Visualizzazione post con etichetta cantautorale. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta cantautorale. Mostra tutti i post

lunedì 22 luglio 2013

Ozionà, il vecchio cantautorato che resiste

Probabilmente, in qualche angolo della nostra quotidianità edulcorata, globalizzata e anche un po' impalpabile, la canzone d'autore - quella di una volta, impegnata e gravida di concetti, magari datati e ampiamente metabolizzati, ma non per questo inutili o dannosi - resiste ancora. Eppure, la scarsa densità di contenuti incasellati tra gli spartiti ci aveva ultimamente preoccupati: siamo sinceri. E all'invasione incondizinata del pop dichiaratamente superficiale (non solo nel panorama cantautorale, ma praticamente ovunque, jazz compreso), ci stavamo ormai tristemente e lentamente abituando. Invece, qua e là, l'energia delle parole continua ottusamente e orgogliosamente a sgomitare: forse, per semplice istinto di sopravvivenza. O per una mera questione di ribellione: all'omologazione, innanzi tutto. O, forse, perchè non siamo tutti uguali e non sviluppiamo tutti gli stessi pensieri. Fortunatamente. Ecco, sì: quella canzone socialmente utile di un tempo - diciamo pure quella che abbiamo ereditato dai Lolli, dai De Andrè, dai Guccini, dai Fossati - e che abbiamo perso, anche per difetto di talento di chi è arrivato dopo, per la strada dell'uniformazione non è ancora del tutto evaporata. E combatte stoicamente. E' un dato oggettivo, di cui tenere conto. Ed è bastato dedicare settancinque minuti ad uno degli appuntamenti organizzati (in quest'estate sin qui mediamente povera e musicalmente un po' grigia) dall'amministrazione comunale di Polignano, per continuare a sperare.
Sul palco allestito in piazza San Benedetto, un vecchio ragazzo dal passato colorato di rock e illusioni: Fernando Grande, universalmente conosciuto anche con lo pseudonimo di Ozionà, chitarrista ormai stagionato e polemista rinvigorito dallo scorrere delle stagioni e delle avventure, più o meno all'inizio del nuovo millennio si è inventato un secondo percorso musicale. Cioè, un cammino più maturo e più intrigante, contenitore di differenti esperienze personali ed espressione di motivazioni evidentemente ancora cristalline. Che ci è piaciuto non poco, non lo nascondiamo: lasciandoci, anzi, positivamente sorpresi. Anche per quella freschezza del progetto che ha saputo miscelare melodia (gli arrangiamenti nascondono una certa impronta rockeggiante, ma ammiccano saggiamente alla musica popolare e alla world music, passando per la magia del teatro-canzone) e testi (pensati e poi scritti con consumato mestiere). Percorso, sia detto chiaramente, al quale l'autore monopolitano non è arrivato per caso: ma lavorando nell'ombra per anni interi. Sino a regalarsi tre album: Sia Quel Che Sia (2000), Magie di un Vento (2002, presentato anche sul palcoscenico di Zelig da Annamaria Barbera) e il più recente Tela di Ragno (dieci tracce edite nel 2007). Disco, quest'ultimo, niente affatto innovativo (nessuno può inventarsi più nulla, ci mancherebbe), ma di spessore eccellente. Dove convivono i temi più cari alla canzone d'autore più verace: la libertà, la dignità, la giustizia, la coscienza, l'uomo, la morte. La vita reale, quella di tutti i giorni. Di tutti noi.
Ozionà, che alla canzone d'autore arriva gradualmente (a proposito: il festival Voci dal Ponte che, da diversi anni, organizza non senza qualche difficoltà finisce per incidere profondamente sulle sue scelte artistiche: non ce l'ha confidato, ma di questo siamo sicuri), riesce a confezionare uno spettacolo accattivante, che scorre sereno, malgrado la natura - diciamo pure ostica - dei contenuti. L'apporto calibrato dell'elemento squisitamente musicale, dunque, diventa assolutamente imprescindibile: la chitarra e la batteria dello stesso Fernando Grande, il basso di Tonio Napolitano, il sassofono di Giovanni Longo e la fisarmonica di Francesco Giancola stemperano con puntualità l'impatto dei testi e annientano sul nascere tutte le possibili frizioni che possono allearsi nel corso di un ascolto impegnativo e, perciò, anche pericoloso (la gente diffida sempre più dell'impegno e del politicamente corretto). Oso – Un Viaggio nella Coscienza dell’Uomo è un lavoro, se vogliamo, multimediale (cioè preceduto da un cortometraggio proiettato prima del live e che, tra l'altro, ci ricorda un'amara verità: la giustizia è come una tela di ragno, che intrappola gli insetti più piccoli, facendo passare i più grandi) e, di contro, non è un progetto che proprio chiunque può masticare troppo allegramente, ma possiede la grazia di non spaventare, di non intimorire. E il risultato, riteniamo, è tutt'altro che indifferente. Anche se, alla fine, in platea viene a mancare il pubblico delle occasioni più popolari, quello più affezionato al passeggio di Polignano o alle esibizioni di una cover band qualsiasi. Ma, in fondo, non è un problema grosso: pochi (non pochissimi, intendiamoci), ma buoni. Cioè attenti. E sufficientemente silenziosi. Davanti alla gradinata di piazza San Benedetto non accadeva da secoli.

Ozionà (voce, chitarra, batteria etnica e percussioni), Tonio Napolitano (basso), Giovanni Longo (sassofono) & Francesco Giancola (fisarmonica) in "Oso - Un Viaggio nella Coscienza dell'Uomo"
Polignano a Mare (BA), Piazza San Benedetto
Inside the Blue 2013

(foto Michele Pezzolla)

mercoledì 29 agosto 2012

Storie d'amore e di marea

Stesso garbo di sempre, stesso incrocio di note gentili e concetti di sostanza. La musica dei Fabularasa resta parte di quel cantautorato di casa nostra che si nutre di racconti e di idee. E che lascia un buon ricordo. Cinque anni dopo En Plein Air, l'album d'esordio, ecco D'Amore e di Marea, la seconda produzione, firmata Radar Music e distribuita da Egea. Il disco è di uscita recente (maggio): ma la proposta dal vivo comincia ad affacciarsi. Oltre regione (Ancona, Sesto San Giovanni) e in Puglia (l'ultima data a Mola, nel Gazebo Dal Canonico, struttura ricettiva immersa nelle campagne di San Materno). Dove il quartetto barese (il paroliere, l'ispiratore e il band leader Luca Basso, che è pure la voce del gruppo; il bassista Poldo Sebastiani, il chitarrista Vito Ottolino e il batterista Giuseppe Berlen) divide il palco con un guest di assoluto prestigio e di riconosciuta sensibilità musicale come il clarinettista Gabriele Mirabassi, che poi ha condiviso la stesura del progetto anche in fase di registrazione. Anche se, nel registro degli ospiti dell'album, troviamo anche altri nomi: Paul McCandless, signore dei fiati degli Oregon, e la genovese Giua, compositrice e vocalist di versatile talento, il trombettista Giorgio Distante, Fabrizio Piepoli (voce), Maurizio Lampugnani (percussioni) e Gianni vancheri (al bouzouki).
D'Amore e di Marea, di fatto, insegue e completa En Plein Air. Sarà per quelle composizioni sincopate e spesso solari o per quell'abitudine di allacciare solidi rapporti con la scrittura che rifugge dalle ovvietà. O, come suggeriscono gli stessi Fabularasa, per quella musica fatta a mano, artigianalmente: che possiede un fascino proprio. Al di là del fatto che, proprio la presenza di Mirabassi, finisce per costituire un accrescimento sostanziale ad un profilo musicale già delineato e consolidato nel tempo. «Inseguivamo Mirabassi - confessa Luca Basso - da parecchio tempo. In realtà, però, le nostre strade si sono incrociate solo adesso: prima in studio e ora pure dal vivo. La data di Mola è stata, in pratica, la seconda che abbiamo vissuto assieme». Ma D'Amore e di Marea, oltre che d'incontri, parla soprattutto di storie: «Sì, perchè le storie ci piacciono. Come quella di quel giovane contadino pugliese che scrisse al suo datore di lavoro una lettera, in cui motivava il rifiuto ad accettare un dono di Natale, che i suoi compagni di fatica non avrebbero probabilmente capito o digerito. Quel contadino era Giuseppe Di Vittorio, la canzone si chiama "Il Regalo" e ci fa riflettere sull'onore, sulla dignità, sulla coscienza. E una storia di fantasia è pure quella che, in "Serenata della Controra", ci porta la figura di quell'innamorato un po' imbranato che va a proporsi a lei non di sera, ma durante il sonno del pomeriggio».
E storie, dopo tutto, sono quelle punteggiano i testi di "Aria", di "L'Oro del Mondo" (dedicata a chi condivide, incompreso, l'amore per la musica), di "Maiorana si Imbarca sul Postale", di "Leggero", di "Fiorile" e "Il Campo dei Girasoli" (entrambi riproposti per l'occasione, ma estrapolati dal primo lavoro discografico). Fa niente, poi, se l'atmosfera intima dell'appuntamento dal vivo si scontra con i problemi conviviali, con l'amplificazione che fatica ad allinearsi e con il vociare deciso dei bimbi effervescenti dislocati, diciamo così, in platea. Dove, comunque, non sfugge il coinvolgimento emotivo, che va al di là della professione e della professionalità, di Mirabassi: che si ritaglia, peraltro, anche un momento tutto suo, estraendo dal proprio bagaglio personale un brano di Caximbinha, uno degli eroi dello choro che, in Italia, nessuno o quasi avrà mai sentito nominare. Finendo, così, per impreziosire un percorso sonoro che si assesta attorno ai suoi racconti preziosi, piccole fotografie di una quotidianità che stentiamo a riconoscere. O a ricordare.

Fabularasa (Luca Basso: voce; Vto Ottolino: chitarre; Poldo Sebastiani: basso; Giuseppe Berlen: batteria) in "D'Amore e di Marea". Guest Gabriele Mirabassi (clarinetto)
Mola di Bari (BA), Gazebo Dal Canonico

mercoledì 15 agosto 2012

Branduardi, il menestrello ricercato

L'estate di Montalbano, una delle frazioni di Fasano, è anche il Folk Fest, balcone ormai abbastanza apprezzato sulla musica meno rassegnata. Che, ogni anno, tra un appuntamento e l'altro, inserisce una data di prestigio, in cui cantautorato e musica popolare si corteggiano. Questa volta, l'associazione A Sud inserisce in cartellone Angelo Branduardi, menestrello moderno ultimamente più abituato ai palcoscenici di un teatro, piuttosto che a quelli di un palasport o di una piazza, ma sempre felicemente disteso tra note eteree, orizzonti epici, fiabe, fantasie, ambientazioni gotiche e spiritualità. Anche se la sua produzione più recente comincia a caricarsi di venature più funkeggianti: che, probabilmente, l'esecuzione dal vivo finisce per amplificare. Però, è sempre un bel sentire: per la raffinatezza inattaccabile e l'incrollabile originalità delle sue composizioni, vecchie e nuove, per quella creatività sempre fluente, per quella ricercatezza narrativa che seduce, ma non pesa. E, ovviamente, anche per quel taglio musicale inconfondibile, che non rischia mai di apparentarlo con qualsiasi altro autore di casa nostra.
Già, la musica. Anzi, il suono. «Che poi - rivela - è il comun denominatore della nostra storia. Una storia di secoli che cerco di riassumere in pochi minuti. Quel suono da cui nasce tutto. Perchè anche il verbo di Dio va inteso come suono, prima ancora che come parola. Perchè il suono è presso Dio. Cioè, il suono è Dio. Quel suono cupo che prende forma nel nulla, dal nulla. Le prime creature, del resto, sono luce e suono. Dal quale arriva la musica, che è energia vitale, ovvero il miglior antidoto dell'uomo contro la paura della morte». La musica di questo signore garbato e colto (parliamo di cultura della vita, delle cose) si muove, peraltro, tra le corde vocali e quelle del violino, che una certa annedottica ritiene lo strumento del diavolo, come lo stesso Branduardi ricorda con un pizzico di vanità («E questa mi sembra una cosa ragionevole. Ma il violino è anche il compagno più aristocratico»).
La chitarra, invece, spunta molto più tardi, al tramonto del live. Che si inaugura con un le parole di speranza di "Si Può Fare", aprendo poi una finestra sull'esperanto di un artista che possiede il dono di sdoganare con naturalezza la genialità e, infine, sull'ultimo lavoro discografico, Camminando Camminando 2. «Non soffro, come tanti altri musicisti, del difetto di non riconoscere le mie composizioni che hanno ottenuto più successo»: dalla scaletta, così, sgorgano più avanti "Il Denaro dei Nani", testo innervato di doppi sensi che gli ultimi anni del panorama politico italiano hanno sapientemente coltivato, "La Tempesta", "Ballo in Fa Diesis", "La Pulce d'Acqua", "La Fiera dell'Est". «Sono brani seminuovi, è usato garantito», chiosa divertito. Sùbito dopo aver ironizzato sui talent show e prima di dedicare alla platea accalcata su piazza della Libertà "La Donna della Sera", «una canzone d'amore, una delle poche ho scritto, poggiata su un testo particolare e, sotto certi aspetti, ardito. Tanto che un paio di giornaliste, tempo fa, mi definirono macho. Magari. Questo, giusto per dimostrare che anch'io scrivo testi passionali. Ma sono andato dall'andrologo, non vi preoccupate».

