con sorriso impertinente il brasiliano) e, soprattutto, "Arena", un tributo alla Spagna e ai suoi chitarristi. Certo, lo sappiamo: il pubblico preferisce sempre ascoltare quello che già conosce e in tanti, ne siamo consapevoli, non concorderanno : però, la nostra opinione è questa e tanto basta.
Il concerto si esaurisce, dunque, nella leggerezza di una parata nel mezzo della platea: un trucco antico, ma sempre gradito da chi ascolta e assiste, per salutarsi e - soprattutto - per chiudere la terza rassegna del club martinese pilotato da Michele Lillo e Roberto Liuzzi, che anche quest'anno ha voluto coniugare esperienze e stili musicali differenti tra loro. Con la promessa di riprovarci anche dopo l'estate: che, di per sè, non è un fatto per nulla scontato, di questi tempi. In cui, pure a queste latitudini, parecchi gestori sono costretti a chiudere le porte alla musica dal vivo, per meri motivi economici. Quelli che dettano le condizioni e, sempre più spesso, le agende.

Márcio Rangel (chitarra) & Fabrizio Bosso (tromba)
Martina Franca (TA), Engine Club

martedì 2 agosto 2011

Paula Morelenbaum e quella bossa di sempre


L’ultima volta passò dal Jazle di Lecce, otto anni addietro. Accompagnando Paulo e Daniel, discendenti diretti della dinastia Jobim. Ma Paula Morelenbaum, in Puglia, alla fine ci è tornata: questa volta da band leader, a Conversano, in una piazza Battisti decisamente popolata. Portandosi dietro il suo gruppo, che peraltro non riesce mai ad impossessarsi pienamente del palcoscenico: il misuratissimo David Milman al piano e alla tastiera, Lancaster Lopes al basso e Rick De La Torre, un gaúcho dal nome spagnolo, alla batteria. E costituendo, al pari della voce nera di Mario Biondi, la proposta più suggestiva dell’intera estate conversanese. La vocalist carioca, primo ospite della rassegna Autori (targata per il terzo anno di seguito dall’associazione Insolisuoni) e di A Corte d'Estate, il contenitore coordinato dall’amministrazione comunale, è anche la chiave che apre una trilogia dal tema “Il Samba Balla col Tango“ (prossimamente, il palco sarà affidato prima a Carlot-ta e poi alle note sudamericane di Mangalavite e Girotto e alla verve recitativa di Peppe Servillo). Ma resta, soprattutto, un nome di rilievo assoluto nel proprio Paese: se non altro, per aver interpretato e accompagnato per diverso tempo Tom Jobim.
Regina Paula Martins, quarantanovenne, meglio conosciuta con il cognome ereditato dal marito Jacques Morelenbaum, uno dei monumenti della musica brasiliana degli ultimi vent’anni (il violoncellista ha interagito con gente come Buarque, Veloso e Sakamoto e gode di stima incondizionata, nell’ambiente) arriva in Italia per presentare Telecoteco, il suo ultimo lavoro discografico che si muove tra samba-canção e funky, scolpito da testi molto leggeri e da atmosfere decisamente lounge, ben diverse dal calore della bossa che, poi, le ha regalato in passato visibilità e popolarità. L’approccio al concerto, del resto, sembra cavalcare il momento musicale che sta animando il Brasile, ultimamente assai attratto da arrangiamenti un po’ freddi e anche dalla corsa alla rivisitazione di vecchi successi (è il caso di "O Samba e o Tango", un motivo lanciato da Carmen Miranda prima della metà del secolo scorso e recentemente riscoperto da Caestano Veloso, oppure di "Tomara", un testo che Vinicius De Moraes lasciò cantare a Marília Medalha negli anni settanta, oppure di un samba enredo degli anni quaranta). Ben presto, però, il live scivola su binari più morbidi e classici, ma anche in un repertorio che cerca ostinatamente consensi, vantando più facilità di comprensione e digestione.
Così, una versione senza troppa identità di "Manhã de Carnaval" precede la più convincente e raffinata "Tarde em Itapoã" e una sequenza di brani ("Águas de Março", "Você e Eu", "Mas Que Nada", "Canto de Ossanha", "O Nosso Amor", "Ela E’ Carioca", "Água de Beber") francamente didascalici. Detto tra noi, ci saremmo aspettati qualcosa in più, cioè qualcosa di diverso, di meno prevedibile, di meno ovvio. Non il solito compitino, ecco. Magari, altri titoli come le meno sfruttate "Samba de Orly" e "Luar e Madrugada", una composizione del giovane Jobim. Così come ci saremmo aspettati una Morelenbaum più coinvolgente e più coinvolta. Diremmo, quasi, più convinta. O, se preferite, più penetrante. Ma tant’è: alla gente basta e avanza, come testimonia la soddisfazione in platea. Avranno ragione loro, evidentemente. Anche se, a noi, resta un senso vago di incompiutezza, di delusione. Ma anche la reatà di un’esibizione che sembra appositamente confezionata per il pubblico italiano. O, peggio ancora, per un pubblico un po’ distratto, che si accontenta di una scaletta ricca di luoghi comuni.

Paula Morelenbaum (voce), David Milman (pianoforte e tastiera), Lancaster Lopes (basso) & Rick De La Torre (batteria)
Conversano (BA), piazza Cesare Battisti
Autori – A Corte d’Estate 2011

sabato 17 luglio 2010

Classico Carioca, con garbo


La sensibilità verso l’universo musicale brasiliano cresce. E, estate o inverno non fa differenza, si moltiplicano progetti e omaggi sulla mpb, la música popular brasileira. Praticamente ovunque. Gli appassionati (crescono anche loro) ringraziano. E i più esigenti, adesso, possono persino permettersi di soppesare, spigolare e scegliere nel mare delle opzioni. Anche queste contrade sembrano aver scoperto (definitivamente) un genere che era (e, magari, rimane) sostanzialmente e fortunatamente di nicchia. E che non profuma solo dell’abusatissima (e, forse, anche un po’ stantia) bossa: perché, sì, dietro (anzi, avanti) alla bossa c’è tutto un mondo: quarant’anni di autori importanti, spartiti eleganti, testi di impegno sociale incomparabile e accordi accattivanti. Anche se molta gente pare essersene accorta solo di recente: in tempi di globalizzazione reale, quando – probabilmente – non è più necessario che l’arte, la cultura e anche la musica debbano necessariamente passare prima per gli Stati Uniti e poi in quel che resta del pianeta.
Comunque, ormai, di Brasile e di musica brasiliana se ne occupano in molti, prima o poi. E Brindisi in Jazz Summer 2010, cartellone breve varato dal Saint Louis College of Music, che in Puglia ha sede proprio nel capoluogo adriatico, ha deciso di aprire la sua duegiorni davanti al mare con un tributo al cantautore più titolato del Paese sudamericano, Chico Buarque de Hollanda. Che, ormai, preferisce spendere i suoi giorni nella scrittura (vanta quattro romanzi di assoluto rilievo: l’ultimo, Latte Versato, è appena uscito anche da noi), più che nella musica. Ma che, talvolta, torna ad esibirsi e a comporre: un’occupazione che lo coinvolge sin dalla metà degli anni sessanta e che, in un certo periodo, gli ha pure procurato qualche problema con la censura e con la dittatura militare (un paio di anni di esilio a Roma testimoniano efficacemente). L’introspezione del mondo buarquiano al porticciolo turistico brindisino si chiama Classico Carioca ed è un lavoro condiviso dalla vocalist Susanna Stivali (tradizionalmente assai vicina alle sonorità afroamericane, gospel compreso), dalla pianista romana Stefania Tallini (che al Brasile è legata particolarmente, considerati i vincoli personali con Guinga, peraltro sistemato in platea), dal bassista Marco Siniscalco e dal batterista abruzzese Nicola Angelucci. Quattro personalità sui sentieri di un intellettuale prestato alla musica o di un musicista prestato al patrimonio sociale brasiliano: il dibattito è aperto da anni e sarà difficile decifrare la realtà.
Del quartetto (e di Brindisi in Jazz), tuttavia, piace la scelta di Buarque. Scelta non convenzionale, proprio perché oltrevarca i limiti dell’abitudine (non sappiamo quanti siano in Puglia e in Italia, ad esempio, gli omaggi – più o meno convincenti – a Jobim e a João Gilberto. Che, spesso, deludono. E che, se non deludono, finiscono (o finiranno) per stancare. Non che la produzione buarquiana sia, in quest’angolo di Europa, totalmente sconosciuta, ci mancherebbe: ma pochi, pochissimi, hanno voluto o saputo scavare e concentrarsi esclusivamente sulle composizioni (non solo quelle di impatto alto, fortemente legate al filone della canzone di protesta degli anni sessanta, settanta e ottanta e, più tardi, ad una disamina disincantata della quotidianità, ma anche quelle più morbide) dell’autore carioca. Figlio, vale ricordarlo, di una delle personalità di spicco del modernismo brasiliano (Sérgio Buarque), fratello di una delle muse della bossa (Miúcha), cognato del già citato João Gilberto, suocero di Carlinhos Brown e padre (come Geraldo Vandré, Milton Nascimento, Edu Lobo e lo stesso Caetano Veloso) di una certa forma di canzone di rottura: con il passato e non solo.
“Tem Mais Samba”, “Morena dos Olhos d’Agua”, “Quem Te Viu” (eseguita strumetalmente), Valsinha (che qui cantò Mia Martini), “Samba do Grande Amor” (ovvero il pezzo cronologicamente più recente, tra quelli scelti per il progetto): il repertorio, in fondo, non fluttua tra i testi più impegnati, ma è arrangiato con ricercatezza, cura. Unica eccezione, la geniale “Construção”, a cui la Stivali offre un’impronta affascinante. Le versioni sono rigorosamente in italiano, nel solco delle traduzioni di Sergio Bardotti (e di Fossati, nel caso di “O Que Será”, sdoganata con forti venature jazzistiche). Unico testo in portoghese, eseguito con sola voce e piano, quello di "Beatriz", scritto a quattro mani con Edu Lobo, cioè il brano più titolato del Grande Circo Místico. Complessivamente, un concerto dai tempi sintetici (quarantacinque minuti, prima dell’esibizione del trombettista Flavio Boltro, accompagnato da Giovanni Mazzarino al piano, Marco Micheli al contrabbasso e Francesco Sotgiu alla batteria), ma partorito con garbo: come sarebbe piaciuto a Chico Buarque.

