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venerdì 25 marzo 2011

Fado, temperamento e carisma


Occhi grandi, voce decisa. Insospettabilmente decisa, forse. Capelli biondi, cortissimi. Elegante, ma di temperamento. Molto temperamento. Mariza è il meglio che offre, oggi, il fado. Il fado che resiste, che non si piega. Che si rinnova, senza snaturarsi. E che ha imparato ad esportarsi: più e meglio di un tempo, sfruttando l’evoluzione della comunicazione e la globalizzazione. Il fado di Mariza Dos Reis Nunes, del resto, cavalca la tradizione, giocando sulle emozioni. Sulla drammaticità della voce. Su quelle movenze nette, un po’ fatali, delle cantanti di altre generazioni. E, ovviamente, su quei testi spesso cupi, carichi di tensione, d’istinti, di passioni, di immagini forti: che sanno di Portogallo intestinale e ruvido. Mariza, a Bari, nella seconda delle tre tappe italiane (dopo di Roma e prima di Milano) non calamita un pubblico vasto, per la verità. Malgrado la capienza limitata del Teatro Forma, auditorium dove la musica viene premiata: perché dalla platea si vede bene, ovunque ci si posizioni, e dunque si sente anche meglio. Tante sedie vuote: peccato. Perché l’artista è di spessore cristallino. E il suo repertorio intrigante, raffinato, interessantissimo. Dove convivono composizioni più popolari (“Barco Negro”, ad esempio, oppure “Fado Primavera”, due titoli resi celebri di Amália Rodrigues) e proposte meno conosciute, oltre confine. Anche il confezionamento dello spettacolo, peraltro, possiede un suo fascino discreto. Con il pubblico al di là e anche al di qua: sul palcoscenico, appena alle spalle della formazione che accompagna la vocalist più amata del panorama lusitano, al pari di Teresa Salgueiro e, ovviamente, di Dulce Pontes. Pubblico comodamente sistemato al tavolino, come nelle taverne di Alfama o della Mouraria. Questione di atmosfere, il fado. Mariza, mozambicana di nascita e lisbonese dall’età di tre anni, trascina qualche parola di italiano, ma si rifugia nel più rassicurante portoghese. E, comunque, riesce a comunicare. Sempre. Carisma solido, qualche ritaglio di dolcezza e carattere marcato: ci piace così. Molto carattere, sì: anche quando si tratta di sgridare qualcuno, in sala, che prova a fumare. Forse anche un po’ rigida, Mariza: ma capace di occupare il palco per intero, di riempirlo. E di catturare la scena. Grinta, vigoria, presenza: eredità indelebile delle grandi interpreti del passato. Ma, soprattutto, la voce al centro di tutto: il live è strutturato, intenso. E utile a presentare il suo quinto lavoro discografico, Fado Tradicional (un concetto che è un vero e proprio manifesto programmatico), uscito nel corso del duemiladieci, nove anni dopo la prima pubblicazione, e già disco di platino in Portogallo. Del quale fanno parte, tra le altre, “Rua do Silêncio” («un brano che mi riporta all’infanzia e al quartiere della Mouraria, dove cominciai a cantare ancora bambina»), “Ai, Esta Pena de Mim”, “Meus Olhos Que Por Alguém” e “Dona Rosa” (composta su un poema di Fernando Pessoa), proposte al pari di “Boa Noite Solidão” («la solitudine che incontriamo in certe stanze di hotel, nei gorni di tournée»). Nelle taverne di Lisbona, di solito, non c’è spazio per brani esclusivamente strumentali. Ma, talvolta, si può optare per un’eccezione: ecco, allora “Guitarrada“. E, più tardi, “Rosa Branca“, con cui Mariza, trentott’anni a dicembre, coinvolge la gente in un momento di interazione: «colhe a rosa branca, ponha a rosa ao peito», ovvero «raccogli la rosa bianca, mettila al petto» è la strofa che rimbalza tra le due ali del teatro, poco prima della conclusione del concerto. E del mancato incontro con il pubblico, dietro le quinte: che delude non poco un ristretto gruppo di fan, appassionati e connazionali dell’artista. Decisione brusca, algida: come in certe situazioni dal vivo di artisti italiani.