Angelo Branduardi (voce, violino e chitarra) in concerto, con Leonardo Pieri (tastiere, piano, fisarmonica e programmazioni), Michele Ascolese (chitarre e bouzouki), Stefano Olivato (basso, contrabbasso e armonica), Davide Ragazzoni (batteria e percussoni)
Montalbano di Fasano (BR), Piazza della Libertà
Folk Fest 2012

giovedì 12 luglio 2012

De Santis, cantastorie moderno del Salento


Il cantastorie esiste ancora. Solo che la figura si è evoluta. E si sono evolute la tecnica del racconto, la semantica, l'approccio con la gente che ascolta e applaude, le dinamiche di comunicazione e qualche altro dettaglio ancora. Poi, oggi, c'è internet. E c'è youtube. E da lì, magari, passa parecchia produzione: che raggiunge il pubblico dietro la scrivania, oppure in un qualsiasi luogo che possa ospitare un tablet, uno smartphone o un portatile vecchio stampo. Prima ancora che nelle piazze, come si usava un tempo. Il cantastorie, di questi tempi, è un cantautore popolare: non troppo snob, ma al passo con la quotidianità. Che ne modella il linguaggio, la metrica e qualche altra cosa. Un cantautore che approfitta di serate quasi confidenziali, in questa o quella rassegna. In questa o in quella location: dove, perchè no, si prova a percorrere strade musicali parallele alle più battute, senza glamour e senza troppi effetti speciali, ma con un paio di idee da sviluppare. Pensando che fare musica, fare spettacolo e fare cultura è ancora possibile, attraverso la parola che insegue una rima e un paio di accordi in croce.
Il cantastorie non è ancora un retaggio dimenticato (o da dimenticare) del passato. Ma sopravvive, seppur con fatica grande. In provincia, ovvio, è più facile. E in certi angoli di un'Italia ancora verace lo è di più. Il Salento, ad esempio, è una penisola che sa custodire ancora certi ricordi, certi sapori, certe storie: da raccontare e da sentirsi raccontare. E' un lembo di terra che guarda avanti, ma che pure si rifiuta di segare per sempre il legame con il ritmo ancestrale che una chitarra, una voce e un po' di tradizione possono combinare. Mino De Santis, infatti, arriva da Tuglie. E del suo Salento parla. E, con ironia, sta cominciando a percorrere il Salento per presentare Caminante, il suo secondo disco. Perchè, di questi tempi, il cantastorie (e De Santis lo è: e ci auguriamo che non si offenda, in quanto è una condizione degnissima, è una dote ed è, oltre tutto, una verità) è discograficamente evoluto e, come vedremo, non rinuncia neppure a confezionare quelli che, una volta, si chiamavano videoclip e, adesso, sono veri e propri cortometraggi.
Cantastorie, dunque. O cantautore di estrazione terragna, fa lo stesso. Strumentazione e tonalità essenziali, timbri decisi e semplici, molte strofe, tanti concetti: la ricetta è semplice e funziona puntualmente. Chiaro, è la parola che viene prima dell'elemento squisitamente musicale. E' la parola che comanda. La parola, che poi è la storia, le storie. Storie che vengono da lontano, che dicono di una terra e dei suoi comandamenti, del suo passato e del suo presente, delle sue inclinazioni e delle sua speranze, dei suoi riti pagani e dei suoi drammi. Ma anche della vita dell'uomo qualunque e della morte, dei tic e dei vizi, degli intrighi di provincia e delle picaresche pieghe di un fatto di pubblico dominio. Storie di emigrazione, di partenze e ritorni, di viaggi e di sogni, di costrizioni sociali e di ipocrisie, di piccoli centri e di consuetudini antiche. Storie allacciate da testi diretti, sempre divertiti e, talvolta, intrisi di ruvida schiettezza: come nella migliore tecnica della composizione tradizionale. Testi anche particolarmente verbosi, lunghi e sarrati, da accompagnare con attenzione, per non perdere qualcosa. E per non perdersi nei meandri del dialetto, che comunque si sposa con una certa facilità di vocabolario.
Caminante, che De Santis presenta ufficialmente anche a Martano, nel quadro degli appuntamenti organizzati dall'amministrazione cittadina, è pure l'occasione per riproporre qualche passo della precedente produzione, Scarcagnizzu. E per proiettare, a metà di un live che supera le due ore di durata, Lu Ccumpagnamentu (Il Funerale), un video di una decina di minuti diretto da Gianni De Blasi, griffato Zero Production e realizzato interamente proprio in questo angolo di Grecìa, grazie alla partecipazione di numerosissime comparse rubate alle proprie occupazioni. E', in pratica, il singolo estratto da Caminante che viene lanciato, proprio in questi giorni, sui canali di internet: perchè, dicevamo, cantastorie va bene, ma nel pieno rispetto del tempo che viviamo e del progresso che ci ingloba. Con una finestra aperta su quella storia e su quelle tradizioni dalle quali (chi più, chi meno) veniamo.

Mino De Santis (voce e chitarra) in "Caminante"
Martano (LE), Giardini del Palazzo dei Duchi Gaetani di Castelmola
Estate Martanese 2012

venerdì 29 giugno 2012

Di Voce in Voce, nuovo look

Bari trova il suo contenitore logistico degli spettacoli all'aperto. E' il lungomare che accarezza la città vecchia, lambendo il porto. Piazzale Cristoforo Colombo è il nuovo crocevia delle note d'estate: da qui sono passati (o passeranno) la Festa dei Popoli, Bari in Jazz, live svincolati dall'etichetta di una manifestazione e altri appuntamenti ormai legati alla tradizione musicale del capoluogo e segnati da anni sulle agende degli appassionati. Non solo baresi, ovviamente. Come Di Voce in Voce, rassegna di nicchia (ancora oggi, malgrado la gratuità dell'evento e l'apertura ad una platea che, tuttavia, latita) e di contenuti non sempre dedicati ad un pubblico largo. Ma, piuttosto, a fruitori attenti, sensibili all'uso della parola e dei versi, oltre che alle tonalità speziate che, dai quattro angoli del mondo, attraversano il mare per trovare residenza in Puglia. Particolarità che, peraltro, la vecchia collocazione (l'auditorium della Vallisa: anche se, sino all'anno scorso, i live si concentravano in autunno) sembrava avvalorare, rafforzare. Ma l'esigenza sfrenata di spettacolo avanza sempre più speditamente, impietosa: a costo di costringere pure i concerti di maggior qualità alla globalizzazione culturale, allo struscio sotto il palco e alla birra che scorre vicina. E dovremo pur farcene una ragione, dimenticando l'intimità di un tempo. O quelle atmosfere sulle quali il cartellone ideato da Giuseppe De Trizio e dall'associazione Radicanto si è ispirato, appoggiato e alimentato nelle prime edizioni. Alle quali, onestamente, ci eravamo affezionati. E per le quali, alrettanto onestamente, proviamo già una solida nostalgia. Ma, del resto, le sponsorizzazioni aiutano a sopravvivere: e certi passi diventano obbligatori, a volte.
Quest'anno, poi, l'avvio della programmazione musicale coincide con gli Europei del pallone. E la prima delle due giornate in cui viene spalmato Di Voce in Voce si scontra addirittura con la seconda semifinale del torneo continentale. Quindi con l'Italia di Prandelli e la Germania di Loew. Praticamente, con la continuazione ideale di un'insostituibile storia calcistica. Risultato: la programmazione slitta di un'ora e mezza (si parte con la proiezione su maxischermo della partita) e si comprime nei tempi. Inevitabile, allora, che - tra agitazioni, distrazioni e residui di tifo - qualcosa si perda: in intensità e in delicatezza, innanzi tutto. Ma questo è. Però, la prima tranche della rassegna porta in dote la presentazione di due cd, di uscita freschissima: Arriva la Banda e Casa. Il primo, sottofirmato da Puglia Sounds, è la nuova proposta discografica dei Bandadriatica, formazione di impatto consolidato e dai balcanismi sempre robusti, modellati con la consueta digeribilità. La ciurma di Claudio Prima continua a spostarsi di porto in porto, tra scirocco e libeccio, grecale e tramontana, licenziando undici tracce alle quali, in sala di registrazione, collaborano tre tra le migliori voci del Salento: Cinzia Villani, Maria Mazzotta ed Enza Pagliara. Cover a parte ("Come Fanno i Marinai", omaggio a Lucio Dalla spuzzato di rebetiko: il gruppo salentino, evidentemente, ha anticipato sui tempi anche Capossela), la ricetta è quella solita: ai momenti di frenesia pure si alternano oasi di vero e proprio cantautorato, di sapido gusto popolare. Nell'esibizione dal vivo, tuttavia, viene a mancare il violoncello di Redi Hasa, ma non un paio di rifermenti a Maremoto, il fortunato lavoro precedente: di cui Arriva la Banda appare la naturale continuazione artistica.
Casa, invece, è l'ultimo album confezionato dai Radicanto, che raccoglie (e, contemporaneamente, rivisita) canti e composizioni della vasta area mediterranea, avvalendosi anche della voce e della verve di un vecchio amico come Raiz, ex leader degli Almamegretta, che così torna ad esibirsi con il gruppo fondato da Giuseppe De Trizio. L'esibizione si carica di volumi, si presenta con una veste decisamente più moderna, più elettrica. Raiz, sul palco, finisce per catturare molti spazi per sè e, probabilmente, le tonalità più tradizionali del gruppo finiscono per essere stravolte. Ma il percorso musicale resta ugualmente genuino e fantasioso. In chiusura, poi, Radicanto e Bandadriatica si ritrovano assieme sul palco dove, immediatamente dopo, vengono raggiunti dalla Sossio Band, che peraltro ha aperto il cartellone della prima serata. Le vigorose tonalità del settetto gravinese engono riassunte in "Muretti a Secco", un disco abbastanza recente in cui si incontrano ritmi serrati, ricorrenti commistioni musicali e testi terragni (in dialetto murgiano), ma anche socialmente impegnati, dove emergono il sassofono di Francesco Sossio e la voce della versatile Loredana Savino, che ricordiamo coinvolta pure in altre situazioni differenti (con l'ensemble vocale Le Nuvole, ad esempio).
E' di prestigio particolarmente alto, invece, l'ospite della serata conclusiva della rassegna: Francesco De Gregori accompagna Ambrogio Sparagna e la sua Orchestra Popolare Italiana dell'Auditorium del Parco della Musica. E' uno di quei casi in cui la musica popolare si fa musica d'autore. E viceversa. Le due anime si intrecciano agili, si completano. Sparagna dirige e puntella, De Gregori (più sciolto e comunicativo di altre occasioni dal vivo) piazza qualcosa del suo repertorio, scommettendo anche sulla produzione degli anni settanta ("Ipercarmela", "Santa Lucia"), senza dimenticare il decennio successivo. Dai versi musicati di Dante si finisce così a "Terra e Acqua", "La Ragazza e la Miniera", "Sotto le Stelle del Messico a Trapanar", a "Stelutis Alpinis" (che poi è un pezzo del patrimonio popolare rivisitato e rivalutato proprio dal cantautore romano) e alla più recente "Volavola". Oltre tutto, tra un brano e l'altro, spunta anche Raffaello Simeoni, uno che sa catturare l'attenzione, che viaggia sul filo delle emozioni. Con De Gregori, è logico, arriva anche la gente e il piazzale si riempie. Ma ci piace ricordare per l'eleganza i due momenti che precedono il clou: prima il quintetto di Maria Giaquinto si perde tra composizioni pugliesi, andaluse e sarde, rimescolando le frontiere e provando anche a riproporre la versione napoletana (di Teresa De Sio) di un brano scritto dal brasiliano Lenine e quella in reatino di "Ebla", del già citato Simeoni (e, quindi, dei Novalia). Quindi, immediatamente dopo, il gruppo formato da Francesco Piepoli (la sua voce è, contemporaneamente, punto di riferimento, guida e colonna portante del progetto) spazia tra ballate tradizionali irlandesi, britanniche e qualche autore degli anni settanta come John Martin. Il marchio di fabbrica di una rassegna come Di Voce in Voce nasce proprio qui, tra queste progettualità.