Susanna Stivali (voce), Stefania Tallini (pianoforte), Marco Siniscalco (basso) & Nicola Angelucci (batteria) in “Classico Carioca”
Brindisi, Porto Turistico
Brindisi in Jazz Summer 2010

mercoledì 23 giugno 2010

Lins, funky targato Rio


Qualcosa di bossa: il suo profumo e certe sue atmosfere, almeno. Perché, ormai, la bossa è coltivata per davvero solo in Europa. In Italia, soprattutto. Ma in Brasile non più. O assai meno di quanto si creda. E qualcosa (anzi, molto) di funky: verso i cui sentieri Ivan Lins si è ormai abbandonato. Del resto, il compositore di Rio continua a scrivere canzoni. E a vendere. Tutto misturato da una sensibilità fortemente carioca. Anche perché le sue parole e il suo piano insistono spesso su un tema: la sua città, appunto. Tra bossa e funky, però, quella di Lins è essenzialmente musica da ascoltare. E di ottima qualità. E’ così da quarant’anni. L’artista sudamericano, peraltro, vanta estimatori un po’ ovunque, anche al di fuori del proprio Paese. E interpreti importanti che hanno prestato la loro voce a diverse versioni dei suoi brani (ricordate la celebre “The Island” di George Benson? Bene, l’ha scritta Ivan Lins, a quattro mani con Vítor Martins, il socio di una vita. E avete presenti nomi come Sara Vaughan e Quincy Jones? Ecco, hanno condiviso esperienze con lui).
Ha sessantacinque anni, ma non li dimostra. Ed è un personaggio squisito: di antica cortesia. Disponibilissimo: sempre e comunque. Con tutti. Dalla simpatia immediata. Questione di carattere. Brasiliano vero. E carioca anche nell’animo. In Brasile è una delle istituzioni musicali. Meno cerebrale di Chico Buarque, meno impegnato di Edu Lobo, meno terragno di Milton Nascimento, meno imprevedibile di Caetano Veloso. Ma fruibile a tutti. Per quei testi semplici, immediati. E per quelle tonalità chiare, dirette. Jobiniane, ha detto e scritto qualcuno: non a caso. Il maestro, peraltro, era e resta un suo punto di riferimento. Oltre le frasi di circostanza. Anche per questo, i suoi dischi sono tra i più commercializzati, al di là dell’oceano. Meglio di lui, probabilmente, solo Ivete Sangalo, regina delle axé, e pochissimi altri. Numeri imponenti. E non da oggi. Per capirci, può esibire qualche Latin Grammy Award. E una processione di singoli dal successo cristallino. Ascoltati almeno una volta, nella vita. Magari attraverso i Manhattan Transfert. O, appunto, Benson. Oppura Ella Fitzgerald. Ma anche Elis Regina.
Bari in Jazz 2010 l’ha riportato in Puglia. Un po’ di anni dopo. Alla fine degli anni novanta, sbarcò al Teatroteam, in compagnia di Toots Thielemans: con il quale ha elaborato idee per lungo tempo. Questa volta, al Teatro Piccinni, è arrivato accompagnato solo dal suo gruppo. Anzi, dalla sua gente, come dicono da quella parte del mondo: André Sarbin (alla tastiera e al pianoforte), Alfonso Paes (alle chitarre), João Moreira (alla tromba: interessanti le sue tonalità jazzistiche) e Chris Wells (è il batterista). Offrendo un ventaglio di proposte: antiche (“Vitoriosa”, “Madalena”, “Dinorah, Dinorah”, “Começar de Novo”, “Daquilo Que Eu Sei”, “Iluminados”) e più recenti (“Velas”, “Passarela no Ar”, “Nada Sem Voce”: quest’ultima scritta con Ivano Fossati e, ovviamente, tradotta in italiano). C’è, poi, anche un tributo a Jobim, ma è un inciso veloce, ma non formale. Per la tournée italiana (due tappe al sud: Nocera Inferiore e Bari, prima di spostarsi in Norvegia) sceglie un profilo casual, anche nel confezionamento del concerto. Parla poco (in inglese) e suda molto, litigando più volte con un pedale difettoso. Gli arrangiamenti, tutti curati, concedono una veste nuova pure ai pezzi più popolari. Che arrivano sostanzialmente nella parte finale del live, riscaldando l’ambiente. L’evento richiama anche diversi brasiliani di Puglia: e non potrebbe essere diversamente. Ma anche il pubblico di casa non difetta in conoscenza specifica: conseguenza della globalizzazione mediatica, ma anche di un’avvenuta crescita della mpb nell’immaginario collettivo degli italiani. Attraverso i canali della bossa, evidentemente. Che, dopo, ha saputo convogliare la gente verso altri autori. Più o meno tradizionali. Qualche anno fa non ci avremmo scommesso. Oggi ne prendiamo atto. Con soddisfazione.

Ivan Lins Quintet (Ivan Lins: voce e tastiera; André Sarbib: pianoforte e tastiera; João Moreira: tromba; Alfonso Paes: chitarre; Chris Wells: batteria)
Bari in Jazz 2010
Bari, Teatro Piccinni

martedì 20 aprile 2010

Márcio Rangel, um cara gozador


Márcio Rangel, all’Italia, si è abituato. E, in Italia, dice di trovarsi bene. Anzi, benissimo. Non è affatto cattiva, peraltro, la sua scelta di vita: che, poi, è Monteriggioni, nel pieno della campagna senese, dove arte, cultura, vino e sapori si confondono all’ombra del castello. Scelta di vita che, alla fine, finisce per condire la passione per la chitarra, cioè la causa del trasferimento transoceanico. E sì, perché Márcio arriva da lontano: Mossoró, poco meno di trecento chilometri dalla meglio conosciuta Natal. Rio Grande do Norte, dunque. Nordest del Brasile, quindi. Il ragazzo (trentasei anni a novembre) conserva però tutta la solarità e la facilità di socializzare della gente della sua terra. Vero e proprio marchio di fabbrica di chi arriva da certe latitudini: perché, come scriveva e cantava Vinícius de Moraes, la vita (e, certo, anche e soprattutto la musica) è arte dell’incontro. A vederlo, comunque, sembra anche più giovane di quello che è. E, tra una frase in italiano e una in portoghese, non nasconde per niente tutto il suo entusiasmo: per le sette note, per il suo Paese, per quello che lo ha accolto, per la cultura musicale sudamericana e per gli spartiti che fa ruotare sul palco.
Márcio ama la propria musica. E ha deciso di pubblicizzarla un po’ ovunque: nasce così il tour di quattro giorni consumato in Puglia, esattamente a metà aprile. Dove, magari, attendeva di incrociare la primavera. E dove, invece, si è scontrato con scirocco e nebbia. Quattro giorni pieni: di nuove conoscenze e di nuove esperienze (a Martina, nella cornice dell’ospitalissimo Engine Club, si è misurato al fianco di un contrabbassista rampante come Camillo Pace, frutto autoctono di quest’angolo di Eurpoa dove le sonorità continuano a girare, malgrado tutto). E di situazioni anche intriganti, per un musicista (pensiamo alla Saletta della Cultura di Novoli o al Club 1799 di Acquaviva delle Fonti). O particolari: come il Circolo Pivot, sistemato in un palazzotto ottocentesco, nel centro storico di Castellana Grotte. Quattro giorni, ovviamente, dedicati alle tonalità del suo Brasile. Riarrangiate dalla sua chitarra contromano (spieghiamo: Márcio è mancino, ma suona lo strumento come un destrorso qualsiasi, però invertendo e, talvolta, inventando a proprio consumo e beneficio metodi di esecuzione), oppure assolutamente originali.
Mestre Rangel interpreta, ma – soprattutto – compone. Seguendo il proprio istinto. Che molto attinge dallo choro (si pronuncia sciòru, e arriva dall’area – diciamo così – erudita del panorama musicale brasiliano), ma anche dal baião e dallo xaxado (ritmi nordestini cugini tra loro, come affermava Luíz Gonzaga), senza rinunciare ad un pizzico di bossa, che fa particolarmente felici gli italiani. Tanta roba sua, allora, e pure qualche cover, ma senza abbondare: anche perché è difficile sgravarsi dalla responsabilità di non deludere troppo chi attende di ascoltare temi ormai familiari. Che la gente pretende di ritrovare, quando un artista brasiliano calca gli italici palcoscenici. «Chiedono determinati pezzi, che poi sono sempre gli stessi: e si meravigliano, se non li esegui. Bisogna venire incontro al pubblico, certe volte», chiosa divertito il chitarrista potiguar. Escogitando, con malizia da veterano spolverata di simpatia, soluzioni comode: in alcuni casi, cioè, propone composizioni proprie, annunciate invece come produzione dei nomi più gettonati. E il problema è risolto, tra la soddisfazione generale.
«Del resto, ho l’esigenza di far conoscere la mia musica. Che è il mio modo di pensare, di intendere quest’arte», confessa. Una musica che, tuttavia, non tradisce mai le tradizioni della sua terra e che svela il lavoro – anche di ricerca – speso in ogni spartito, in ogni accordo, in ogni arrangiamento. Lavoro, a volte, speziato, ricercato. Niente affatto commerciale, per capirci. Né banale: neppure quando rischia le note di “Asa Branca” e “Wave”, due classici universalmente incisi, da sempre, dentro e fuori il Brasile. E che Márcio adotta dal vivo, dopo averli riuniti (con brani originali come “Primo Volo”, “Verde Encanto”, “Fuga do Palhaço” e “Xaxado” e con “Gabrielas” di Dory Caimmi) in Palavras do Som, cd uscito nel 2002. Facendosi accompagnare, oltre che dalla chitarra, dalla fedele loop station, un tributo alla modernità e alla varietà dei suoni. E anche allo spettacolo: come quando, a Novoli, lascia il palco. Mentre la scatola magica continua a dettare i suoi tempi e i suoi ritmi registrati con il pedale. Márcio Rangel, um cara gozador.