Mariza (voce), con Ângelo Freire (chitarra portoghese), Diogo Clemente (chitarra di fado) e José Marino de Freitas (basso)
Bari, Teatro Forma

domenica 26 luglio 2009

Joana, fadista di impronta antica

Tra il concetto di contaminazione e l’allargamento della prospettiva della world music, che sviluppano gli orizzonti e confondono le tracce, Joana Amendoeira è il nuovo che avanza, ma senza scavalcare. Joana Amendoeira è giovane e già ben inserita nella realtà del suo paese, il Portogallo. Ma il suo fado è l’ideale continuazione di quel vecchio percorso tracciato da Amália Rodrigues (ma non solo da Amália Rodrigues, sia chiaro) e battuto da Maria da Fé, Beatriz Da Conceição, Anabela, Dulce Pontes o Margarida Bessa. Il fado di Joana Amendoeira, cioè, è il nuovo vecchio fado. Non quello che prova ad arruffianarsi la simpatia di un pubblico più eterogeneo e anche più giovane, dentro e soprattutto al di fuori dell’universo lusitano. Non proprio quello ipotizzato, ad inizio di carriera, dalla meravigliosa Teresa Salgueiro, con i Madredeus. Ma quello più vicino all’anima popolare di Alfama, il quartiere di Lisbona dove il fado è nato. E cresciuto. E dove ancora vive, seminascosto alle ondate di turisti. Oppure quello che resiste in certi angoli della Lapa.
Il fado di Joana è quello tradizionale. E’ quello classico. Quello speziato dagli aromi di una terra unica, affiscinante. E di una città, Lisbona, attorno alla quale il fado si tempera e prende sostanza. Una città che non è la sua: perché Joana arriva dall’interno, cioè da Santarém, caposaldo della Reconquista portoghese. Lisbona che, appunto, nel fado si muove con pieno diritto di cittadinanza, senza uscirne mai. Il fado di Joana è il rispetto pieno del passato. Anche se, delle fadiste di un tempo, non possiede la teatralità marcata. Questa ragazza (ventisette anni a settembre) possiede però molta naturalezza. Unita all’ammirazione sincera per la musica che interpreta: «Questa è un’espressione artistica fortemente portoghese. Il fado canta la vita e le storie della vita. E aiuta la gente a ricordare le storie della propria vita».
Non è alta, Joana. Ma occupa il palcoscenico ugualmente. I musicisti al seguito si armano della sobrietà che il fado pretende. Pedro Amendoeira, che della cantora è anche fratello, imbraccia la chitarra portoghese e firma pure un brano in scaletta: perché inseguire la tradizione non significa precludersi la possibilità di creare nuove composizioni. Pedro Pinhal è il padrone della chitarra acustica, Paulo Paz supporta con il basso acustico. Il primo passo è un ricordo doveroso di Amália Rodrigues: e, dunque, l’esecuzione di uno dei suoi successi, “Estranha Forma de Vida”. E un omaggio al passato sono anche “Madrugada de Alfama”, “Aquela Rua”, “Se Eu Adivinhasse o Que Senti”, “Naufrágio”, “Barco Negro”, “O Fado de Outrora”. “Sopra o Vento” è, invece, la musicalizzazione di una composizione di Fernando Pessoa, così come “Viana” è il tributo all’omonima città del Minho, nel nord del Portogallo. La produzione più recente si sintetizza in tre canzoni, una delle quali è la delicata “Lisboa, Amor e Saudade”, titolo un po’ scontato che perrò accorre a rinsaldare il rapporto con la tradizione. Tradizione a cui - va detto per inciso - l’Adriatic International Festival, contenitore intelligente di musiche attinte da diverse culture, del quale il live è parte integrante (anzi, è l’appuntamento che chiude il ciclo di quattro incontri, smistato in altrettante location della provincia di Brindisi), si ispira dichiaratamente. Come i precedenti incontri con la musica irlandese dei Kila (alla Selva di Fasano), la banda di cornamuse palestinesi Guirab (a Brindisi) e il klezmer degli Amsterdam (a Sandonaci) si sono permessi di sottolineare.
«Non parlo bene la vostra lingua»: Joana si schermisce. Ma il linguaggio del fado è assolutamente diretto. Universale, a dispetto del Paese da cui proviene: nostalgico, appartato e, da sempre, abbastanza impermeabile agli impulsi che arrivano dall’esterno. La voce di Santarém, anzi, si fa intendere. E, alla fine, sorprende la platea salutandola con un brano in più che discreto italiano, “Canzone Per Te” di Sergio Endrigo, che l’autore istriano condusse a Sanremo sul finire degli anni sessanta, al fianco di un brasiliano, il giovane Roberto Carlos. Tempi andati, certo. E che ritornano, magari solo per un attimo. Tra le contaminazioni che si incrociano, certe volte, può accadere.