Di Voce in Voce 2012
Bari, Piazzale Cristoforo Colombo

28.06.2012

Sossio Band (Francesco Sossio: voce e fiati; Loredana Savino: voce; Pasquale Barberio: fisarmonica; Tommaso Colafiglio: chitarra; Gianfilippo Direnzo: basso acustico; Michele Marrulli: tamburi a cornice; Pino Basile: percussioni) in "Muretti a Secco";

Bandadriatica (Claudio Prima: voce ed organetto; Giuseppe Spedicato: basso; Emanuele Coluccia: sassofono; Andrea Perrone: tromba; Vincent Grasso: clarinetto; Gaetano Carrozzo: trombone; Ovidio Venturoso: batteria) in "Arriva la Banda";

Raiz (voce) & Radcanto (Giuseppe De Trizio: chitarra; Fabrizio piepoli: voce, basso e loop; Adolfo Lavolpe: chitarre e bouzouki; Giovanni Chiapparino: fisarmonica; Francesco De Palma: batteria) in "Casa"


29.06.2012

Maria Giaquinto Quintet (Maria Giaquinto: voce; Giuseppe De Trizio: chitarra; Adolfo lavolpe: chitarra elettrica e basso elettrico; Giovanni Chiapparino: fisarmonica; Francesco De Palma: batteria);

Fabrizio Piepoli Quartet (Fabrizio Piepoli: voce e chitarra; Adolfo Lavolpe: chitarra elettrica; Alessandro Pipino: Nord Sage; Francesco De Palma: batteria);

Francesco De Gregori (voce) & l' Orchestra Popolare Italiana dell'Auditorium del Parco della Musica diretta da Ambrogio Sparagna

sabato 26 maggio 2012

La strada nuova di Davide Berardi



Le prime e neppure lontane esperienze, sul filo della musica popolare, gli servono ancora. Perchè, di fatto, non ha mai tranciato definitivamente ogni contatto con quell'universo terragno e verace di versi e accordi. Perchè le radici (artistiche, ma non solo quelle) sono una condizione naturale, da cui è disagevole allontanarsi. E poi perchè i chilometri condivisi prima con i Cantinaria e, successivamente, con gli Appia Folk Ensemble e, perchè no, anche quelli con gli Elfolk sono un patrimonio personale spesso e denso, cioè indelebile. Ma Davide Berardi, oggi, rincorre le strofe più variegate, gli umori e i sapori più affettati della canzone d'autore. Di altrui produzione (è passato per la rivisitazione dell'opera di istituzioni autentiche quali De Andrè, Gaber e Modugno), ma anche assolutamente originale. Giocando, magari, sempre sul confine immaginario che separa quello che è stato (i vecchi progetti che lo hanno formato e incoraggiato) da quello che sarà (il suo nuovo itinerario musicale). Perchè ad attenderlo dietro la curva c'è la strada del cantautorato: questo è chiaro, ormai.
Il ragazzo, martinese di origine e crispianese di adozione, si è peraltro affinato, con il tempo. Dotandosi di coordinate. Scegliendo il proprio corso. Provando a metterci sempre di più del proprio. A concedersi il piacere di scrivere, di creare. L'album Cantinaria (2008) fu, del resto, un primo passo ricognitivo: ancora in bilico tra la popolare e la cantautorale, in verità. Che, però, già lasciava immaginare l'evoluzione di un chitarrista che si accompagna con la voce. Ma Chi Si Accontenta Muore, appena prodotto da Corte dei Miracoli, licenziato dall'etichetta Free-D Music e sostenuto da Puglia Sounds, è a tutti gli effetti il primo disco marchiato dal nuovo indirizzo artistico. E che ovviamente si allontana, nello spirito e nei contenuti, da Balla Ancora, una raccolta di brani della tradizione selezionati nel 2011, rigorosamente live, che costituiscono un vero e prorpio diario di viaggio intrapreso con gli Appia Folk. Un rigurgito della vita precedente, ecco.
Chi Si Accontenta Muore, dieci tracce che verranno peraltro presentate ufficialmente, per la prima volta, in un live organizzato alla Masseria Sant'Elia, nelle campagne comprese tra Martina e Locorotondo, è un lavoro che mescola un po' di ballate, qualche testo di vasto respiro e anche tre pezzi, diciamo così, parzialmente dialettali. E' il caso di "Mia Terra", un viaggio in treno sulla strada del ritorno, destinazione sud, di "L'Amore di Lunetta" e, infine, di una storia di cafoni fuorilegge come "Lu Brigante", frutto di un'idea probabilmente già abbastanza sfruttata dalla musica italiana che insegue la tradizione, ma ugualmente godibile e snella. Sullo sfondo, qua e là, varia umanità, storie di vincenti e perdenti e, infine, un omaggio al Brasile: "Copo e Cristal" ("Bicchiere e Cristallo"), che l'autore confessa di amare profondamente, è un testo che naviga tra l'italiano e il portoghese e che racconta di un sogno vero, perfettamente aderente alla realtà personale di Davide Berardi. Assistito, in sala di incisione, dal chitarrista Antonello D'Urso (che cura anche gli arrangiamenti con Vince Pastano), dal bassista Mino Indraccolo, dal fisarmonicista Giancarlo Pagliara (pure al piano, per l'occasione), da Bruno Galeone  (fisarmonica), da Francesco Ferrara (ai fiati) e dal batterista Francesco D'Amicis. In soccorso dei quali, peraltro, spuntano le incursioni di Eugenio Bennato, Roy Paci, Mario Rosini, Camillo Pace e Fabrizio Luca.
Davide (che, sarà utile sottolinearlo, vanta pure qualche esperienza teatrale: con Raffaele Zanframundo in Mondo G, un tributo a Gaber, con il fratello Gianfranco Berardi in Io Provo a Volare, un testo che si accompagna ai classici di Modugno, e con Rita Greco in Io Cammino) cerca una postura, una collocazione tutta sua. Rifacendosi ai miti del suo nuovo mondo. Rubacchiando idealmente (non è un reato) qualche tonalità (o, semplicemente, qualche timbro) a Faber e a altre figure di primo livello, se non ci siamo sbagliati. Quella che esce, comunque, è una manciata di composizioni sufficientemente ispirate, intelligenti. Come, ad esempio, "Cinque Minuti", "Senza Dire Niente", "Il Filo", "Cento e Mille", la divertita "Addio del Celibe" o la stessa "Ninnarella". Concepito tra la Puglia e l'Emilia, Chi Si Accontenta Muore sembra però un disco già maturo. Che incuriosisce anche per quel titolo ironico, che tanto ironico - in fondo - non è. «Accontentandosi sempre, si rischia di perdere la soglia minima garantita», chiosa l'autore. «In un momento in cui il Paese è sull'orlo del burrone, peraltro. Anzi: accontentandosi sempre, si rischia di morire prima del tempo». Già. Meglio pretendere, allora. Da se stessi, per cominciare.

Chi Si Accontenta Muore (Free-D Music, maggio 2012)
Davide Berardi (voce e chitarra), Antonello D'Urso (chitarra), Vince Pastano (chitarra), Mino Indraccolo (bassi), Giancarlo Pagliara (fisarmonica e piano), Bruno Galeone (fisarmonica), Francesco Ferrara (fiati) & Francesco D'Amicis (batteria e percussioni). Guest Eugenio Bennato (chitarra), Roy Paci (tromba), Mario Rosini (piano), Camillo Pace (contrabbasso) e Fabrizio Luca

venerdì 9 marzo 2012

Kusminac, quando le note corrono più del nome


Nome e origini sono spudoratamente serbe. Ma l'artista e il prodotto musicale dichiaratamente italiani. Italianissimi. Goran Kuzminac arriva (molto giovane) da Zemun, ma si forma tra il Trentino e il Veneto, passando anche per le contrade d'Austria. E, abbastanza presto, decide di tentare la strada del cantautorato, malgrado la laurea in medicina: gli anni settanta e il profumo del piombo stanno scivolando via e la decade nuova non promette molto di buono. Però, le parole non mancano. E la verve intellettuale riesce ancora a germogliare, tra le Alpi e il Mediterraneo. Molto più di oggi. Il ragazzo di allora, che oggi è un cinquantanovenne brillante, si affaccia alle prime sfide televisive, nei mangianastri, nelle frequenze radio di un Paese già debilitato dalla storia, ma ancora sostanzialmente credibile. Il cognome, tuttavia, è ostico. E le sue canzoni non sono politicizzate. Ballate placide, intrise di illusioni e fotografie di diffusa tenerezza, talvolta. La sua notorietà cresce, ma non deborda. Non è De Gregori, non è De Andrè. E neppure Dalla. Con il quale, pure, collabora. Prestandosi, peraltro, ad interagire con Ivan Graziani ed Angelo Branduardi, per rischiare un altro paio di figure di peso. Resta, allora, l'autore di nicchia che è: una condizione che, adesso, non sembra neanche disturbarlo. Consapevole com'è della realtà («Quanti di voi mi conoscono»?).
Eppure, anche nel live di Fragagnano, qualche sua creazione ricorda qualcosa, al pubblico più largo. Arrivano, come spesso accade, prima le note. E poi le generalità di chi le ha messe assieme. Cioè, un signore arguto che tiene bene il palco, con cortesia, ma senza formalità. Il tono è di quelli colloquiali, stretti, sinceri. E anche l'atmosfera che si addensa attorno è quella giusta. Merito, anche, dell'Osteria Quattro Venti che, tra un momento e l'altro dedicato tradizionalmente al jazz, trova lo spazio per il cantautorato di emozioni. Che di questi tempi, in Italia, possiede meno angoli di una volta, schiacciato com'è da cover band, programmazioni dozzinali e recessione galoppante. Pure il format della serata, del resto, contribuisce. Chitarra (pizzicata, con il metodo fingerpicking) e voce: Kuzminac, preceduto da una breve esibizione del cantautore tarantino Leo Tenneriello, sembra uno di quei folksinger di quattro decenni addietro. Dagli accordi, sfilano studenti di Amburgo, bionde francesi, facce che si incontrano sul Mississippi, racconti semplici, un po' di goliardia, ricordi e vecchi successi. Sì, perchè spartiti come "Tempo" e "Stasera l'Aria E' Fresca" custodiscono ancora una propria dignitosissima collocazione nel panorama della canzone italiana.
«"Tempo" - racconta lui - è un testo nato per gioco o per caso, nel 1981. Non lo scrissi perchè finisse in un disco: era, in realtà, un omaggio personale ad una donna. Che piacque e che poi, con il passare dei mesi, io stesso ho imparato ad apprezzare di più. Scoprendo che non era poi così male come credevo in un primo momento. Era e resta una canzone piena di vita, divertente». Trentacinque anni di carriera. E non sentirli, si dice in casi come questo. Venati di ironia. «Sono passato direttamente dallo status di giovane promessa a quello di cantautore storico. Mi manca, però, il passaggio centrale, quello dell'autore ricco e famoso. Ma sono un idealista, non c'è nessuna major che mi protegge e mi spinge. E, se conoscono le mie canzoni e non il sottoscritto, non è un problema». Tra i ritagli di piccole quotidianità e incontri indelebili, spunta persino l'anima reggae e un omaggio a Graziani. Ma pure un tributo alla sua gente, ai musicisti di ieri, di ora, di sempre. «"Mercanti di Niente" è una canzone - spiega - che ci ricorda quanto le emozioni abitino nell'arte, quindi anche nella musica, ovvero nel lavoro e nel travaglio di chi la crea». Già. Ma raccontare questa storia si fa sempre più difficile. Nei piani alti, nel frattempo, le porte si chiudono.