Márcio Rangel (chitarra e loop station)

Martina Franca (TA), Engine Club Music Hall (con Camillo Pace al contrabbasso), 15.04.2010
Novoli (LE), Saletta della Cultura “Gregorio Vetrugno”, Tele e Ragnatele 2010, 16.04.2010
Castellana Grotte (BA), Circolo Pivot, 17.04.2010
Acquaviva delle Fonti (BA), Club 1799, 18.04.2010

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

sabato 27 febbraio 2010

Guinga, musica vera senza folklore


Il suo nome completo (Carlos Althier De Souza Lemos Escobar) e il suo apelido (Guinga) non smuoveranno la folla della musica, in Italia. Perché lontano è il suo ambiente naturale e lontana, da queste contrade, è soprattutto una profonda cultura musicale sudamericana. Ma il chitarrista di Madureira, in Brasile, è personalità di livello assoluto. Scalfita nelle proporzioni, magari, dall’effervescenza mediatica di un Caetano Veloso, dal lirismo infinito di un Milton Nascimento e dal cosmopolitismo intellettuale di uno Chico Buarque. Dalle voci universali di Maria Bethania, Gal Costa, Marisa Monte o Adriana Calcanhotto o dai riflussi dell’antica bossa nova, emozionalmente sopravvissuta molto più in Europa, piuttosto che oltre oceano. O dalla modernità galoppante dell’ultima generazione, più globalizzata e rockettara. Eppure, Guinga è un’altra bella storia del suo Paese e di quel macrocosmo inesauribile che è la MPB, cioè la non meglio definibile musica popolare brasiliana. Una personalità che, da queste parti, possiede tuttavia qualche estimatore: senza, peraltro, tappezzare le colonne di un giornale, quando si trova a passare per questo angolo di Europa. Come, ad esempio, nell’ultimo week-end di febbraio.
E sì, perché Guinga, col suo bagaglio di garbo e sensibilità e con il suo profilo colto, è passato per due club di Puglia, ad Acquaviva e a Ceglie. Portando, come sempre, note leggere e accordi profondi, atmosfere eleganti e composizioni raffinate. Ovvero, la musica del proprio Paese, al netto del folklore che spesso la accompagna per il mondo. Opportunamente attinta dalla propria produzione e, in qualche caso, da quella altrui (ad esempio, “Se Ela Perguntar”, di Dilermando Reis, e “O Barquinho”, di Roberto Menescal). Operazione, questa, abbastanza agevole per chi, come il compositore carioca, pur coltivando una passione solida per gli autori classici (Puccini su tutti, si affretta a sottolineare) ha vissuto - rimanendone fortemente influenzato - la seconda metà del ciclo bossanovista e l’intero periodo di eleborazione postbossanovista. Il momento storico, cioè, più complicato: per motivi squisitamente sociali, diciamo pure così. Ma, innanzi tutto, frutto saporito di una rivisitazione culturale assolutamente sorprendente, perché partorita all’interno di una dittatura a volte persino feroce. E per chi, come Guinga, è passando per le maglie di un’espressione artistica che ha movimentato idee e prodotto opinione. Accostandosi, dettaglio essenziale, ad un esercito di figure forti della musica brasiliana: con alcune delle quali, del resto, ha anche collaborato corposamente (il già citato Buarque, Alaíde Costa, Aldir Blanc: tre nomi per tutti).
In Italia, comunque, Guinga ci torna spesso. E, assicura, anche volentieri. E non solo per esibirsi. Quasi sempre scortato da ottimi interpreti di casa nostra (Gabriele Mirabassi, prima degli altri) dichiaratamente coinvolti da certe sonorità latinoamericane. E in Puglia, per esempio, lo ricordiamo proprio al fianco del clarinettista perugino, a Lecce. Questa volta, invece, il chitarrista si è fatto accompagnare della sua stessa voce. E da nient’altro. In un contesto, se vogliamo, più intimo. Più cantautorale. E più gravido di suggestioni, di colori. Ma, probabilmente, anche più ostico per chi attendeva bossa nova pura e motivi di successo.«La gente mi scuserà - abbozza prima del live – ma, malgrado sia brasiliano e suoni musica brasiliana, avverto il bisogno di offrire le mie cose, piuttosto che gli standard più conosciuti. Perché la mia musica mi fa bene al cuore». Fortunatamente, aggiungiamo noi. «E so perfettamente – aggiunge - che la mia musica è assolutamente nuova per molti di voi. Lo è, in realtà, anche per me: perché non passa per le frequenze della radio, neppure in Brasile».
L’esibizione al Petra Club di Ceglie, location che continua a credere anche alle proposte sganciate dalle rotte più abusate (la direzione artistica di Francesco Lomagistro, va detto, non ama perdersi nei dubbi, sfidando talvolta la certezza delle scelte più convenzionali), dura un’ora. Ma è un’ora intensa. E difficile, anche: per il brusio che molto spesso si trasforma in rumore. Non può, tuttavia, non emergere il tasso robusto di tecnica che Guinga imprime alla serata: e che, pensandoci bene, meriterebbe la discrezione di un teatro. «Ma così non è e va bene lo stesso – chiosa Guinga -. La gente vuole dialogare e la vita è una. Non mi interessa di essere un buon compositore oppure no, di essere più o meno famoso: quando suono, ho la necessità di sentirmi utile e di entrare nel cuore anche di uno o due ascoltatori soltanto». Anche questo è stile. Lo stile di saper vivere. Con umiltà. Lo stile che anima gli artisti brasiliani, da sempre. Prendere appunti, prego.

Guinga (chitarra e voce)
Ceglie Messapica (BR),
Petra Live Music

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mercoledì 15 luglio 2009

L'anima latina di Mordente

Caetano Veloso, ormai, è un riferimento musicale un po’ abusato. Merito dell’avvenuta internazionalizzazione dell’artista e, soprattutto, di un linguaggio sonoro ampiamente digeribile: negli States e, ovviamente, anche in Europa. Perché la moda e la globalizzazione, da sempre, passano prima da quelle contrade e, succesivamente, da queste parti. Di più: le sonorità e, più in generale, il songbook di uno dei padri del Tropicalismo (con lui Gilberto Gil, Torquato Neto e qualcun altro) posono essere tranquillamente riconvertiti ad un pubblico eterogeneo. Senza avvertire imbarazzo o il pericolo di fallire l’approccio con la platea. E un interprete – un interprete brasiliano che vive in Italia – queste cose le sa. Le sa bene. Le composizioni del cantautore baiano, del resto, erano e rimangono assai stimolanti: anche e soprattutto per un artista sudamericano che si appropria del piacere di omaggiarne il percorso artistico.
Rosa Emília, pure lei baiana ma residente a Venezia, voce dal pedigrée già ben definito e assai apprezzata dagli appassionati del genere di casa nostra, sceglie così un itinerario sicuro, garantito all’origine. E, al secondo appuntamento di Jazz à la Cruz, intinge la propria esibizione in una quindicina di pezzi più o meno conosciuti al grande pubblico. Rivestendoli con versioni sufficientemente fedeli, eppure personalizzate. “O Samba e o Tango”, “Cajuína”, “Sampa”, “Qualquer Coisa”, “Trilhos Urbanos”, “Trem das Cores”, “Eclipse Oculto” e qualche altro titolo saccheggiano qua e là una carriera ormai quarantennale, senza seguire un disegno prestabilito. Né un percorso temporale. Rosa Emília canta quel che le va, puntando ai successi universalmente accreditati. E, generalmente, scegliendo testi gravidi di charme e, talvolta, socialmente robusti (come “Recado”, tratto dall’album Fine Estampa, rivisatazione velosiana di una composizione in lingua spagnola degli anni venti, o come “Haiti”).
«Caetano – spiega Rosa Emília – non ha mai nascosto di cogliere le sfumature culturali e sociali del proprio Paese, disegnandosi un percorso eclettico. Per questo è, in Brasile, tra gli autori più amati. Per questo mi piace riproporlo». In Puglia («qui sembra di essere più vicini alla mia terra: è una questione di colori, è una questione di luce. Sì, questa luce mi ricorda un po’ il Brasile», dice) si fa accompagnare da una formazione indigena (il batterista Accardi, padrone di casa; il contrabbassista Vendola, il chitarrista De Giosa e il pianista Andrioli, rientrato temporaneamente da Bruxelles) che, con ironia e persino un po’ di orgoglio, si è autoribattezzata Caetanear (testualmente, significa “caetanizzare”, termine storicizzato da “Siná”, fortunatissima composizione di Djavan, tradotta anche in inglese dai Manhattan Transfert negli anni ottanta). E, ovviamente, di fronte a quattro jazzisti, gli spartiti oroverde finiscono per impastarsi di jazz. Poco male. Anzi, bene. Del resto, Caetano è personaggio assai duttile, assai attratto dalla contaminazione. Come duttile è la voce di Rosa Emília, che sa enfatizzare i dettagli e giocare sugli accordi, dedicandosi un’interpretazione libera da ogni vincolo di imitazione. Anche quando chiude il concerto, prima del bis, abbandonandosi alle note di un’altra composizione di lingua spagnola, quella “Cucurucucu Paloma” recentemente impiegata (e, dunque rivalutata) da Almodóvar come colonna sonora di una sua pellicola.
A proposito di lingua spagnola. A proposito di donne. E a proposito di Jazz à la Cruz, la rassegna creata dall’Associazione “Mordente” che possiede una breve ramificazione, cioè Jazz à la Vedette (cambia la location e pure la città: da Polignano si passa temporaneamente a Giovinazzo). Appena tre giorni dopo scende in Terra di Bari Eva Cortés, honduregna di nascita, sivigliana di cuore e madrilena di residenza, punto di riferimento di un quartetto che si avvale del contributo del pianista Remi De Cormeille, del contrabbassista aragonese Tonio Miguel e del già citato Fabio Accardi. Esile, garbata e profondamente castigliana nella pronuncia, la ragazza ama la Francia e apre un paio di parentesi sulla canzone francese, ma fondamentalmente presenta il suo secondo lavoro discografico, “Como el Agua Entre los Dedos” (“Come l’Acqua tra le Dita”). Album, questo, dalle sonorità calde: che l’esibizione dal vivo, di gusto dichiaratamente jazzistico (la formazione, del resto, è diversa da quella che ha cooperato in sala d’incisione), tende peraltro a raffreddare. Al di là di tutto, sulla Terrazza della Vedetta, attico che sorveglia il porto, domina il centro storico e sembra quasi abbracciare il mare, Eva cavalca il pop, ma dimostra di conoscere i tempi e le abitudini del jazz, che poi è il suo campo d’azione. Puntando sapientemente sulla modulazione della voce, com’è giusto, e sulla simpatia naturale. E in attesa di lasciare il palcoscenico ad un'altra signora della canzone, l’italianissima Paola Arnesano, padrona del palcoscenico nell’ultima e imminente tappa del cartellone.