Joana Amendoeira (voce), Pedro Pinhal (chitarra acustica), Pedro Amendoeira (chitarra portoghese), Paulo Paz (basso acustico)
Cisternino (BR), piazza Vittorio Emanuele
Adriatic International Festival 2009

(pubblicato sul sito www.levignepiene.com)

domenica 16 luglio 2006

Dulce, ritardo perdonato

Per la prima volta in Puglia. E con tre mesi di ritardo: ampiamente perdonati. Dulce Pontes è il fado di oggi. Che è, poi, il fado di sempre. Poco riveduto e poco corretto: per fortuna, aggiungiamo. Perché il sentimento portoghese rispetta e risparmia ancora la tradizione. Alla quale il lusitano concetto di saudade è saldamente e indissolubilmente legato. Dulce Pontes ha chiuso la sessantaquattresima stagione concertistica dell’Associazione Amici della Musica “Arcangelo Speranza”, protrattasi in estate proprio per garantire il live di maggior richiamo, inizialmente previsto per aprile e successivamente posticipato tra i pini del teatro all’aperto allestito all’interno di Villa Peripato. Dulce Pontes, però, è soprattutto la voce ufficiale del Portogallo più vero, erede diretta di Amália Rodrigues. Ed è una voce piena, pregnante, drammatica. Con la quale, probabilmente, da Trás-os-Montes all’Algarve, di questi tempi può competere solo quella di teresa Salgado, leader consacrata dei Madredeus, formazione che si è ormai abituata a guardare al futuro. Dulce Pontes, invece, no. Perché racconta un Portogallo antico, forse ancestrale. Con sentimento ed emozioni violente. Il suo è ancora il fado del cavaquinho e della chitarra portoghese: attraverso il quale sfilano immaginariamente i miradouros di Lisbona, l’anima di Alfama e di Socorro, il Tago onnipresente, l’idendità di un Paese che si sta freneticamente allineando su ritmi sconosciuti, appena quindici anni addietro. Senza concedere tributi alle contaminazioni, alla modernità galoppante. E senza dimenticare di bagnarsi nelle note di uno dei canti tradizionali più famosi, “Andorinha”, che chiude il concerto al secondo bis. Ecco, il concerto: sobrio, elegante. Intenso. Che il pubblico (strano, ma vero, a queste latitudini) insegue con attenzione, in silenzio quasi devoto. Dettagli di non trascurabile spessore, dei quali si cominciava ad avvertire l’esigenza. Dulce modula la voce e si presenta al pianoforte. Più tardi, si alza e lascia la totale responsabilità musicale ad Amadeu Magalhães (cavaquinho, chitarra acustica, braguesa, flauti e corno), Felipe Lucas (chitarra portoghese); José Soares (chitarra acustica), Paulo Feitera (chitarra acustica), Lopes Da Graça (oboe), Daniele Zaccaria (violoncello) e Beto Betuk (percussioni). Regalando, soprattutto, la fragranza del suo Portogallo.

Dulce Pontes (voce e pianoforte), Amadeu Magalhães (cavaquinho, chitarra acustica, braguesa, flauti e corno), Felipe Lucas (chitarra portoghese); José Soares (chitarra acustica), Paulo Feitera (chitarra acustica), Lopes Da Graça (oboe), Daniele Zaccaria (violoncello) e Beto Betuk (percussioni)

Taranto, Teatro all’aperto di Villa Peripato

64ma Stagione Concertistica dell'Associazione Amici della Musica "Arcangelo Speranza”

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)