Goran Kusminac (voce e chitarra)
Fragagnano (TA), Osteria Quattro Venti

domenica 9 ottobre 2011

Il canto e la narrazione


Piacevoli abitudini. Ad ottobre, ormai ogni anno, Di Voce in Voce atterra puntuale sulla programmazione musicale barese. Senza mai smarrire il dono della sensibilità, nè il gusto per la ricerca o per l'introspezione di certe note di confine. La rassegna, ideata dall'associazione Radicanto e coordinata da uno dei suoi fondatori, Giuseppe De Trizio, fluttua da tre stagioni tra cantautorale, popolare ed etnica, intrecciando parole delicate, versi, tonalità speziate, musica del mondo e profumi terragni.
Bastano quattro giorni, per un puzzle incisivo e ben shakerato. Di giovedì, si parte con il trio Sas Thaj Nas (Marinella De Palma: voce, tastiere e santur; Francesco De Palma: voce e percussioni; Fabrizio Piepoli: voce, santur, chitarre e tastiera), supportato dal guest Adolfo La Volpe (mandolino e basso). Tra versi, favole e canti tratti dalla leggenda islandese, dal patrimonio rom, yiddish, sefardita e persiano e dalle tradizioni musicali irlandesi o mediterranee, Era o Non Era è un progetto che sorvola il tempo, alimentandosi anche di una dose decisa di elettronica, ma planando leggero. Tutto ruota attorno alla voce di Marinella De Palma e Fabrizio Piepoli, che modulano il concerto, scandendo il ritmo e avvolgendo il repertorio. «Del resto - interviene Giuseppe De Trizio - questa terza edizione è volutamente dedicata alla centralità del canto, alla voce e ai suoi rivoli. Quindi, canzoni e racconti si fondono e si compensano in un viaggio sonoro e geografico per vari luoghi. La voce canta e, soprattutto, narra, offrendo al prodotto finale una capacità evocativa più profonda. Peraltro, la dimensione del racconto è un aspetto particolare della world music, che poi ispira da sempre i Radicanto o formazioni come il Sas Thaj Nas, che dei Radicanto può essere considerata una costola. Non solo: tutto questo rientra a pieno titolo nel concetto di contaminazione, a cui siamo particolarmente legati».
Concetto, questo, che non sfugge neppure ai Tabulè, ritrovatisi dal vivo ad otto anni di distanza dal primo e, al momento, unico lavoro discografico, Marie Merci, uscito con l'etichetta della Compagnia delle Nuove Indye. Claudio Prima (voce e organetto), lo stesso Giuseppe De Trizio (mandolino e chitarra) e ancora Fabrizio Piepoli (voce e chitarre) s'ispirano a uno dei piatti classici del medioriente (il tabuleh, appunto, ovvero l'insalata di cous cous) per preparare una convergenza di stili ed esperienze che, però, possiedono una base ben definita. Come, ad esempio, il piacere della scoperta, la coltivazione delle emozioni e l'esigenza di abbattere certe barriere culturali. Anche quelle di casa nostra, perchè no: riuscendo a mettere assieme, sullo stesso palco, le due anime del trio, quella barese e quella salentina.
Altro repertorio, invece, di venerdì: Matteo Marolla e una delle icone della canzone folk italiana, Lucilla Galeazzi, colorano due set distinti che si raggomitolano attorno alle radici del canto. O, come sottolinea De Trizio, due interpreti che riscoprono la particolarità del dna musicale della penisola. Marolla dedica la sua ora di live al conterraneo Matteo Salvatore, cantore di un tempo perduto e autore di estrazione contadina, legato ai temi dell'emigrazione, della fame, della dignità. «Ho scoperto Marolla a Silvi Marina, nel corso di un'altra rassegna, nel duemilauno. Matteo mi piace perchè rende vive e, soprattutto, autonome le creazioni di Salvatore». «Io - aggiunge lo stesso Marolla - ho respirato gli stessi profumi di Salvatore: arrivo da San Severo, a pochi chilometri da Apricena. Ma guardo le cose da un punto di vista diverso, perchè espressione di un'epoca differente. Tuttavia, sono rimasto semèpre affascinato dal suo modo di raccontare con poche immagini un intero mondo». Un mondo di proverbi, di marginali, di braccianti e caporali, di personaggi di paese, di miseria e disgrazie. E di storie qualunque, di ogni giorno.
Lucilla Galeazzi, sùbito dopo, condivide con il chitarrista palermitano Davide Polizzotto un'idea indovinata: all'interno dell'Auditorium della Vallisa suonare in acustico si può e l'occasione va colta. Il progetto (Ancora Bella Ciao) è asciutto, molto discorsivo. Quasi didattico. E condensa quarant'anni di canzone folk, riscoperta in Italia nel dopoguerra e, soprattutto, sull'onda delle polemiche nate nel corso del Festival dei Due Mondi di Spoleto, anno millenovecentosessantaquattro. «Grazie al quale - rivela la vocalist ternana - riuscii ad avvicinare questa nuova espressione di protesta. Scoprendo un universo di cui in pochi, io compresa, erano a conoscenza. E che poi è diventato parte integrante della mia vita e la mia professione. Altrimenti relegata a contenitore di pochi motivi popolari della mia terra».
Due concerti al giorno. Anche di sabato. Casa Rosada è un trio che rivisita la tradizione meridionale italiana, attraccando però versi altri porti (il Portogallo, ad esempio), senza però rinunciare a proprie composizioni. Puntando sulla melodia, su arangiamenti golosi e sull'energia di favole quiete. Maria Giaquinto, leader del gruppo, racconta storie che inseguono il mare, «gli echi delle onde che segnano il nostro viaggio e le maree che, talvolta, cambiano il paesaggio. Quelle maree che sono una chiara, selvaggia chiamata». Poi, però, si scende anche sulla terraferma, in certi luoghi del sud, città di santi appesi ai muri e di bestemmie al cielo. Immediatamente dopo, Pino De Vittorio. L'atmosfera è da Compagnia di Nuovo Canto Popolare, eredità di una lunga collaborazione con Roberto De Simone. Voce, chitarra battente ed eleganza naturale, l'artista jonico ripercorre con teatralità consumata alcune tappe della tradizione pugliese, indugiando molto sul Gargano e affacciandosi sul Salento. Quindi, passando anche per gli stornelli di Leporano e sconfinando brevemente in Lucania (Bernalda). Esibizione dai toni intimi, come lui stesso suggerisce, ma profondi. Intanto, la voce riempie lo spazio, accentra: dirigendo la musica, dettando la linea del concerto.
Ai Radicanto, formazione padrona di casa, tocca infine la domenica. Il live di chiusura della kermesse si riassume nella presentazione di Bellavia (edizioni III Millennio, aprile 2011), settimo ed ultimo lavoro del quintetto, dalle tonalità decisamente più pop, rispetto agli album precedenti e tuttavia rispettoso del tragitto artistico di una formazione che, ancora una volta, ha saputo attingere (dallo stesso Di Vittorio, oppure da Enzo Delre), ma pure creare soluzioni di ottimo cantautorato. Prima, però, palcoscenico per Aronne Dell'Oro, folksinger trentacinquenne che scende da Milano, ma temprato da solide frequentazioni nella musica popolare di casa nostra. Che rimane patrimonio da coltivare e incoraggiare. Innervandolo, magari, di stimoli e venature nuove: che, poi, è l'obiettivo di rassegne come Di Voce in Voce. Da quest'anno, per la cronaca, costretta allo sbigliettamento (prezzi onestissimi, peraltro). «I fondi per la cultura - confessa Giuseppe De Trizio - diminuiscono sempre più: e, allora, è necessario che la gente cominci ad abituarsi all'idea di entrare a pagamento anche dove, in passato, non era richiesto». Così va l'Italia.

Sas Thaj Nas (Marinella De Palma: voce, tastiere e santur; Francesco De Palma: voce e percussioni; Fabrizio Piepoli: voce, santur, chitarre e tastiera) in "Era o Non Era", guest Adolfo La Volpe (bouzouki e basso)

Tabulè (Claudio Prima: voce e organetto; Giuseppe De Trizio: mandolino e chitarra classica; Fabrizio Piepoli: voce e chitarre) in "Marie Merci"

06.10.2011


Matteo Marolla (voce e chitarra classica) in "La Strada e le Stagioni"

Lucilla Galeazzi (voce e chitarra classica) & Davide Polizzotto (chitarra classica e chitarra battente) in "Ancora Bella Ciao"

07.10.2011


Casa Rosada (Maria Giaquinto: voce e tamburello; Giuseppe De Trizio: chitarra classica; Adolfo la Volpe: chitarra portoghese) in "Maree"

Pino De Vittorio (voce, chitarra classica e chitarra battente) in "Tarantelle del Rimorso"

08.10.2011


Aronne Dell'Oro (voce e chitarra acustica) in "Canto d'Amore"

Radicanto (Maria Giaquinto: voce; Giuseppe De Trizio: chitarra classica; Fabrizio Piepoli: voce e basso elettrico; Adolfo La Volpe: chitarra elettrica; Francesco De Palma: percussioni) in "Bellavia"