Rosa Emília (voce), Nico Andrioli (piano), Francesco De Giosa (chitarra), Giorgio Vendola (contrabbasso) & Fabio Accardi (batteria)
Casello Cavuzzi di Polignano a Mare (BA), Masseria Crocifisso
Jazz à la Cruz
11.07.2009

Eva Cortés (voce), Remi De Cormeille (piano), Tonio Miguel (contrabbasso) & Fabio Accardi (batteria)
Giovinazzo (BA), Terrazza della Vedetta
Jazz à la Vedetta
14.07.2009

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venerdì 8 agosto 2008

Ligiana, una scelta di vita

Esile, esilissima. E molto brasiliana. Ligiana non arriva dalla Rio delle cartoline, né dalla São Paulo dei grattacieli e del traffico affogato. E neppure dalla Bahia del Pelourinho e di tutti i santi, o dal nordest del sertão che brucia. Ligiana è una vocalist giovane che scende da dove non ce l’aspettiamo, dalla Brasília fredda e capitale, dalla roça isolata. «Ma Brasília è una città che offre più di quanto pensiate, in Europa. Certo, non è Rio. Ma possiede un suo fermento, un proprio fervore culturale. E poi lì si cucina tanta musica», dice. Ed è vero. Soprattutto, di questi tempi. In cui emerge, anche in Italia, il carisma del mandolino di Hamilton de Holanda. «Hamilton – aggiunge Luigiana – è di Brasília, come me. Siamo praticamente coetanei. Anzi, siamo fratelli. E abbiamo studiato assieme, nella stessa facoltà universitaria. Dirò di più: proprio Hamilton mi ha trascinato nella musica popular brasileira. Sapete, io ho vissuto in Olanda. E cantavo: musica barocca, per la precisione. Ritenevo di avere la voce giusta per seguirne i percorsi. E, invece, lentamente, Hamilton mi ha convinta. Diceva che dovevo applicarmi nella MPB. Alla fine, ha avuto ragione. Ed eccomi qua. Eccomi a riproporre gli spartiti dei nostri maestri, ma anche delle composizioni originali».
Ligiana passa per due piazze pugliesi: prima Ceglie (largo Ognissati, appuntamento sponsorizzato dall’amministrazione comunale e coordinato da Antonio Esperti, musicista mesagnese sempre più assorbito dall’organizzazione di live di nicchia) e poi Saturo, marina di Leporano, dove qualche secolo fa sbarcarono gli spartani. E poi riparte: per Ascoli e, dunque, per la Francia. «Dove vivo da tre anni. Anche lì mi ha dirottata Hamilton, che l’aveva conosciuta prima di me. Aveva numerosi contatti, che mi ha affettuosamente girato. Ormai, in Francia, mi sono ambientata. Ho la possibilità di esprimermi, di cantare. Di confrontarmi. E di incidere. Il mio ultimo lavoro discografico si chiama “De Amor e Mar”, è stato appena confezionato. E poi, in Francia, coltivo tante amicizie. Anche quella di Nico Morelli, un pianista che ha saputo fondere i ritmi della pizzica con le sonorità del jazz. E’ delle voistre parti (di Crispiano, ndi), lo conoscete molto meglio di me. Con lui ci ritroviamo spesso, in un club. E ci scambiamo impressioni, sensazioni».
A Ceglie, Luigiana Costa Araújo conduce una formazione raccolta ed essenziale, ma acusticamente intrigante. Hatyla Gabriel Garcia suona il cavaquinho, chitarrino squillante che la cultura brasiliana ha adottato da quella portoghese. Boris Giraud è un chitarrista francese di estrema pulizia. E Wander Silva De Oliveira è un percussionista carioca che, con pochi strumenti, riesce a regalare una bella varietà di colori. L’interpretazione sobria, ma rotonda, vaga dallo choro al samba de roda, dal samba canção al baião. La voce è fluttuante e sa avvolgere parole e ritmi. Piace soprattutto, però, la scelta del repertorio: niente affatto banale. Anche quando vengono scomodate le cover di Toquinho e Maria Creuza, per azzardare due esempi. Alle quali Ligiana si accosta con l’umiltà tipica degli artisti brasiliani. Che è poi la chiave neppure tanto segreta del saper vivere. La simpatia naturale di questa ragazza brasiliense, poi, è assolutamente autentica, non preconfezionata. E spiega, meglio di qualsiasi altra parola, la magia della musica che, sempre più massicciamente, parte da oltre oceano. Regalando nomi illustri e volti meno noti: che, tuttavia, non deludono la platea che cerca talento e originalità. «Il Brasile – detta Ligiana – è un contenitore immenso. Basta cercare. A proposito, tra un po’, rientrerò: è parecchio che manco dal mio Paese e avverto una certa esigenza di riabbracciarlo. Ma in Italia tornerò assai presto. Magari per lanciare ufficialmente il mio album. Ma vi ho detto che ho vissuto per più di un anno anche qui? Prima alla Spezia, poi a Cremona. Studiavo canto barocco, appunto». E sì, poi arrivarono Hamilton De Holanda, un consiglio insistente, un argomento valido, qualche buon indirizzo e la scelta di vita. Una buona scelta, ci sembra.

Ligiana Costa Araújo (voce), Hatyla Gabriel Garcia (cavaquinho), Boris Giraud (chitarra) & Wander Silva De Oliveira (percussioni)
Ceglie Messapica (BR), largo Ognissanti

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martedì 15 luglio 2008

Cinquant'anni di bossa

«Pietre Che Cantano», la rassegna più longeva e più nobile dell'estate cistranese, sembra essersi affezionata al Brasile e al suo ventaglio di soluzioni musicali. Tanto da dedicare al Paese sudamericano l'intero cartellone, per il secondo anno di sèguito. Anzi: se vogliamo, "Brazillusion '08" è l'ideale continuazione (o evoluzione) della programmazione offerta dodici mesi prima. Anche se i contenuti e, soprattutto, gli artisti chiamati a impalcare questa edizione del festival possiedono - senza dubbio alcuno - maggiore appeal e uno spessore sicuramente superiore a quello di quanti sono intervenuti nella kermesse precedente. Giusto per chiarire.
«Pietre Che Cantano» e il Brasile: oltre tutto, il feeling è saldato dal patrocinio dell'ambasciata oroverde (operazione interessante) e dalla mediapartnership assicurata da Musibrasil, il portale italiano di cultura brasiliana. Segnali inequivocabili di crescita, dunque. Valorizzati dalla prima puntata del percorso (che si chiude il sedici agosto), affidata al piano (e al gruppo) di un trentenne carioca di Parigi, svezzato sugli spartiti di Bach e cresciuto nell'atmosfera calda degli afrosamba e nel culto del jazz, sotto la guida autorevole di un maestro di chitarra e di note come Baden Powell. Philippe Baden Powell (che, del maestro, ha ereditato il cognome e persino il nome) è figlio di un artista e di una terra dai quali non si è allontanato troppo, malgrado la residenza europea. E, per questo, ha preparato un repertorio di "brasilian standards" per celebrare degnamente i cinquant'anni di militanza della bossa nova nel panorama musicale (sì, sono già cinquanta, non sembra neppure vero), ovvero il leit motiv dell'intera rassegna curata anche quest'anno da Francesco Pinto. I suoi alleati, sul palco, parlano portoghese (al basso c'è il brasiliano Natalino Neto) e francese (Damien Fleau è il sax soprano, Mathieu Gramoli è il batterista e, a metà concerto o poco prima, si aggiunge la voce di Chloé Cailleton). Ma il linguaggio musicale non si esaurisce alla bossa: innanzi tutto perchè il contributo dell'improvvisazione è di chiaro stampo jazzistico, ma anche perchè l'offerta ammara pure sullo choro di Pixinguinha, sulle sonorità djavaniane della MPB, sulla produzione colta di Egberto Gismonti ("Palhaço") oppure su quella di Moacyr Santos. Chiaro, però, che - tra una divagazione e l'altra - Philippe punti decisamente sugli afrosamba così cari al padre e allo stesso Vinícius de Moraes ("Berimbau", "Canto de Ossanha", "Canto de Xangô").
L'ora e mezza di concerto che sgorga, così, si rivela sufficientemente varia, mai ingessata, sciolta. Il live è sempre pulito, carrozzato di una propria identità: merito, evidentemente, degli arrangiamenti convincenti, intelligenti, a tratti persino ispirati. Tecnicamente, la prestazione si mantiene sempre nei binari dell'eleganza e questo appare un pregio. Pur senza esplodere, sia detto: perchè, forse, l'ultima parte dell'esibizione avrebbe meritato scelte di repertorio più robuste: particolare, tuttavia, che non sottrae troppo alla valutazione complessiva. Nella piazza vecchia di Cisternino, attraversata dai rintocchi dell'orologio, il Brasile - cioè - passa e si ferma ugualmente. E la prevedibilità di un progetto nato per riabbracciare cinquant'anni di storia va accettata. Volentieri. Le buone interpretazioni esigono rispetto e vanno sempre premiate. Con un applauso sincero.

