martedì 6 agosto 2013

Il pericolo dell'omogeneizzazione

Ci avventuriamo in un argomento delicato, sfiorando l'impopolarità. Lo sappiamo bene. E rischiando di calpestare le certezze di tanti, di intralciare certe convinzioni che si arrampicano veloci, di indispettire una corrente di pensiero, secondo cui suonare e fare musica è la stessa materia, di inimicarci qualche manager dello spettacolo globale, di offendere le pur sempre meritorie operazioni di quanti organizzano eventi dal vivo, di pungere quanti preferiscono accontentarsi o, più semplicemente, chi è disposto ad applaudire sempre tutto, perchè tutto va bene. Purchè la piazza sia animata e purchè un concerto sia la colonna sonora della serata, in sottofondo, tra un drink e lo struscio. Scendiamo su un terreno sdrucciolo, di questo siamo perfettamente convinti. E confidiamo di non essere fraintesi troppo. Consapevoli di una realtà che ci inquieta non poco: il movimento musicale si sta concedendo, sempre più spesso e sempre più chiaramente, ad una massificazione preoccupante. Spettacolarizzazione, infiacchimento della progettualità, commistione selvaggia: in sintesi, la questione è qui. Dove la logica è costretta dall'urgenza, dalla necessità incontrollata di dover offrire, a qualunque costo, la novità e la diversificazione della proposta. Anche quando non è il caso e non sussistono i presupposti. Ci sembra davvero di assistere impotenti ad una rincorsa affrettata verso la nazionalpopolarizzazione. Che non miete vittime solo nella musica leggera o nel pop, come una volta. Ma che, invece, si sta impossessando pure di altre aree geografiche della musica. Come il jazz, ad esempio. Prendiamo quest'estate un po' affaticata. E soffermiamoci su un paio di rassegne di richiamo: il Locus Festival di Locorotondo e Pjazza Palmieri a Monopoli. Ben organizzate e gratificate dalla presenza di pubblico. Nonchè meritoriamente alimentate da nomi e cognomi artisticamente pesanti. E, particolare da non dimenticare, completamente gratuite: grazie, anche e soprattutto, al sostegno concreto dell'amministrazione pubblica. Due pilastri della programmazione di luglio ed agosto dell'area più centrale della Puglia. A cui, al di là di ogni analisi, spettano il consenso e la gratitudine della gente e degli addetti ai lavori: oggi, più di ieri, è tremendamente arduo proporre qualcosa e questo non lo dimentichiamo. Tanto per essere chiari. Sia il Locus che Pjazza Palmieri, per entrare nello specifico, ad un giorno di distanza l'uno dall'altro, regalano due differenti tributi alla genialità di Chet Baker, del quale ricorre il venticinquesimo anno dalla tragica scomparsa. A Locorotondo, il cantautore (e chitarrista) Joe Barbieri si allea con la tromba del beneventano Luca Aquino, una delle figure emergenti del jazz italiano di impronta più moderna, e con il calibrato pianoforte di Antonio Fresa. Ventiquattr'ore dopo, a Monopoli, l'attore Enzo De Caro, vecchio compagno di avventura di Massimo Troisi e Lello Arena, coinvolge in un reading-concerto il chitarrista napoletano Antonio Onorato, il contrabbassista Domenico Adria, il batterista Mario De Paola e il pianista Piero De Asmundis. L'idea (condivisa) è assolutamente apprezzabile. Il tema è stimolante. E il materiale non manca. Eppure, è proprio dentro i progetti che qualcosa non ci convince. La sensazione è che si voglia stanare e conseguire il consenso facile. Sino a tradire il concetto di tributo e il jazz stesso.
Dunque: Joe Barbieri è bravo. E lo dimostra anche sul palco. E' un cantautore elegante, dai toni confidenziali. Chitarra e voce, da soli, fanno persino charme. Del suo mondo, quella della canzone, conosce i tempi e le dinamiche. Ma le dinamiche, i tempi e i colori del jazz sono diversi. Il progetto, fondamentalmente, è suo. E lo modella attorno alle proprie esigenze. Finendo, così, per costringere in un angolo la tromba di Aquino: che, invece, dovrebbe essere il punto nevralgico dell'esibizione (e chi conosce la storia di Chet, non si chiederà neppure il perchè). Quella stessa tromba che, infatti, lievita appena Barbieri si assenta per pochi minuti. Il live, tecnicamente parlando, è ben suonato: ma rimane piatto, un po' floscio. E non decolla mai del tutto. Dall'altra parte, il reading di De Caro, che saccheggia alcune pagine scritte dallo stesso Baker, dopo aver riportato un intervento di Paolo Fresu, requisisce gran parte dello spazio, lasciando al trio molto accompagnamento e qualche angolo di luce (e ci può persino stare, considerate le premesse). Musicalmente parlando, da diverse angolazioni, questo concerto sembra più convincente del precedente. Manca, però, proprio la tromba: che la breath-guitar (il cui suono ricorda vagamente quello dello strumento a fiato) di Onorato non può surrogare impunemente. Malgrado lo stesso progetto nasca dichiaratamente con questi ingredienti: perchè, racconta lo stesso De Caro, nessun trombettista ha voluto azzardare il paragone con Chet. Difficile, allora, capacitarsi di questa irrefrenabile impellenza di tributare Baker: pur senza possedere i requisiti essenziali.
Due esempi tra le decine che ci vengono in mente. Gli ultimi, in ordine cronologico, a queste latitudini. Ma nessun protocollo d'accusa. Soltanto, un elemento di riflessione in più. Perchè, in tempi in cui gli inviti musicali promettono tanto e, di contro, si perdono nel gran mare della categoria dei riempitivi, sarebbe bene cominciare a interrogarsi. E a selezionare. Non è, del resto, la capillare fruibilità della musica che potrà salvare il movimento musicale: i più distratti passano, mordono e fuggono. Senza lasciare traccia. E senza che la musica lasci qualcosa a loro. E non è l'omogeneizzazione culturale la risposta alla crisi: quella, anzi, arreca solo danni. E non solo alla musica.