09.10.2011

Di Voce in Voce
Bari, Auditorium Diocesano Vallisa

sabato 2 luglio 2011

Il calcio di Servillo, Girotto e Mangalavite


Il pallone come metafora di quotidianità, di vita vissuta, orologio del tempo di tutti, testimone di un epoca comune, sinonimo di ostinazione, fantasia, debolezza, fatica, coraggio e sogno; dramma e commedia, eccitazione collettiva e solitudine individuale. Il pallone che infiamma la platea e i suoi teatranti, azzerando le rotte degli oceani. Il pallone di un Sudamerica epico e di un’Italia che lo rincorre. Il fútbol di Maradona: quello dell’Argentina di Natalio Luís Mangalavite e di Javier Girotto e quello della Napoli di Peppe Servillo, casertano con le radici divise a metà. Ma anche quello dell’Uruguay di Obdulio Varela, il generale di quella squadra che scippò il Mundial al Brasile di Ademir e di Zizinho, che poi diventò il Brasile di Barbosa, colpevole massimo del disastro del Maracanã. Il calcio e le sue magie. Quello di una volta. Quello delle maglie dall’uno all’undici. Delle divise senza sponsor. Ancora incontaminato dalle pay per view e dalla corsa sfrenata verso il consumismo, verso la modernità cieca. Il calcio che detta la sua musica.
Tre artisti, tre sensibilità. Tutti assieme, per avventurarsi nella festa e nell’emozione di una manciata di spicchi di cuoio cuciti, con un cuore di ossigeno puro. Servillo, Mangalavite e Girotto girano da un po': e il loro progetto (Fútbol, appunto) mistura pagine di letteratura contemporanea (quella di Osvaldo Soriano, per esempio, ma pure quella di Juan Cáceres), note, abilità scenica e improvvisazioni. Diventando il pretesto per allargare l’orizzonte alla piccole storie di ogni giorno, alla storie di chiunque. Non solo intrecci calcistici, dunque. Ma, sempre e comunque, fotografie di passione, armate di temperamento. L’ora di spettacolo, inserito nel cartellone della Notte Bianca 2011, la quinta edizione all’ombra del barocco di Lecce, si concede così la possibilità di presentare, per esempio, anche una versione in italiano della celebratissima “Insensatez“, una rivisitazione di un ipotetico incontro tra Liz Taylor e Richard Burton dietro le quinte e una miscela insondabile e sottile di jazz e canzone d’autore. Ritornando, infine, alla base. Al pallone. Persino al pallone dei giorni nostri, che pure – talvolta – riesce a ricavarsi degli spunti di tenera teatralità, di sincera innocenza. Come lo sfogo di Trapattoni nella conferenza stampa mitizzata dai media, ai tempi del Bayern. Punto di partenza che Servillo utilizza per disegnare il ritratto privato di un uomo qualunque, compresso dalle sue problematiche, dai propri conflitti privati. Perchè il calcio, quando non è arte, è vita.
Di sponda, certo, gioca anche il clima. Se quasi ovunque diluvia, in Salento si può circolare liberamente. Qualche nuvola incombe, ma non assale. E la brezza, a metà percorso, sostuisce l’umidità della sera. La programmazione si esaurisce al momento previsto, non prima, abbondantemente dopo le quattro: in tempo per assaporare l’alba che avanza. Chiude il sempre più istrionico (e politicamente incazzato: ce n’è per tutti) Cesare Dell’Anna con i suoi Opa Cupa, vestiti di sonorità molto meno balcaniche di un tempo, ma ugualmente immediate (la farfisa di Mauro Tre, del resto, conferisce alle sonorità della band venature differenti). E, in precedenza, per gli angoli del centro storico di Lecce si dividono i palchi jazzisti, rockettari, tangueros e pizzicati, mentre l’atrio di Palazzo dei Celestini ospita coro e orchestra. L’ultimo pensiero, poi, è per la Bandadriatica di Claudio Prima e per la canzone popolare di protesta dei Kalascima, in piazza Sant’Oronzo. Popolatissima sino alla fine delle musiche e della danze, ma anche oltre. Perchè è questa la forza intrinseca di una Notte Bianca organizzata con cura e con buon gusto artistico. Per la quinta estate di seguito, malgrado il momento di forte depressione delle politiche culturali, come puntualizza lo stesso Servillo, a fine esibizione. Vero. E proprio nel momento in cui altre realtà italiane, assolutamente di rilievo, hanno fermato la macchina organizzativa della propria Notte Bianca. Ricordiamocene. Glissando, ma non troppo, sulla sentenza del tifoso Servillo: «Maradona è meglio ’e Pelé». Falso. Non glielo consentiamo.

Peppe Servillo (voce), Natalio Luís Mangalavite (pianoforte e voce) & Javier Girotto(sax soprano, sax tenore e flauto) in “Fútbol“
Lecce, via Umberto I
Notte Bianca 2011

venerdì 29 aprile 2011

Il pop-rock che parla delle donne


Francesca Romana Perrotta è una salentina appoggiatasi altrove, come tanti. A Cesena, per essere precisi. Dopo essere passata per Forlì. E, prima ancora, dal Conservatorio Schipa di Lecce. Il cognome, artisticamente, non lo usa più. Ma, talvolta, torna ad esibirsi a casa. E, per la seconda volta, si presenta sul palco della Saletta della Cultura di Novoli, location storica di Tele e Ragnatele, rassegna di quella produzione di nicchia che non trova ospitalità in qualsiasi canale. La ragazza ha raggiunto da un po’ di tempo un livello di maturazione assolutamente solido, consacrato dalle partecipazioni felici al Multicultura di Macerata e dal secondo album, il riuscitissimo Lo Specchio, ovviamente presentato in versione – diciamo così – ufficiale. Logica, allora, l’attesa e l’affluenza corposa al quarto appuntamento del cartellone approntato da Mario Ventura: un cartellone che, a maggio, convoglierà tra Novoli e l’Istanbul Café di Squinzano anche Luigi Mariano, i Numero 6, Giancarlo Onorato, Naif Herin ed Edoardo De Angelis.
Il cantautorato di Francesca Romana è tenero, si inserisce – come lei stessa suggerisce – nel filone pop-rock, ma si nutre di una morbida (e rassicurante) originalità dei testi. Che è, aggiungiamo noi, condizione essenziale. Niente storie ardite, alla ricerca del coup de théâtre. Niente giochi di parole, all’inseguimento dell’effetto verbale. Solo fotografie, anche raffinate, dell’universo femminile. Ecco, Francesca Romana è una donna che scrive di donne, essenzialmente. «La scelta – spiega – è precisa, del resto. Lo Specchio, il secondo cd, è lo sviluppo naturale di Vermiglio, la mia opera prima. Al quale è strettamente collegato da un unico sentiero, ovvero la femminilità e la dignità femminile». E sono donne, fragili o vessate, forti o perdute nelle pagine dei secoli, le protagoniste di situazioni diverse e di epoche differenti, che magari finiscono per incrociarsi, deragliando nella complessità dei giorni nostri. E’ donna con i suoi dolori Francesca da Rimini, figura che traspare dal tredicesimo secolo. E’ donna conquistata dai sentimenti per la fede anche Maria Maddalena. E’ donna Giovanna d’Aragona e Castiglia, regina gelosa e internata in una torre per interesse e non per pazzia, come racconta la storia scritta dai vincitori. E’ donna Salomè, che da causa di un dramma diventa vittima. Ed è donna Biancaneve, che si specchia e, invece di se stessa, trova Eva, il suo vero alter ego. Perché, cogliendo una mela rossa, si scambiano le proprie esistenze.
Francesca Romana visita la propria galleria privata dei personaggi con voce modellata, che rischia anche qualcosa. Aprendo, oltre tutto, quattro finestre su altrettanti miti del suo immaginario musicale: Battiato, Lennon, Lauzi e Battisti (e, al nome di Battisti, peraltro, è legata la sua partecipazone, nel duemiladieci, al Premio Poggiobustone, culminato con il riconoscimento quale migliore personalità artistica della manifestazione). Detto per inciso, tradizionalmente le cover detturpano un po’ il repertorio del cantautore: ma, va detto, riesce ad offrire un’impronta propria anche alle rivisitazioni, sempre e comunque. E non è dettaglio da poco. Donne e tributi. Ma anche altro: il repertorio si alimenta con “Canzone Blu”, “Canzone Verde”, “L’Estraneo” (riecco lo specchio, che riflette uno sconosciuto), “Il Demone” («è il nostro alter ego, la parte più oscura e sconosciuta di noi stessi», pezzo scritto a quattro mani con Cristiano De Andrè), un intermezzo di matrice popolare, strettamente legato al Salento («il folk – assicura Francesca – è la forma musicale più rock»), “Il Tuo Nome e il Veleno” (terzo pezzo nella lista di gradimento del Premio Musicultura 2010) e, ovviamente, con “L’Istante Che Vale”, brano che è valso l’affermazione nell’edizione duemilasette dello stesso concorso. Da dove, cioè, sembra essere definitivamente decollato il suo percorso artistico. Che, evidentemente, possiede un domani certo: le idee ci sono.

(foto Angelo Nicola Caroli)

Francesca Romana (voce, chitarra e tamburello), Massimo Marches (chitarra) & Francesco Cardelli (basso e chitarra)
Novoli (LE), Saletta della Cultura “Gregorio Vetrugno”
Tele e Ragnatele 2011

venerdì 1 ottobre 2010

Il cedro e la rosa


Il cantautorato oltre lo stereotipo. Oltre le parole, cioè. Perché anche la voce e il canto pulsano e reclamano diritti. Oltre la staccionata della frivolezza. Un cantautorato sodo, riflesso nella mediterraneità delle storie, perso nelle curve del tempo. Speziato, di gusto profondamente popolare, ma dai contorni eruditi, vergato di striature etniche, decisamente morbido. E dichiaratamente pugliese: nell’esecuzione. Di Voce in Voce torna ogni anno, con puntualità. E Bari Vecchia è il suo palcoscenico naturale. Dove la rassegna dell’associazione Radicanto (una di quelle iniziative che definiremmo di nicchia, quindi tra le più indovinate: i cultori delle note più scontate non si adombrino, è la verità) si sviluppa interamente, approfittando dell’accoglienza dell’auditorium della Vallisa.
Quattro date dall’impronta delicata, ma anche decisa. E un po’ di artisti di questa terra rigogliosa di idee: come il Claudio Prima Ensemble e i Radicanto, formazione che gioca in casa, rispettivamente prima e ultima attrazione di una quattrogiorni che concede al panorama nazionale solo il break di Teresa De Sio, protagonista di un reading in terza serata. Esattamente ventiquattr’ore dopo l’esibizione di un Fabrizio Piepoli accattivante, espressivo, persuasivo. Niente affatto sorprendente: almeno per chi lo conosce. E per quanti ne apprezzano, da tempo, il profilo musicale e l’itinerario sonoro. Ma sicuramente maturo, poliedrico. Tanto da presentarsi, davanti alla platea, da solo. Con chitarra, pianoforte e santur, strumento della tradizione persiana. E con la sua voce modulata, calda, ricercata, melodica. Cantando in italiano, portoghese, spagnolo e aramaico.
Il lavoro è, praticamente, l’esecuzione dal vivo di Il Cedro e la Rosa, il suo recentissimo album. Fedele allo stile dell’autore barese, gravido di atmosfere marcate, di tonalità scandite, di teatralità essenziale. Piepoli, come del resto confessa candidamente, insegue la luce meridiana, armandosi di testi di ampia sensibilità e ricordando con devozione figure inscalfibili come Amália Rodrigues. Anzi, la passione per il fado, ovvero per la musica popolare lusitana, gli permette di aprire il concerto proprio con uno spartito in portoghese. Idioma che, peraltro, riprenderà spesso, prima del bis. E che alternerà, tra le altre proposte, ad un’ave maria siriana, a un canto sefardita e a un ricordo di Giuni Russo. “Per Rosa”, invece, è un omaggio alla siciliana Rosa Balistreri. Meglio ancora, un gioco di vocalità esaltato da un sapiente uso della loop machine, che surroga senza ripensamenti l'assenza di musica da accompagnamento.
Lo spettacolo è ben strutturato, da sùbito. E lascia emergere la voce, la composizione. «Muovendosi – racconta in sede di presentazione Giuseppe De Trizio, anima della rassegna e compagno di avventure di Piepoli da oltre dieci anni – tra confini labili come sono il cedro e la rosa, che contengono tutto e il contrario di tutto. E diventando un percorso multigeografico di musica immaginata mediterranea, in cui distanze e frontiere si annullano e dove l’istinto della tradizione, mescolato alla musica d’autore, diventa un pretesto per guardare al domani». E, aggiungiamo noi, per vivere meglio la musica di questi tempi.