Philippe Baden Powell (pianoforte), Chloé Cailleton (voce), Natalino Neto (basso), Damien Fleau: sax soprano) & Mathieu Gramoli (batteria)
Cisternino (BR), piazza Vittorio Emanuele
Pietre Che Cantano 2008

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sabato 26 aprile 2008

Il Brasile di Barbara Casini

Immaginate il Brasile, quegli otto milioni e mezzo di chilometri quadrati di terra, di conflitti sociali, di passioni smisurate e anche di amore per la musica. Che può chiamarsi samba o forró, xote o maxixe, baião o frevo, pagode o MPB, cioè tutto quello che non è compreso nelle altre dizioni. Immaginate l’orgoglio della gente di quel posto per la propria identità culturale che pure l’appiattimento globale cerca di insidiare: riuscendoci abbastanza. E immaginate la quantità di note esportate o riproposte per esclusivo uso interno. Che, da sole, bastano e avanzano. Immaginate, poi, la storia della Musica Popular Brasileira. I suoi volti, la sua tradizione. E i suoi miti. Pensate, infine, a quanto possa essere difficile, per chi non è brasiliano, entrare nel meccanismo nazionale e, anzi, insediarvisi con naturalezza. Malgrado proprio gli artisti brasiliani, da sempre, siano quelli geneticamente meglio disposti a confrontarsi oltre confine, oppure entro i propri, con espressioni di altre culture e diverse latitudini. Traducendo, immaginate quanto possa essere improbabile proporre musica brasiliana in Brasile arrivando – magari – dall’Europa. Esprimendosi, ovviamente, in portoghese. Eppure, ultimamente, è accaduto. Con ottimi risultati, ci dicono le cronache. Barbara Casini, psicologa mancata e vocalist fiorentina di solido retroterra jazzistico (la collaborazione con Nicola Stilo, ad esempio, è antica; quella con Enrico Rava si rivelò preziosa e formativa; quella con Bollani è ancora attuale; quella con Bosso è il presente e il futuro assai prossimo) ama il Brasile. E non da pochi mesi. Anzi, il legame è sufficientemente datato: diciamo trent’anni, o poco meno. E pure saldo. Tanto da essersi sensibilmente avvicinata prima agli autori più prestigiosi della MPB (Buarque, Veloso, Lobo, Jobim: quattro nomi che, ovviamente, ne nascondono altri) e, sùbito dopo, all’idioma lusobrasiliano. Giostrando tra vinili e vocabolario, tra grammatica e viaggi al di là dell’oceano. Inventandosi, nel tempo, una decina di dischi, tra cui un tributo dedicato a Caetano Veloso («Uma Voz Para Caetano», Philology, 2003), un altro al lavoro raffinato di Chico Buarque de Hollanda, uno all’universo della musica del nordest («Nordestina») e un omaggio sonoro ad Elis Regina («Uragano Elis», Via Veneto Jazz, 2004), la voce più amata del Brasile, prematuramente scomparsa nel 1982. Elis, cioè la «voce per la quale continuo a scrivere canzoni»: parole di Milton Nascimento, non di un artista qualunque. Fatiche discografiche ampiamente pubblicizzate in Italia e, quindi, coraggiosamente presentate (è storia degli ultimi tempi) anche in Brasile. Dove l’accoglienza (al “Tom Jazz” di São Paulo e al “Mistura Fina” di Rio) si è scoperta vivace. Suffragata, cioè, da partecipazione (del pubblico) e apprezzamento (della critica). Piovuti prima di concedersi una divagazione sulla musica panamericana di radice popolare (progetto intrapreso con Javier Giotto e Natalio Luís Mangalavite) e una parentesi su quella francese: la riscoperta dell’opera di Charles Trenet è condivisa con Fabrizio Bosso, Ares Tavolazzi e Pietro Lussu. Ecco Barbara Casini. Ecco la sua passione, la sua musica. Riproposte dal vivo al Petra Live Club di Ceglie Messapica. Dove l’artista fiorentina, con la chitarra e con la voce, attraversa qualche punto essenziale del percorso artistico di Caetano Veloso (“Saudosismo”, “Para Ninguém” e “Os Passistas”), Gilberto Gil (“Eu Vim da Bahia” e “Febril”), Tom Jobim (“Outra Vez”, “Aguas de Marco”), Vinícius De Moraes (Eu Sei Que Vou Te Amar”), Ary Barroso (“A Baixa do Sapateiro”), Edu Lobo (“Ponteio”) e del cià citato Buarque ( “O Meu Guri”, “O Funcionário a Dançarina”, “Tatuagem”, “O Meu Amor”, “O Futebol” e “Vai Trabalhar, Vagabundo”). Ritagliandosi, tuttavia, un momento di sola voce surdo per la nordestina “Marambaia” e un angolo di musica italiana (ci piace sottolineare la versione di “Estate”, che segue “Angelo”, incisa nel duemila con Rava e Bollani, e l’inedita “Per Cena”, una produzione propria). «Una scaletta – rivela – partorita senza un preciso filo conduttore, ma seguendo l’istinto del momento, cercando di raggruppare i brani per autore». Senza mai rinunciare, aggiungiamo, alla cura del particolare. E attigendo compiutamente dal bagaglio dell’eleganza. Provando a creare un’atmosfera intima, quasi confidenziale: se non altro, con metà della platea, quella più attenta ed educata. Ma il malessere (per chi si esibisce e per chi vuole ascoltare) è ormai antico. E non sappiamo quanto risolvibile. Particolarmente indisponente in una location come quella cegliese: ovvero un club aperto esclusivamente in occasione dei live. E, dunque, espressamente pensato per la fruizione musicale.

Barbara Casini (voce e chitarra)

Ceglie Messapica (BR), Petra Live Club

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sabato 12 gennaio 2008

L'impronta netta di Irio de Paula

Dal Manuja al Ramblas. Dalle note di notte romane all'evento di gennaio del club tarantino. Sembra che il tempo sia passato lento. E, invece, sono scivolati trent'anni e anche qualcosa di più. Tutti spesi abbracciando una chitarra avvolta negli accordi della bossa nova e dei suoi immediati dintorni: dallo choro al baião. Tutti consumati nelle atmosfere di un Paese sospeso tra ricordi e magia, quel Brasile lasciato nel millenovecentosettantatre e sempre troppo distante. Tutti collezionati a rincorrere ingaggi e concerti, luoghi e situazioni. Irio De Paula è in Italia quasi da sempre, ma trasporta ancora la delicatezza della sua terra. E della sua musica, radicata e immutata. Come è immutata la trasparenza del suo talento e quella tecnica che avvolge e che ancora sconvolge chi non lo conosce.Irio, oggi, è un anziano signore che si perde con nonchalance tra le finezze acustiche del suo strumento. E' schivo e riservato come una volta, ma è lo stesso virtuoso che ricordavamo. Sì, forse il tempo si è fermato. Oppure è passato troppo lento. Ma quelle sonorità un po' datate del violão sono ancora vive, fresche. E anche se il repertorio proposto non attinge alla fonte della novità (il pubblico italiano ha l'irrefrenabile bisogno di riparare sotto il tetto dei motivi più navigati, più conosciuti e l'artista non può ignorare il dato), il chitarrista fluminense si fa amare ugualmente: per la sua leggerezza. E per l'impronta netta, il valore dei dettagli, l'esecuzione pulita. In Brasile, ormai, il nome di Irio De Paula dice abbastanza poco: tre decenni vissuti oltre oceano condannano all'oblio. Ma, in Italia, l'etichetta è ancora di pregio molto più che discreto: che il mulatto di Rio non dimentica mai di lucidare. Con concerti rigorosi e sapidi.Al Ramblas, De Paula si concede nella situazione che preferiamo. Quella più pura: chitarra e microfono. Anche se, gli appassionati più attenti lo ricorderanno, ultimamente ha spesso duettato con il giovane trombettista torinese Fabrizio Bosso, esibendosi anche in compagnia di Stefano Rossini e Giorgio Fontana (parliamo del progetto "Sambajazz", transitato nel 2004 anche da Martina Franca). Questa volta, peraltro, non usa neppure la voce: e, dalla scaletta, ad esempio, scompare un pezzo distribuito - in passato - sempre molto volentieri come «Rosa Morena». Ci sono, tuttavia le immortali «Ponteio» di Edu Lobo e "Odeon" di Ernesto Nazareth, «Canto de Ossanha», una versione molto personalizzata di «Asa Branca» di Luís Gonzaga, la jobiniana «Luíza», la buarquiana «Atrás da Porta», l'antica «A Baixa do Sapateiro» di Ary Barroso, l'intramontabile «Manhã de Carnaval» di Bonfá, «Menino Desce Daí» (un brano di Paulinho Nogueira che non gode di larga diffusione, a queste latitudini) e, come accennavamo, ripetuti omaggi alla musica brasiliana più nota in Italia («Tristeza», «Garota de Ipanema», «Aquarela do Brasil», «O Que Será» e «Wave»). Sopravvivono, piuttosto (e ci piace sottolinearlo), l'abitudine di impossessarsi delle note altrui e di centrifugarle in un tappeto sonoro molto personale e, a volte, dichiaratamente confidenziale; quel gusto di divagare attorno al tema centrale, puntualmente ripagato con ricami e arabeschi, attinti dal bagaglio dell'antica e premiata scuola della bossa nova. E, ovviamente, sostenuti fortemente dalla sua propria abilità. Quella che ci spinge, ogni volta, a tornare ad ascoltarlo, appene se ne presenta l'occasione. Quella che continua a scolpire la meraviglia in chi, Irio De Paula, l'ha solo sentito nominare o lo conosce appena. E che, immediatamente dopo, si lascia catturare da una chitarra suadente e dal profumo del suo Brasile lontano, vicino, antico ed attuale. Perché la qualità non è mai un'opinione.