Fabrizio Piepoli (voce, chitarra, pianoforte, santur e loop machine)
Bari, Auditorium Diocesano Vallisa
Di Voce in Voce 2010

giovedì 12 agosto 2010

Sulla spiaggia con Giovanni Block



«Quello del cantautore è il mio mestiere. Un mestiere che, talvolta, mi ha deluso. In un’epoca in cui non è facile esserlo. In un momento in cui ci impongono molte cose e, tra queste, anche la musica. Proprio mentre qualcuno dice che i cantautori, oggi, non hanno niente da raccontare. Anche se, evidentemente, non sono d’accordo». Giovanni Block è un napoletano guadente e scanzonato come molti figli della propria terra. Ma, tra le righe dei suoi testi, nasconde qualche piccola (o grande) verità. E qualche ritaglio di un certo tumulto interiore. Come qualsiasi cantastorie dei giorni nostri. O di un certo disagio, dissimulato con molta autoironia. Con quella simpatia semplice e diretta, talvolta vagamente clownesca. E con quella faccia da bravo ragazzo: lontano, per intenderci, dal maledettismo e dal pessimismo della canzone profondamente impegnata degli anni settanta. Cantautore inserito nel contesto, ecco. Nel contesto di questi tempi. Dove il cantautorato non rinuncia aprioristicamente al gusto del frivolo: senza offesa, s’intende. Dove i grandi temi sociali e culturali sono spesso sostituiti da un’osservazione abbastanza asciutta della quotidianità. Che è meno profonda di ieri, in certi dettagli. Ma che, in fondo, spiega come quasi niente sia cambiato, in quarant’anni. E di quanto, invece, si sia ulteriormente deteriorato: nei costumi, nella mentalità, nei comportamenti della gente e di chi ne disegna le sorti. Chiariamo sùbito: Block non viaggia sul solco segnato da un Guccini (ci sembra, anzi, di aver colto che non ne condivida il cliché artistico) e tanto meno da un Lolli, nè da un De Gregori o un De Andrè. Talvolta, piuttosto, potrebbe ricordare Concato, ma i paragoni – questo tipo di paragoni – non ci piacciono affatto. Perchè sanno di superficialità. E, certe volte, il suo modo di approcciarsi al palco rivela qualche simpatia per la formula di teatro-canzone: ma navigheremmo ugualmente fuori rotta. L'autore, ventiseienne, vive soltanto il suo stesso personaggio e, magari, non insegue nessun mito. Il suo cantautorato si affaccia timidamente anche sul pop, ma non è propriamente musica leggera. E il suo rapporto particolarmente confidenziale con la platea rifugge dalla figura un po’ snob dell’intellettuale prestato alla musica. I suoi testi, oltre tutto, non sono affatto ermetici. E, inoltre, il gruppo che lo accompagna s’intrattiene spesso su un tessuto sonoro gravido di venature jazzistiche, pronte però ad accettare influenze decisamente moderne (chitarra e basso elettrico, del resto, non cooperano per caso). Già, il jazz: contorno saporito, ancorchè seminascosto, un gradino sotto il suo leader. Al quale, peraltro, spesso piace appartarsi con la gente, in compagnia della sola chitarra. Il jazz che è il trait d’union tra Giovanni Block, già Premio Tenco nel 2007, e Argojazz 2010. L’esibizione sulla spiaggia dell’esclusivo Porto degli Argonauti, resort di diffuso buon gusto del versante jonico di Lucania, non fiorisce casualmente, cioè. La rassegna ammicca, da sempre, ad un certo tipo di sonorità. E ad un certo tipo di musica, strettamente collegata al jazz. Di più: Block è il vincitore della settima edizione di Argojazz, che ogni anno promuove la figura di un musicista rampante (nel recentissimo passato, ad esempio, è stato premiato anche il nostro Mirko Signorile). Condizione, questa, che non impedisce al musicista partenopeo (a proposito, è anche flautista) di delimitare il live con la leggerezza (e, ogni tanto, con l’effervescenza) delle parole. Anche di quelle rovesciate con quell’impeto giovanile che - prima a poi, chissà - riuscirà a gestire con esperienza, a dosare con maggiore sicurezza. E che, soprattutto, non gli impedisce di giocare con le storie e, perchè no, con la mitologia di questo secolo (tronisti e bulli latini compresi, a cui è dedicata una canzone divertita) e con i parolieri più celebrati (l’unica cover proposta è “It’s Wonderful", di Paolo Conte). Due modi come altri per non prendersi troppo sul serio. E per colorare una notte sulla spiaggia, quella del dodici agosto, assolutamente intrigante. Buona, si sarebbe detto, per catturare le stelle e lasciar fruttare qualche desiderio. Anche se, in realtà, dal cielo non sono piovuti segnali importanti. Oppure, se sono piovuti, non ce ne siamo accorti. Il tempo, però, è transitato ugualmente. E non è transitato invano: questione di atmosfera, ci viene da pensare.

(foto Angelo Nicola Caroli)

Giovanni Block (voce, chitarre e flauto), Carlo Castellano (pianoforte e tastiera), Simone Sessa (chitarra elettrica), Pasquale Bellocaso (basso elettrico) & Ron Grieco (batteria)
Marina di Pisticci (MT), Porto degli Argonauti di Lido Macchie
Argojazz 2010

sabato 16 gennaio 2010

Capossela e la notte del fuoco

Soloshow è il solito caleidoscopio di colori, suoni, stravaganze ed evoluzioni di Vinicio Capossela. Uno che, se non ha scelto consapevolmente di stupire, prova testardamente ad uscire dal tracciato tradizionale del cantautorato di casa nostra. Diventando, sempre più, oggetto di desiderio e di ammirazione della massa giovane. Quella che ama ballare, spingere e dimenarsi, più che soffermarsi sulle parole, sui senso e sui messaggi. Soloshow è uno spattacolo aperto, dove le note dei fiati si accavallano a giocolieri di passaggio, ammaestratori di effetti sonori e momenti di poesia urbana. Dove il capobanda si muove con agio e mestiere, freneticamente e disordinatamente, come un Houdini dei giorni nostri: cambiando scene e postura, copricapo e maschere, atteggiamenti e modulazione della voce. Giocando a distribuirsi, a catalizzare l’attenzione, a scherzare con se stesso e con la sua natura, con la propria musica e con la propria angolazione sul mondo che gli scorre accanto. E, ovviamente, con la gente che si muove sotto il palco. Proprio mentre la fòcara piazzata al centro della piazza vasta, che è poi l’anello di congiunzione tra l’artista e il suo popolo, ma anche e soprattutto la causa dell’effetto, vomita i suoi rami incandescenti.
Niente di nuovo, sia detto sùbito. Perché i live di Capossela possiedono caratteristiche ormai antiche. E quello di Novoli, in largo Tito Schipa, in occasione della festa (sentitissima, da queste parti, ancorchè altamente ricettiva) di Sant’Antonio Abate non differisce dagli altri proposti in giro per la penisola. Certo, ad un certo punto l’ambientazione si rende persino difficile: il fiume di fedeli della movida en plein air continua ad ampliarsi, la passione sgomita, gli spazi per coesistere si riducono, il concerto non parte prima delle ventitre e il vento riversa sugli intervenuti fumo e lapilli. Ma una festa è sempre una festa e lo spettacolo deve proseguire. Anzi, avviarsi. Con quelle atmosfere un po’ naif e un po’ bohémienne, ironiche e pungenti, pacchiane e delicate, improbabili e trasgressive, moderne e, talvolta, un po’ vintage. "Il Minotauro" è il primo passo: quello che la folla attende e chiede. Poi, Capossela saccheggia le più recenti produzioni (dall ‘album Ovunque Proteggi, per intenderci), ma attinge pure da Canzoni a Manovella (“Marajah”, per esempio), da All’Una e Trentacinque Circa (“Che Cos’è l’Amor”), passando per “Contrada Chiavicone”, “L’Accolita dei Rancorosi” e “Al Veglione”, tributo ad un lavoro (Il Ballo di San Vito) che - nelle pieghe, di per sé - è un omaggio a questa terra. Omaggio che si protrae, peraltro, con una rivisitazione di un pezzo popolare salentino assai conosciuto (“Fimmine Fimmine”). Dal palco, i suoni sincopati (solo un effetto fonico?) si integrano in quell’alone di festa che galleggia e passano inosservati. Non passa però inosservata, nella band di Vinicio, la presenza di due prodotti del Salento che suona, il fisarmonicista Rocco Nigro e il trombettista Cesare Dell’Anna.
Alla fine sono due ore e anche qualcosa di più di sberleffi, scene, coriandoli, vecchi successi, ardori contemporanei e miscele caotiche di musica e teatro improvvisato. Ma, anche se il concerto si esaurisce, la gente continua a stagnare nella piazza, sino all’alba annaffiata dal vino. E poi c’è la fòcara, che continua a fumare e bruciare. Il vertice della piramide è crollato, ma la pira resiste. Servirà tempo, per consumarla del tutto. E, allora, che la festa continui pure. Anche senza Capossela.

Vinicio Capossela in “Soloshow”
Novoli (LE), piazza Tito Schipa
Festa di Sant’Antonio Abate

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

domenica 16 agosto 2009

La musica è nuda

Musica nuda non significa musica spoglia. O, peggio, povera e precaria. Anche se il progetto è architettato spartanamente e adagiato su un tessuto sonoro essenziale. Meglio ancora: intimo. Asciutto, verrebbe da dire. Asciutto nel confezionamento, però: molto più che nell’esecuzione. Musica nuda è la voce plastica e lo sguardo felino di Petra Magoni, pisana magra e scattante, dolce e aggressiva, un po’ dark e un po’ tenera. Fredda e calda, assieme. Voce duttile che si plasma attorno alle note sottili del contrabbasso del casertano Ferruccio Spinetti e a qualche effetto artificiale, utile a condire un’esibizione di tecnica e inventiva. Di improvvisazione e di sguardi. Dove darsi, così semplicemente, non basta. Perché, con le armi – seppur affilate - delle corde vocali e di quelle di uno strumento con cui è difficile inventarsi un concerto, è saggio e opportuno concedersi di più. Molto di più. Totalmente.
Musica nuda non è, tuttavia, un progetto recente. Il suo cammino, anzi, è sufficientemente datato. E ben rodato, ormai. Particolare di non trascurabile peso. L’esperienza accumulata, tra live e dischi (quattro, se non ricordiamo male), lascia l’impronta, smussa qualche spigolosità trovata in passato sul cammino, depura il prodotto finale, ne addolcisce qualche lineamento, arrotonda il repertorio. La performance dal vivo di Noci, di fronte ad un’affollatissima piazza Plebiscito, quella della Chiesa Madre (suggestiva, ma anche inadeguata, in virtù dell’affluenza copiosa: del resto, Ferragosto è appena transitato), è – per intenderci – pienamente convincente. Sotto ogni angolazione: compresa quella della scelta dei brani in scaletta. Molto più convincente, ad esempio, dell’incursione all’Alterfesta di Cisternino, concretizzatasi qualche anno addietro. Perché, forse, più matura e consapevole. Meno rigida, cioè. Al di là delle differenze strutturali delle location: quella (a Cisternino, tra la terra rossa e le pietre di una masseria) più dispersiva; questa (a Noci, appunto) più accogliente e ovattata.
L’atmosfera di complicità facilmente solidificatasi con la platea, poi, aiuta. Certo, la gente arrivata in piazza sa a cosa va incontro. Non è di passaggio: arriva anche da fuori porta, appositamente per ascoltare. Per ascoltare Petra, un fascio di muscoli e nervi che si agita, si contorce ed esplora teatralmente la moltitudine delle tonalità, applicando le regole del mestiere, ma anche l’irruenza e gli impulsi dell’animo. E per abbracciare gli arrangiamenti di Spinetti, uno che – si dice - ha scelto di abbandonare la formazione più originale del panorama cantautorale italiano, gli Avion Travel, anche per dedicarsi completamente alla causa. Causa che non possiede una strada segnata, ma che spigola qua e là, attingendo dai Beatles e da De Andrè, dai classici internazionali (“Nature Boy”) e dal bagaglio degli autori di casa nostra (Pacifico), passando per Ornella Vanoni e Cristina Donà. Saltando da un universo all’altro, provando a catturare quello che può diventare congeniale al progetto. E che può confortare la qualità dei profili musicali dei protagonisti. Una voce e un contrabbasso che, un giorno, si sono trovati, cominciando un viaggio coraggioso e niente affatto scontato. E che, anni dopo, sono ancora lì, a scoprirsi e a rincorrersi.

Petra Magoni (voce ed effetti) & Ferruccio Spinetti (contrabbasso) in “Musica Nuda”
Noci (BA), piazza Plebiscito
Nocincanta ‘09

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

mercoledì 11 marzo 2009

Fiorella non tradisce mai

Intendiamoci: Il Movimento del Dare non è, complessivamente (e, ribadiamo, complessivamente) il disco più profondo di Fiorella Mannoia. E neppure il meglio riuscito. O il più originale. Ed è anche il meno intellettuale, nell’accezione più ampia del termine. Malgrado almeno un paio di tracce di sicuro livello. Probabilmente, l’ultimo album, sul mercato discografico dal novembre dell’anno trascorso, non occuperà un posto nella storia della cantante romana. Né nell’ideale raccolta preferita dei suoi sostenitori più affezionati. Magari perché non è poi così scontato confermare puntualmente lo spessore qualitativo della produzione. O forse perché, dentro Il Movimento del Dare c’è abbastanza (o molto) pop: che segna una soluzione di continuità dall’impronta cantautoriale degli album precedenti. Attorno ai quali, appunto, si forgia la storia della Mannoia.
Però, Fiorella è ancora Fiorella. E la sua musica, al di là delle modalità, è sempre impregnata di qualità: interpretativa, quando non anche compositiva. E poi Fiorella non tradisce mai: perché tutto, dal suo microfono, prima o poi finisce per convincere. Sarà per la sua grazia naturale. O per la passione dell’impegno: professionale e sociale. O per l’intensità di quello che canta. O che racconta. Per l’arte di comunicare. E per la semplicità con cui cuce il rapporto: con la platea, con la musica, con le storie di vita quotidiana. Tranquilli: non è un passato (prossimo e remoto) baciato dal successo e il fascino intatto di quest’eterna ragazza a condizionare il pensiero. E non è vero neppure che Fiorella Mannoia debba necessariamente godere di immunità illimitata. Quello che interpreta, però, si valuta puntualmente. Anzi, si ipervaluta. E quel che potrebbe diventare, diventa. Sempre. Fiorella è come un fiume, che lava tutti i dubbi, se i dubbi affiorano.
Il Movimento del Dare, però, è un disco che si fa notare. Dicevamo della svolta in chiave pop. Ma c’è pure dell’altro: innanzi tutto, firma il ritorno di Fiorella all’esecuzione di tracce (dieci, per la precisione) inedite. Dopo sette anni, consumati a riproporre vecchie situazioni dal vivo oppure, come accaduto più recentemente, belle pagine di musica sudamericana, opportunamente tradotte e riarrangiate. Di più: l’ultima fatica discografica consegna una Mannoia che offre la voce a testi di autori mai interpretati, sin qui. Come Ligabue, che in tempi non troppo lontani aveva dedicato il proprio tempo ad un cantautore di culto e di lunga militanza qual è Guccini. Oppure come Bungaro e Tiziano Ferro. Riproponendo, nel contempo, spartiti di vecchi amici come Ivano Fossati e Pino Daniele: diventando un trait-d’union tra ciò che è stato, quel che è e ciò che, un giorno, potrà essere.
L’album , allora, merita un tour: che pasa anche dal Teatro Nuovo di Martina. Dove lei – ci mancherebbe – non evita di accedere corposamente al suo repertorio più celebrato, destinandogli – anzi – un taglio alto. In vestito bianco, a coda, apre con la realistica Io Posso Dire la Mia Sugli Uomini, di Ligabue, che poi è il motivo che inaugura il nuovo disco. Sùbito dopo, però, è il tempo di Mimosa, di Nicolò Fabi («Non la cantavo da un po’ di anni», dice), di Sally, della delicata e fossatiana C’è Tempo, di Come Si Cambia e di E Penso a Te, omaggio vibrante a Lucio Battisti («Ho deciso di mettere a dura prova le emozioni», fa sapere). E’ scalza, Fiorella: alla maniera di Cesária Evora. O, se volete, di Maria Bethania. Fino a Che Non Finisce, di Bungaro, Il Movimento del Dare (di Franco Battiato e Mario Sgalambro) e Il Sogno di Alì, di Piero Fabrizi, arrivano appena più tardi, a chiusura della prima parte del concerto, in cui arrangiamenti ed atmosfera sono assolutamente curati, sobri, eleganti. E in cui emerge ostinata la forza di porsi ancora delle domande: «Mi chiedo se questo è il progresso e se questo è il mondo che volevamo, dove il silenzio e l’indifferenza uccidono due volte».
La seconda parte è più informale. Fiorella passa dal bianco al nero, dai pieni nudi agli stivali scamosciati. L’approccio di Oh Che Sarà è esclusivamente vocale. Poi, un vecchio rap impegnato di Jovanotti (Occhio Non Vede, Cuore Non Duole) chiede un’introduzione accorata («Viviamo in una bolla di rassegnazione e la sensazione è che i giochi siano già stati fatti, e la politica c’entra relativamente. C’è un disegno che ci vuole rassegnati: ma chi è questo nemico planetario, chi c’è dietro questa crisi globale, chi la manovra, chi ci guadagna?». La Bella Strada di Fossati e Il Re di Chi Ama Troppo di Ferro riconducono al disco da presentare; Giovanna D’Arco di De Gregori, Il Cielo d’Irlanda, I Treni a Vapore e Il Tempo Non Torna Più sono tributi al passato. Fiorella non dimentica nappure De Andrè, a dieci anni dalla scomparsa dell’auore genovese. E, infine, chiude «con quella che è la Canzone», cioè Quello Che le Donne Non Dicono, incalzata da una Buontempo in versione latin e da Clandestino di Manu Chao, interpretata anche in platea, a contatto con il pubblico. La Mannoia è tornata. Con un disco nuovo e l’intensità dei giorni più belli. Fiorella è ancora e sempre Fiorella. E non tradisce mai.

Fiorella Mannoia (voce e percussioni), con Fabrizio Leo (chitarre), Roberto Gallinelli (basso), Luca Scarpa (pianoforte), Bruno Giordano (tastiere e sassofoni), Marco Brioschi (tromba e flicorno), Lele Melotti (batteria) e Carlo Di Francesco (percussioni)
Martina Franca (TA), Cineteatro Nuovo

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

sabato 20 dicembre 2008

Vecchioni, tra spiritualità e letteratura

Tra il sacro e il profano. Ma non esattamente a metà strada. Anzi, più spirituale che altro. Anche se umanamente terreno. Con la forza interiore di chi ha qualcosa da comunicare. Oltre le note e al di là del palcoscenico. O di chi ha vissuto tra la musica e letteratura per una vita. E che, adesso, può permettersi di spendere due soldi di saggezza, spigolando tra il mistico e la realtà. Senza rinunciare alla laicità degli intellettuali. Come soprattutto i cantautori, certe volte, sanno essere: guardando i giorni che scorrono dall’angolazione privilegiata del navigare tra la gente. Roberto Vecchioni, così, non l’avevamo mai ascoltato. No, così avvolto da una spiritualità che solo il periodo natalizio può dettare e stimolare, mai.
Lui, la sua voce rassicurante e un quintetto d’archi. Un pianoforte e un incrocio coordinato di citazioni, poesie, pensieri, parole, canzoni e musica classica. Saltando agevolmente da Madre Teresa di Calcutta a Mozart, da Vittorio Gassman a Neruda, da Giovanni XXIII e Gandhi a De Andrè, dalla produzione propria alla tradizione della festa dicembrina. Colloquiando con il pubblico e, neppure troppo velatamente, dialogando con Dio. In una chiesa. Di più: nell’Abbazia della Madonna della Scala, cinque chilometri al di là di Noci, uno degli angoli di Puglia dove sembra tornare volentieri (per la terza volta, precisamente). Sono le tracce di “In-Cantus”, il progetto sottopostogli da Giovanni D’Onghia, custode della direzione del Nu Ork Quintet. Un progetto immediatamente sposato: con entusiasmo, diremmo. E con convinzione, ci pare di aver capito. E, innanzi tutto, con naturalezza. Che si dirama in un certo numero di date, tutte fissate nel meridione della penisola, e soprattutto tra lo Jonio e l’Adriatico: Noci a parte, in questi giorni e a queste latitudini il concerto passa anche da Foggia e Galatina.
«Non sono un tenore e non sono un soprano. Sono solo un cantautore. E, perciò, interpreto da cantautore anche questa scaletta tutt’altro che convenzionale. Però, interpreto con l’anima. Ed è questo il dato più importante: in occasioni speciali come queste, ma anche nelle occasioni di tutti i giorni, di sempre. L’esperienza, comunque, è bella e, soprattutto, insolita». E anche gratificante, aggiungiamo: per i protagonisti e per la platea. Il live, di buon gusto e solidi principii, è affrontato con carisma e personalità consumata. Del resto, quarant’anni sul palco non scivolano invano. Ed è uno spettacolo che, a dispetto di qualsiasi previsione, non pesa, né s’impantana. Che non si trascina, ramificandosi fluidamente. E che non si accartoccia su se stesso, perché non cede mai alla tentazione dell’operazione commerciale. Neppure quando sgorga lo spartito di “Jingle Bell”, un must del periodo di Natale. Al quale l’artista milanese non può (e non vuole) sottrarsi.
No, non c’è nulla di scontato. O, peggio, di stantio. Il confezionamento del concerto è la prova provata: il quintetto d’archi accompagna con eleganza le parole di “Blu Moon” e la rivisitazione vecchioniana di un lavoro di Rachmaninov, ma arricchito dai versi di Borges, commistione suggestiva e assolutamente appetitosa. Oppure le versioni toccanti di “Luci a San Siro” e di “Samarcanda” e quelle di altre composizioni mai proposte da vivo, prima di adesso. «Ho scelto bene i compagni di viaggio, che mi hanno aiutato a scegliere un repertorio che, così com’è, per me è assolutamente nuovo. E, ovviamente, allestito per questa specifica avventura, che non avrei potuto sostenere senza di loro». Non c’è neppure spazio per parole superflue. Il professor Vecchioni non si veste da docente, ma spiega il suo rapporto con lo spirito e la spiritualità, tenendosi lontano dai luoghi comuni. Ed è sempre un rapporto franco, sincero, trasparente. «Mi auguro che ognuno veda chiaro dentro di sé. E poi io non sono venuto qui a risolvere nulla, ma sono arrivato per cantare e far cantare».

Roberto Vecchioni (voce), Giuseppe D’Onghia (pianoforte e direzione) & il Nu Ork Quintet (Anton Berovski: violino; Nico Ciricugno: violino; Giuseppe Donnici: viola; Vincenzo Taroni: violoncello; Daniele Roccato: contrabbasso) in “In-Cantus”
Noci (BA), Abbazia della Madonna della Scala