Irio De Paula (chitarra)

Taranto, Ramblas Musiclub

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

giovedì 23 agosto 2007

Applausi tra le ombre

Il Brasile è un sogno speciale, soprattutto per chi può sognare. Per altri, è terra aspra. E poi gli anni settanta sono un'epoca difficile: si propaga la cosidetta abertura, ma il regime militare è ancora presente, oppressivo. Jim Porto è un giovane artista arrivato a Rio de Janeiro dal Rio Grande do Sul, ma che abbastanza presto decide di scavalcare l'Atlantico e atterrare in Italia. Dove colora le notti del Manuia, uno dei locali preferiti della movida romana, movimentando la scena musicale, iniettando lo spirito del proprio Paese: che, a quei tempi, in Europa è ancora una macchia sulla cartina geografica, o poco più. Sono anni di gavetta, a metà strada tra il concerto e il piano bar. E quegli anni servono prima a sopravvivere e poi a vivere meglio. L'esperienza fortifica il ragazzo e il ragazzo rimane in Italia. Jim Porto, anzi, esporta la sua musica, solca la penisola e, nell'ambiente degli appassionati, si costruisce un nome sicuro. Pubblicando anche vinili e, più tardi, cd: come l'ultimo, recentissimo, "Live at Blue Note": alla cui realizzazione partecipa anche un jazzista rampante come Fabrizio Bosso, trombettista torinese che ama spaziare e che coltiva una precedente (ma ancora attuale) intesa musicale con un altro artista arrivato dal Brasile, Irio de Paula. Jim Porto, per capirci, non è una voce (e un pianoforte) qualunque: basti parlare di qualche antica collaborazione. Ad esempio, con Gilberto Gil e Milton Nascimento: non è poco. Anzi, il suo pianismo fluido, la sua facilità di espressione musicale, le larghe concessioni alla platea e un'esuberanza tutta sudamericana sono garanzia di spettacolo e buon umore. La capacità di reggere lo spettacolo è, oltre tutto, limpidissima: adeguatamente rodata nelle ore notturne spese tra cocktail e cornetti, in una Roma che non voleva dormire. Eppure, il live presentato in compagnia dei Narandiba a Cisternino, ultima proposta della quattordicesima rassegna "Pietre Che Cantano", dedicata (quest'anno, così come il prossimo) a diverse sonorità che partono dal Brasile, non ci ha particolarmente convinti. E non per i fondamentali musicali (innegabili) dell'interprete gaúcho (con l'accento rigorosamente sulla u: da non confondere con un gaucho argentino). Ma, soprattutto, per il taglio eccessivamente nazional-popolare (o commerciale, fa lo stesso) conferito al concerto, per la scelta (scontatissima; anzi, aggiungeremmo banale) del repertorio (Jim Porto ha raccolto una decina di brani brasiliani tra i più popolari in Italia, arrangiandone qualcuno in maniera, peraltro, convincente; senza però offrire qualcosa di più o di diverso: in due parole, accontentandosi e accontentandoci), per la formula un po' abusata (l'immancabile viaggio all'interno del Brasile) e per l'errata valutazione di considerare un festival (o una rassegna, fate voi) alla stregua di un piano-bar. E, ancora, per qualche sbrigativa versione di alcune composizioni importanti, all'interno della storia della musica popolare brasiliana: detto per inciso, non ci è sembrato affatto che ricordasse i testi di "O Que Será" di Chico Buarque de Hollanda (strofe invertite, altre tranciate, verbi modificati: e l'improvvisazione, in questi casi, non c'entra) o di "Aquele Abraço" di Gilberto Gil (e crediamo che la supposta sicurezza di incontrare un pubblico inconsapevole o particolarmente tollerante non può ragionevolmente salvarlo, nell'occasione). Intendiamoci, però: la gente si è divertita ed ha anche applaudito, con la giusta convinzione di chi non possiede le argomentazioni per dissentire, o di chi non può (o non vuole) approfondire. E, allora, va bene così. E, in fondo, va bene anche a noi, ci mancherebbe. Del resto, la musica, come una qualsiasi manifestazione di intrattenimento, deve piacere. Ma non sottoscriviamo l'approccio di Jim Porto al concerto e neppure molti dettagli. Come, appunto, quello di esimersi dall'offrire uno spaccato più preciso e aderente alla realtà (ovvero, lontano dal già troppe volte ascoltato) di un Paese come il Brasile: da parte di un brasiliano, oltre tutto, ci è sembrato ingeneroso. Una realtà che, diciamolo forte e chiaro, va oltre le famosissime "Aguas de Março" (tuttavia ben suonata e arricchita da vocalizzazioni intriganti, così care ai jazzisti), "Você Abusou", O Bébado e a Equilibrista" (bella versione, va detto), "Eu e Você" di Jobim, "Flor de Lis" e "Sina" di Djavan, "Mas Que Nada" e "País Tropical" di Jorge Ben, che sono brani ormai utilizzati da chiunque. Che siamo abituati ad ascoltare ovunque. E che non avremmo sospettato di incontrare (non tutti assieme, almeno) in una rassegna: una rassegna che gli organizzatori stessi definiscono, anche con legittimo orgoglio, di nicchia. Senza parlare dell'incursione, nella parte finale del live, di "No Woman No Cry" di Bob Marley: canzone che, sicuramente, fa audience, ma che poco s'inserisce nel contesto: malgrado proprio Gilberto Gil, ultimamente, ne abbia partorito una versione brasiliana. Un altro evidente omaggio alla globalizzazione. O, più probabilmente, alla commercializzazione. Appunto.

Jim Porto (voce e pianoforte) & Narandiba (Jurandir Santana: chitarra; Marco Frattini: basso; Maurício Melo: batteria)
Cisternino (BR), Piazza Vittorio Emanuele
Pietre Che Cantano 2007 - Brazillusion

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

sabato 31 marzo 2007

Itinerario Brasile

Il Brasile raccontato senza retorica. Può persino succedere, nell’Europa distante e, in particolare, nell’Italia dei luoghi comuni. Il Brasile suonato con rispetto storico, con garbo e sobrietà, con attenzione. E sintetizzato in un percorso musicale agile e rapido, ma non per questo lacunoso e frettoloso. Dove appare nelle sue posture molteplici: quella dello choro – ritmo datato, ma rinfrancato dal fascino di una recente e massiccia riscoperta - , del baião – sonorità popolare dell’arido Nordest - , dell’immancabile samba, della consumatissima bossa, ma anche quella del samba-canção (un ibrido che, nel tempo, si è imposto, conglobando interpreti e situazioni diverse) e, infine, dell’afro-samba. Cambiando in spiccioli, il Brasile delle infinite sponde. Attraversato in un’ora e mezza di note curate e originalmente arrangiate, in un live raffinato e disteso tra stili e autori pregiati. Un’ora e mezza consumata piacevolmente al Siddharta di Taranto, jazz club al diciassettesimo anno di resistenza, casa naturale dell’ormai anziana rassegna «Dove C’è Musica C’è Speranza» e palcoscenico diviso, per l’occasione, da Gianluca Persichetti, chitarrista tradizionalmente attratto dalle tonalità etniche in genere e brasiliane nello specifico, e dal percussionista Stefano Rossini, già compagno di viaggio di un virtuoso come il carioca Irio De Paula e di un certo paulistano che si chiama Toquinho. Persichetti e Rossini, ovvero un sodalizio ormai rodato da due lavori discografici (il primo, «Esperanto», esce nel 1998; il secondo, «Itinerario Brasile» è un prodotto pubblicato nel 2005 e già presentato al Festival di Frascati, kermesse di ampio respiro oroverde) , da un’intesa artistica piena e prolifica, ma soprattutto dal comune impegno presso l’Accademia Romana di Musica. Concerto itinerante, si diceva. Pronto a seguire fedelmente il cd da cui trae origine e nutrimento e per niente disposto a rinunciare a grandi classici del genere (dall’immortale “Aquarela do Brasil” a “Prá Machucar Meu Coração” e “A Baixa do Sapateiro” di Ary Barroso; da “Samba do Avião” di Tom Jobim all’antico e ancora freschissimo “Brasileirinho”; dall’elegante “Odeon” di Ernesto Nazareth ad “Asa Branca” di Luís Gonzaga, presentata con la sinuosissima viola caipira, una chitarra di cinque corde doppie; da “Lamentos do Morro” di Garoto a “Canto de Ossanha” di Vinícius e Baden Powell), la maggior parte dei quali generati tra gli anni trenta e i quaranta del novecento. Passando per un paio di proposte personali (“Prá Ficar Juntos” e “Lembrança” sono firmati da Gianluca Persichetti) e per “O Trenzinho do Caipira”, una composizione partorita da Heitor Villa Lobos, il primo in Brasile ad aver accostato la musica erudita a quella popolare (il brano, non a caso, fa parte delle celebri “bachianas brasileiras”). Concerto dai contenuti didattici, verrebbe da dire. Di assoluto rigore, tecnicamente parlando. Ma pure di vigore interpretativo, come testimoniano gli assoli robusti alle percussioni (agogo, pandeiro e reco reco compresi) e alla batteria di Stefano Rossini, personaggio di spessore assoluto nel proprio campo (è consulente per la costruzione degli strumenti UFIP, oltre che collaboratore storico della rivista «Percussioni», per la quale cura una rubrica didattica e una storica sulla musica popolare brasiliana). Vigore che nulla, peraltro, sottrae al delicato intreccio di note e di accordi su cui dichiaratamente il repertorio si aggrappa. Solidificando, al contempo, un concetto: quello secondo il quale non è obbligatorio continuare ad inseguire strade alternative. Il passato – musicale, in questo caso – può anche bastare e avanzare: indispensabile, piuttosto, è continuare a valorizzarlo con metodo e intelligenza. Con le intuizioni convinte, prima ancora che con il mestiere. E senza retorica.