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

venerdì 25 luglio 2008

Teresa Salgueiro, una pagina nuova

Da Lisbona alla Francia di Edith Piaf. Dal fado di Amália Rodrigues al Brasile e all’Argentina. Da Alfama all’Angola e a Capo Verde. Dal Tago all’Italia di Lucio Dalla. Dal Portogallo al Messico di Jiménez. Il mondo di Teresa Salgueiro si allarga. E sconfigge le distanze oceaniche. Non ci sono frontiere, ma solo orizzonti. E non c’è più la sua musica. Quella che l’ha proiettata, dieci anni fa, sui palchi europei. Dunque, quella che che l’ha accompagnata in un’ascesa agile, prepotente. Non c’è più la nuova canzone lusitana, accudita dalla tradizione e rivisitata dai Madredeus: che l’hanno saputa rimodellare e ridistribuire dal 1994 in poi, aggrappandosi saldamente a «Lisbon Story», la fortunatissima pellicola firmata da Wim Wenders. E non ci sono più neppure i Madredeus. Adesso (per adesso, almeno), cè la musica del mondo. C’è la musica di sempre. E, con Teresa, c’è un nuovo gruppo, sintetizzato in un quintetto d’archi affiancato da piano e percussioni.
Forse è una svolta, forse è un capriccio passeggero. Probabilmente, svicola la voglia di misurarsi. Con se stesessa e con la musica. Il mondo di Teresa Salgueiro, ora, è un repertorio che non concede troppo all’originalità (diciamo pure già largamente adoperato e facilmente apprezzabile dal grande pubblico), ma che si rivaluta con la grazia e la naturalezza, con lo charme e con la semplicità, con l’intensità e il sorriso. E, ovviamente, con la felicità di espressione. Del resto, lo spessore di Teresa è immutato. E la sua maturità artistica è assolutamente inattaccabile. E poi Teresa è bella, come sempre. Forse, anche più di prima. Ed è elegante, come sempre. Anzi, più di un tempo. Ed è raffinata, come e più che in passato. Raffinata, ma non sofisticata.. Non è un personaggio artefatto, cioè. E, magari, questo può bastare. Il resto è voce: solare, limpida, acuta, senza tempo. Che argina quella punta di delusione che avrà aggredito quanti avrebbero voluto riascoltare “Ainda”, “Céu da Mouraria” oppure “Haja O Que Houver”. E che, invece, hanno incrociato “La Vie en Rose”, “Avec le Temp”, “Caruso”, “Paloma Negra”, la piazzollana “Vuelvo al Sur”, “Leãozinho” (produzione di Caetano Veloso) e la bossanoviana “Se Todos Fossem Iguais a Você”, della “dupla” Jobim-De Moraes. Che la Salgueiro, sia detto per inciso, interpreta con regole fonetiche rigidamente brasiliane: non male, per una lisbonese. Accanto, peraltro, scivolano spartiti di gran pregio come “Estranha Forma de Vida”, vecchio successo della Rodrigues, la “Cantiga da Seifa”, antico canto popolare della Beira Alta, regione portoghese del centro nord, “Nom de Rua” oppure “La Serena”, una testimonianza del canzoniere iberico sefardita.
Il progetto (impresso, per la cronaca, anche in un disco, datato duemilasette) omaggia diverse culture artistiche e, soprattutto, cinque lingue: portoghese a parte, lo spagnolo, l’italiano, il francese e l’inglese. Il viaggio chilometrico, tuttavia, non è caotico e neppure superficiale. Curare il dettaglio è sempre operazione sana e redditizia: e Teresa e il Lusitania Ensemble spigolano tra i particolari. La qualità, si sa, sopravvive all’idea. E si esalta con gli arrangiamenti sobri, in linea con la figura di riferimento. L’accompagnamento, giudiziosamente, non è ingombrante. Il centro del palco è la voce di Teresa Salgueiro. Punto e basta. Ma non sia detto che alla piccola orchestra non venga tributato il giusto spazio: come tre pezzi interamente strumentali (uno, ad esempio, è “Casa da Mariquinha”) suggeriscono. L’atmosfera, infine, è quella più indicata per una piazza signorile come quella del Plebiscito, a Putignano, contenitore sfruttato nel miglior modo possibile (prima del concerto, eravamo sinceramente diffidenti della scelta: ci siamo ricreduti). Attorno, intanto, fluttua la voce del Portogallo di oggi e di domani, che è pure una voce della Lusitania che è stata. E, sembra di capire, anche la voce di qualche altro angolo di mondo. L’abbiamo riascoltata volentieri, Teresa. E non ci ha tradito.

Teresa Salgueiro (voce) & Lusitania Ensemble (Jorge Vergoso Gonçalves: violino; Antônio Figuereido: violino; Vensislav Grigorov: viola; Luís Claude: violoncello; Duncal Fox: contrabbasso e piano; Ruca Do Bordão: percussioni)

Putignano (BA), piazza Plebiscito
Primitivo 2008 – La Provincia dei Suoni

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

domenica 13 luglio 2008

Il segreto dei Folkabbestia

La solita storia. Di quasi lucida follia, di allegra gioventù stagionata, di mordente ironia, di becera ispirazione, di gaia circumnavigazione della musica, di misturazione spensierata, di arrangiamenti effervescenti. La solita storia dei Folkabbestia, un gruppo emergente che, nel tempo, è emerso. E che galleggia senza affanni, ovunque si trovi. Per la felicità dei fans che, attorno al palco, cantano, ballano, saltano. Senza sosta. E che ripetono versi e citazioni: quelle più graffianti e quelle simil-demenziali. Che pure possiedono la loro anima, la loro profondità, il loro senso. La solita storia. La storia di una realtà musicale profondamente pugliese: nella carta d’identità e nell’animo. La storia di un gruppo ormai (o da tempo?) di culto. Non solo dalla parti del quartiere Libertà, nella Bari in cui la band è nata e si è consolidata. Ma anche nel profondo Salento, turisticamente sempre più maturo. Davanti alla spiaggia di Lido San Giovanni, dove Gallipoli finisce e dove c’è un parco (Parco Gondar) che ospita una delle tappe del tour di presentazione dell’ultimo disco della colorita brigata. Disco che si chiama «Il segreto della Felicità» e che circola dal trenta maggio ultimo scorso. Tra cantautorato e pop, tra rock e folk. Tra sberleffi e pensieri preoccupati. E chissà cos’altro. Con la leggerezza di sempre, ci mancherebbe.
Diciamo, allora, che la storia dei Folkabbestia continua. Continua sicura. Perché continua a non prendersi troppo sul serio, forse. Oppure, perché la miscela è quella giusta: note di impatto immediato, nessuno schema predefinito, tanto ritmo e una buona dose di coscienza critica. Quella che ci spinge a incazzarci ancora, ma senza farcelo pesare troppo. Intanto, perché le note sfrecciano. E poi perché i Folkabbestia non offrono la sensazione di voler dimostrare nulla. Né inventare niente. Rimanendo, per questo, prigionieri solo del proprio temperamento e del loro istinto di menstrelli un poì bislacchi, di cantastorie dei giorni nostri ancora capaci di distribuire tra le righe qualche mesaggio. Guadagnando, dunque, in salute. E, anzi, ricevendo copioso riscontro. Praticamente in ogni situazione dal vivo. Come, appunto, quella di Gallipoli, cominciata mezz’ora dopo la mezzanotte. Tardi, molto tardi. Ma ancora presto per il popolo che, di notte, vuole vivere intensamente.
«Non su un’isola deserta. Il segreto della felicità è tra di voi», chiosa Lorenzo Mannarini, il capobanda. Può darsi. Poi sfilano le nuove composizioni, che seguono – due anni dopo – «Breve Saggio sulla Canzone Italiana», un album di cover, e «Perche», lavoro finalizzato nel 2005. Nel sestetto pesa l’assenza di Fabio Losito, motore dinamico della formazione e violinista frenetico. Con i due componenti storici (Francesco Fiore al basso e Nicola Di Liso alla batteria) ci sono però la fisarmonica del cegliese Pietro Santoro, la chitarra elettrica di Simone Martorana e la tromba di Giorgio Distante, nomade cistranese che spazia senza pentimenti dalla popolare (con il nuovo Canzoniere Grecanico Salentino, ad esempio) al jazz, dalla world music all’elettronica. Lo spirito, tuttavia, è quello di sempre. Quello della performance lombarda entrata nel guinness dei primati (trenta ore sul palco a suonare lo stesso pezzo, “Styla Lollomanna”, senza interruzioni: roba di qualche tempo addietro) o di qualsiasi altra esibizione live: dove, peraltro, non possono difettare passaggi storici del percorso musicale dei Folkabbestia quali “Il Sabato del Villaggio”, “Andersen”, “Breve Saggio Filosofico”, “Tammurriata a Mare Nero”, “Fuga in Fa” e “Potere alla Poesia”. E dove è impossibile rinunciare alle note (di nuovo attuali?) di “Alla Manifestazione” e di “Rovo d’Amore” («sull’amore bisogna dire la verità, come nel telegiornale»), al blues pugliese di “Cicce Paule ‘U Capone”, alla pizzicca rockettara di “Risveglio dall’Incanto”, oppure a “Il Sogno di Mady”, “Le Vie del Folk”, “Una Serenata Sotto la Luna”, alla gucciniana “L’Avvelenata” e, ovviamente, alla richiestissima (e acclamatissima) “U Frikkettone”. Un po’ un inno, un po’ il marchio di fabbrica. Cioè il passato, il presente e il futuro dei Folkabbestia: un po’ strafottenti, un po’ rustici, un po’ brillanti. Ma sempre molto veraci.

Folkabbestia (Lorenzo Mannarini: voce e chitarra; Simone Mmartorana: chitarra elettrica; Pietro Santoro: fisarmonica; Francesco Fiore: basso; Giorgio Distante: tromba; Nicola Di Liso: batteria)
Gallipoli (LE), Parco Gondar

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

sabato 19 aprile 2008

Quarant'anni di musica. Senza sentirli

Patty Pravo accompagna i suoi primi sessant’anni con grazia e mestiere. Con la sua eleganza mai inamidata. Con un look giovane e ancora aggressivo. Con una voce sempre sensuale. E con quell’inflessione un po’ nordica e algida. Snodata, più che vagamente rockettara, esuberante quando serve. Cioè quando va shakerato il rapporto (abbastanza confidenziale) con il suo pubblico. Con il quale sa creare complicità. Nicoletta Strambelli da Venezia è giovanile e ancora visibilmente virtuosa. Perché si concede alla gente, con grinta e una buona dose di passione. Che la platea capta e gradisce. Le parole, magari, sono di pura circostanza, propedeutiche allo sviluppo del concerto, leggere e un po’ frivole: ma, sul palco, le note e i testi partono, procedono ed arrivano. Senza intralci. Non solo approccio e atteggiamento, però: a sessant’anni (appena) compiuti, Patty Pravo è un’artista che possiede ancora qualcosa da dire e molto da offrire. Per quella sua carica positiva, per quell’abilità di resistere a quarant’anni di musica, sempre guidata sul filo del buon gusto. E, comunque, sempre viva. Il live presentato al “Nuovo” di Martina, peraltro, ribadisce i concetti, preoccupandosi poi di inseguire i dettagli della carriera della ragazza del Piper. Le canzoni che ne hanno, nel tempo, segnato il percorso artistico ci sono tutte, nessuna esclusa: a cominciare da “Pensiero Stupendo”, un tributo personale di Ivano Fossati e Oscar Prudente, “Pazza Idea”, pietra miliare della produzione italiana degli anni settanta, e “La Bambola”. Ma ci sono anche “Ragazzo Triste”, che è poi il primo singolo registrato, nel 1966, le più recenti “Les Etrangers”, “Bisanzio”, tratta dall’album «Oltre l’Eden», e “Tristezza Moderna”. E poi, ancora, “E Dimmi Che Non Vuoi Morire” di Vasco Rossi, oppure “Se Perdo Te”, affianco alle quali si affacciano la versione di un’altra produzione di Fossati come “Angelus” e la battistiana “Io Ti Venderei”, ritoccata nel ritmo e negli arrangiamenti.A sessant’anni, intanto, Patty Pravo può permettersi pure l’ironia («con la scusa del compleanno, mi hanno fatto diventare santa», confida) e molti slanci, anche squisitamente fisici. Puntualmente assecondati dagli uomini della sua band, che persegue tonalità sempre robuste: Gabriele Bolognesi (ai sassofoni, al flauto e alle percussioni) e Alberto Clementi (alle chitarre) su tutti. Con i quali cooperano il batterista Massimiliano Agati, il chitarrista Edoardo Massimi, Giovanni Boscariol (piano e tastiere) e Adriano Logiudice (basso e contrabbasso). Slanci che non mancano di solleticare il giudizio della gente, sotto il palco: «Afrodisiaca», grida qualcuno. «E’ meraviglioso», ribatte lei, effervescente nello spolverino giallo e nei pantaloni di pelle, neri. O nella tunica bianca, con cui affronta il bis, composizione dal sapore di fiaba. Perché, di una fiaba, talvolta c’è bisogno. Così come necessita, sottolinea, «di tirare un po’ su le maniche». Frase aperta a troppe sfumature, che plana alla fine della serata, dai toni persino familiari. Serata di vecchi successi, di desideri incrollabili, di energia e sinergia, tra amici antichi. Il modo migliore di festeggiare sessant’anni. Quaranta dei quali spesi attorno alla musica.

Patty Pravo (voce), Gabriele Bolognesi (sassofoni, flauto e percussioni) , Alberto Clementi (chitarre), Edoardo Massimi (chitarre), Giovanni Boscariol (piano e tastiere), Adriano Logiudice (basso e contrabbasso) & Massimiliano Agati (batteria)
Martina Franca (TA), Cineteatro “Nuovo”

(pubblicato sul sito www.levignepiene.com)