Gianluca Persichetti (chitarra, viola caipira e cavaquinho) & Stefano Rossini (batteria e percussioni)
Taranto, Siddharta Jazz&Art
Dove C’è Musica C’è Speranza 2007

(pubblicato sul sito www.levignepiene.com)

mercoledì 12 luglio 2006

La prima volta del Trio de Janeiro

Lui, chitarrista di talento ormai riconosciuto, anche oltre regione. E jazzista con la passione delle atmosfere mediterranee. Lei, vocalist salentina d’estrazione e barese d’adozione. E due preferenze: gli standard eleganti e gli autori brasiliani. Di bossa, ma non solo. L’altro, percussionista tranese, personaggio amabilissimo e musicista per purissimo diletto. Cioè, Guido Di Leone, Paola Arnesano ed Enzo Falco. Ovvero, il Trio de Janeiro, formazione che presta il titolo al cd appena approntato, da pochissimi giorni sul mercato discografico e firmato dall’etichetta indipendente Fo(u)r. Etichetta, peraltro, giovanissima, ideata proprio da Guido Di Leone lo scorso inverno. Il lavoro è ovviamente destinato ad un pubblico che apprezza la musica d’autore brasiliana che va dagli anni quaranta agli anni novanta e, anche e sopratttto, la bossa nova, non eccessivamente inquadrata dalle coordinate del jazz, storicamente parente stretto di molte tonalità che arrivano da quella fetta di Sud America. L’album è una raccolta di ventitre brani che attingono dal repertorio di Chico Buarque de Hollanda (“Atrás da Porta”), Ary Barroso (“Na Baixada do Sapateiro” e “Na Batucada da Vida”), Caetano Veloso (“Desde Que o Samba E’ Samba”), Tom Jobim (le immancabili “Desafinado”, “Insensantez”, “Aguas de Março” e “Garota de Ipanema”), Baden Powell (“Vou Deitar e Rolar”, “Lapinha”, “Cai Dentro” e “Samba Triste”), João Bosco (“Cobra Criada”, “Bala Com Bala”), Edu Lobo (“Corrida de Jangada”), Nelson Cavaquinho (“Folhas Secas”), Djavan (“Fato Consumado”), Gilberto Gil (“Meio de Campo” e “Amor Até o Fim”) e di altri autori ancora. Ventitre brani peraltro rivisitati in un live che ha voluto espressamente (e ufficialmente) presentare il prodotto finito, ma appaltato nel tempo: perché il Trio de Janeiro, di fatto, si muove sui palcoscenici di Puglia - e anche di fuori regione - da anni. Senza aver, però, mai generato un disco capace di sintetizzarne il percorso. Almeno sino ad oggi. Un live, oltre tutto, inconsueto: perché confezionato sul mare (anzi, sui due Mari), all’interno di un battello (Cala Junco, solitamente adibito al trasporto turistico). Musica in movimento, cioè: l’ultima frontiera abbattuta sulla strada degli spettacoli dal vivo. In una terra che, evidentemente, comincia ad avvertire il bisogno di industriarsi, di valutare nuove idee e di credere nel turismo, fonte mai troppo amata. Musica in movimento, frutto di un’invenzione di Larry Franco, pianista tarantino e, ovviamente, direttore artistico di una rassegna, «Jazz nei 2 Mari», che guarda al dixieland e anche oltre. E che ha offerto (e continuerà a farlo) altri appuntamenti, rigorosamente estivi. Tra le onde, intanto, il Trio de Janeiro ha saputo garantire spartiti lievi, ma intrisi di significato, non solo musicale (il repertorio brasiliano d’autore affonda le proprie radici anche nella ricercatezza dei testi: ma chi non conosce il portoghese avrà difficolta a percepirlo). Divertendosi, senza prendersi troppo sul serio. Puntando, nel contempo, sulla qualità. Ma, innanzi tutto, per Guido Di Leone e Paola Arnesano si è trattato di un ritorno (gradito) alle sonorità oroverdi: basti pensare alla precedente esperienza di «Abrasileirado», inciso con l’apporto di diversi musicisti di casa nostra, tra i quali Mario Rosini. Non troppi anni addietro.

Trio de Janeiro (Paola Arnesano: voce, surdo e congas; Guido Di Leone: chitarra; Enzo Falco: percussioni)
Taranto, Motonave Cala Junco
Jazz nei 2 Mari

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

venerdì 20 maggio 2005

Graffiando il silenzio

Atmosfere brasiliane – diciamo anche erudite, ma pur sempre brasiliane – e italiche note d’autore. La rivisitazione della bossa nova, tanto gusto classico che ricorda anche e soprattutto Villa Lobos e il jazz europeo. L’incrocio si ripete: anzi, la commistione carbura. E la proposta si allarga, generando nuove tournée. La sana abitudine, cioè, si consolida, diventando motivo di soddisfazione, soprattutto a certe latitudini, dove è ancora possibile ascoltare musica brasiliana di qualità: ringraziando il concetto di contaminazione. Che, talvolta, induce a dubitare. O diffidare. Ma, che – sempre più spesso – offre date e situazioni altrimenti fruibili a fatica. Guinga e Gabriele Mirabassi: insieme ancora una volta, sempre più spesso. Soprattutto per pubblicizzare «Graffiando il Silenzio», il loro ultimo lavoro. Ultimamente (e prossimamente), attraverso molta Europa (Olanda, Austria, Inghilterra) e Stati Uniti. E, ovviamente, ospiti graditi anche in Italia: da Bologna a Roma, da Asti a Trieste. E applauditi anche a Lecce, nell’ultimo live della sezione invernale della rassegna Jazle 2005, curata dall’associazione culturale Dodicilune. Una rassegna che, ciclicamente, propone un po’ di Brasile all’interno di un cartellone di forte matrice jazzistica (quest’anno, per la cronaca, sul palco del Teatro Paisiello si sono alternati Bob Mintzer, il trio di Andrea Pozza, lo Steve Turre Quartet, Kenny Wheeler e John Taylor ).
Guinga e Gabriele Mirabassi: una voce (fugace e vellutata, apparsa in un solo pezzo), una chitarra (puntuale, ricercata, talvolta accademica) e un clarinetto (quello dell’artista perugino, virtuoso e ispirato). Misturando tutto, ne esce un repertorio incisivo, raffinato, elegante. Di matrice colta, ma popolare quanto basta: dove emerge la cura del particolare, del dettaglio. E una robusta dose di ironia: all’interno di uno spettacolo niente affatto legato o ingessato. Né stantio: ma vivo, intenso. E denso. Dove fioriscono un interplay assoluto e una complicità collaudata. E un’amicizia consolidata. «Ogni sera Guinga rinnova un’emozione fortissima. E’ un bel personaggio», fa sapere Mirabassi alla gente. Che ascolta in silenzio. Un altro sucesso, di questi tempi sgarbati.

Guinga (voce e chitarra) & Gabriele Mirabassi (clarinetto)
Lecce, Teatro Paisiello
Jazle 2005

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

lunedì 30 agosto 2004

Irio De Paula, affezionato e ispirato

Alla Puglia, Irio De Paula è rimasto affezionato. E, a queste latitudini, ci torna spesso. Lo ha fatto anche quest’anno: prima presentandosi a Martina (il suo live era inserito nella versatile rassegna Notti Barocche, curata dall’associazione Palco Barocco), poi a Marina di Pulsano e, infine, a Manduria (inserito nel cartellone di Radici 2004). Affezionato, dicevamo. E, malgrado il tempo che scorre, sempre ispirato. Malgrado abbia (momentaneamente e, comunque, non del tutto) preferito alla chitarra classica quella semiacustica: che gli ha permesso di presentare una scaletta infarcita di poco Brasile e di tanto jazz. Tuttavia, il programma – forse impropriamente definito come Sambajazz e consumato con la corposissima collaborazione di un batterista di spessore qual è il romano Stefano Rossini e del bassista Giorgio Fontana, pure lui romano - è piaciuto. Anche a chi, magari, avrebbe gradito ascoltare (o riascoltare) l’ennesimo fedele contributo alla bossa nova di Carlos Lyra, Baden Powell, João Gilberto e Luís Bonfá.
Irio De Paula, intanto, è sempre tecnicamente perfetto. Tanto da proseguire a recitare le note a memoria, com’è tradizione. Quasi con nonchalance: ma garantendo un livello di professionalità intatto. Specificità che, negli ultimi trent’anni, lo ha regolarmente premiato, dotandolo di una visibilità continua e ampiamente nazionale. Sin dai tempi del Manuja, locale ingiustamente eclissatosi dalle notti della capitale. Il suo talento genuino, cioè, emerge sempre. E non solo, quando –in prossimità della fine del concerto- si ritaglia uno spazio tutto suo, proponendo (da solo e con la chitarra classica) qualche clássico del suo Brasile: "Odeon" di Nazareth, per esempio, oppure "O Que Será" di Chico Buarque de Hollanda.
Il resto del repertorio, invece, è essenzialmente jazz e, oltre tutto, fortemente elettrico (l’apporto di Giorgio Fontana si fa sentire). Anche se bene si inseriscono le versioni riarrangiate di "Travessia", composta da Milton Nascimento nel ’66, e di "Wave", uno dei brani onnipresenti della produzione di Tom Jobim. E che, di fatto, preservano all’interno del live un ulteriore spazio alle sonorità del Brasile. Le stesse che Irio ha contributo a diffondere in Italia, quando il mercato discografico non era ancora globale e quando la cultura verdeoro non era ancora un modello alla moda.

(pubblicato dal mensile "Pigreco")

domenica 27 luglio 2003

Salento, finestra sul Brasile

Negroamaro è una finestra sul mondo. Negroamaro è già un`etichetta di prestigio. La world music d`autore penetra nel Salento, impossessandosi di palazzi, piazze e masserie storiche. Negroamaro è una rassegna di qualità, sulla soglia della popolarità, studiata e germogliata per essere apprezzata, più che per riempire i vuoti dell`estate. Negroamaro entra nel cuore del Brasile. E i tre concerti accartocciati attorno ad un unico filo conduttore proiettano la rassegna più frizzante del panorama musicale pugliese nel circuito dei live di assoluto prestigio. Time Zones coordina e propone: la firma è un certificato di garanzia. Si intuisce, si sente. Cominciano Maria Bethânia e Gilberto Gil, nel cortile di Palazzo dei Celestini, la casa dell`Amministrazione provinciale di Lecce che organizza la rassegna. Ritmo e riflessione, buon gusto e provocazione: il concerto è persino sobrio, ma non ingessato. Gil è un menestrello prestato alla politica e al governo di Lula, di cui è Ministro della Cultura. Niente giacca e niente cravatta: l`abbigliamento è quello di sempre, fortemente casual. I capelli intrecciati sono più lunghi del solito. Sessantun anni, senza sentirli: Gilberto entra ed esce dal reggae, deborda nella bossa nova, naufraga nel tropicalismo. Colpisce dritto ai sentimenti, si affida ad un repertorio sicuro, datato ("Requiem", "Os Mais Doces Bárbaros", ad esempio), parla di intolleranza religiosa, omaggia l`immortale Dorival Caymmi. Maria Bethânia è voce carismatica e forte, è sorriso contagioso. Pretende un suo spazio e lo occupa, a piedi nudi. Entra ed esce dalla scena, dosandosi, sovrapponendosi ed alternandosi a Gil. L`approccio comune è un tributo a Milton Nascimento ("Fé Cega, Faca Amolada"), poi arriva "Filhos de Gandhi", quindi l`intensa "O Indio". "Sem Fantasia" (di Chico Buarque de Hollanda) è, più tardi, un`interpretazione vibrante, suggestiva: le voci si incrociano, Gil si inginocchia in rigoroso rispetto. Il pubblico accompagna e, talvolta, preme. Dimenticando i disguidi delle ore che precedono l`appuntamento, la fila al botteghino e le ridotte dimensioni del cortile che non può accogliere tutto il mondo che pulsa dietro al portone del palazzo. La seconda tappa del segmento si sposta (anzi, devia a programma già pubblicato) in Piazza Duomo, dove Lecce svela i segreti migliori. Il palcoscenico ospita due protagonisti: Caetano Veloso e la sua chitarra. Caetano non è più l`artista sondato dalla fetta più alternativa del popolo musicale. Caetano, adesso, è una realtà ramificata e digerita dalla grande folla. Che segue e recita ogni brano, ricalcandone il portoghese. La piazza è gremita, la gente decodifica e canta, sostituendosi all`autore (è il caso di "Terra" che, a proposito, Teresa De Sio sta lanciando nella versione italiana). La scaletta introspeziona il passato ("Os Passistas", "Branquinha", "Minha Voz Minha Vida", "Lua Lua Lua", "Meu Coração Vagabundo", "Genipapo Absoluto", "Você é Linda", "Sampa", "O Estrangeiro", "O Leãozinho"), accarezza il suo sogno cinematografico ("Michelangelo Antonioni" è un brano espressamente pensato e scritto in italiano), cede ad un classico americano ("Stardust"), si avvicina all`immortalità delle note di "Volare", ripercorre il viaggio rischiato con Pedro Almodóvar ("Cucurucucu Paloma") e riapproda in Brasile ("Desde que o Samba è Samba"). Caetano è la voce modulata di sempre, è sonorità lieve e intensa, slanci e compostezza, ricami e concretezza, timidezza e sfrontatezza. Il Brasile di Negroamaro 2003, poi, emigra in provincia. Il terzo appuntamento coinvolge Cannole, a metà strada tra Maglie e Otranto: l`effervescente e verboso Chico César si affaccia alla Masseria Torcito, fortificata e ristrutturata, un angolo di storia tra i campi che annunciano la Grecìa. Il paraibano movimenta l`atmosfera quasi distratta di un pubblico ristretto: l`ultima tappa oroverde della manifestazione (che continua anche nel mese di agosto, attirando iniziative collaterali) è quella meno attesa e anche quella meno visitata, ma diventa presto la più spontanea. La gente colma il vuoto tra il palco e la prima fila destinata alle autorità, fatalmente assenti: il suo invito alla partecipazione popolare è accolto con simpatia. Gli addetti alla sicurezza, spiazzati, cedono lo spazio («Voi fate il vostro mestiere, io il mio: il pubblico resta qui»). Chico César è un nordestino tuttora legato alla cultura profondamente rurale della propria terra: e allora il frevo e il côco incrociano la strada di sonorità più contemporanee. L`innovazione innerva il folclore, o viceversa. «Non sono il Brasile consacrato, sono il Brasile alternativo»: il concetto scaccia gli avanzi di un dubbio. Il personaggio è trasparente, comunicativo. "Respeitem Meus Cabelos, Brancos" ("Rispetta i Miei Capelli, Uomo Bianco", brano inciso recentemente in compagnia di Chico Buarque) è l`ironia che precede "Mama Africa" e, più tardi, un tributo rigorosamente strumentale al jazz, un assaggio di reggae e un appello a favore dell`azzeramento del debito estero dei Paesi più poveri. Perchè la musica popolare, in Brasile, sa ancora navigare nel mare dell`impegno sociale.

Maria Bethánia e Gilberto Gil
Lecce, Atrio del Palazzo dei Celestini

Caetanno Veloso
Lecce, Piazza Duomo

Chico César
Cannole (LE), Masseria Torcito

Salento Negroamaro Festival 2003

(pubblicato dal sito www.musibrasil.net)

giovedì 28 novembre 2002

Il Brasile interiore di Barbara

L’atmosfera calda del club, intimo e fumoso, luci soffuse e poi tanta bossa. E non solo. Siddharda Jazz & Art, Taranto, Puglia, Brasile: Barbara Casini, una chitarra, la voce, l’interpretazione. Dolce e decisa, con sentimento. Lo swing riesce a compensare l’assenza della band: Barbara canta e suona, da sola. In mezzo alla gente sparpagliata sul pavimento, arroccata sui tavoli. Contatto stretto, intenso. «Per una volta ho voluto esprimermi così, senza compagni di viaggio. Ma nella tournée che ho già inaugurato ci sono anche i miei amici. Addirittura, c’è una novità: mi accompagna un’attrice. Il suo compito è tradurre dal portoghese, spiegare i testi, rendere più partecipe il pubblico, assistere chi non conosce la lingua». Accedere al Brasile: spesso, il problema è questo. Decodificare le note non basta. Scandagliare i testi, sviscerare l’anima dell’autore, scoprirne il pensiero, navigarne l’inventiva: il percorso è sdrucciolo, ma pure appagante. Barbara apre una parentesi a metà concerto e racconta in italiano "Tatuagem", di Chico Buarque: un testo per tutti. «Chico è l’autore al quale, probabilmente, mi sento più legata: al pari di Jobim, evidentemente». Sì, non solo bossa. L’appuntamento del Siddharta si snoda attraverso Caetano Veloso ("Os Passistas" inaugura il concerto), Gilberto Gil ("Eu Vim de Bahia"), Ary Barroso (con due classici: "Baixa dos Sapateiros" e "Aquarela do Brasil"), Carlos Lyra ("Você e Eu"), Antônio Carlos Jobim ("Desafinado", "Aguas de Março", "Retrato em Branco e Preto"), Vinícius ("Eu Sei que Vou te Amar") e, appunto, Chico Buarque ("Futuros Amantes", la già citata "Tatuagem", "Vai Trabalhar Vagabundo", "O Futebol" e "Feijoada Completa", che apre l’appendice dei bis). Senza dimenticare Edu Lobo: Barbara e la sua chitarra rischiano anche la quantità di note e il sapore nordestino di "Ponteio". E il risultato è ampiamente soddisfacente. Pronuncia sicura del portoghese e modulazione di voce: Barbara affascina. «L’amore per il Brasile è sbocciato molto presto. Il perché? Non c’è un perché che spieghi la passione. Poi, all’inizio degli anni novanta ho preparato oltre oceano il mio primo lavoro. Adesso posso contare su diverse fatiche: da "Outro Lado" a "Todo o Amor", da "Sozinha" a "Vento", un lavoro realizzato al fianco di un jazzista di spessore qual è Rava”. Barbara e il suo Brasile. Barbara oltre il Brasile. Tra bossa, samba-canção e MPB spunta anche la produzione personale. "Vento" è un pezzo delicato, espressivo, pensato e sviluppato interamente in italiano: ma l’ispirazione è autenticamente brasiliana. Interprete, ma anche cantautore di concetti e pensieri. Pure il secondo brano proposto ha un’identità precisa, ma è inedito. Manca solo il titolo: arriverà anche quello. Poi, una proposta lanciata alla gente del Siddharta: «Indiciamo un concorso, scegliamolo insieme». Intanto, la serata scivola veloce.

Barbara Casini (chitarra e voce)
Taranto, Siddharta Jazz&Art
Dove C'è Musica C'è Speranza 2002

(pubblicato dal sito www.musibrasil.net)