sabato 11 dicembre 2004

Dischi - Isole di Jazz (Di Leone Trio & Ottonando)

La già ricca discografia di Guido Di Leone si amplia con il recentissimo ingresso sul mercato del cd «Isole», presentato ufficialmente tra novembre e dicembre dallo stesso chitarrista barese. Che, per l’occasione, è stato affiancato dal contrabbassista Giuseppe Bassi (compagno di viaggio fedelissimo), dal batterista Massimo Manzi e dall’Ottonando Brass Ensemble di Mino Lacirignola, trombettista fasanese che ha coinvolto nel progetto Marco Sannini (tromba e flicorno), Donato Semeraro (corno), Giuseppe Zizzi (trombone) e Domenico Zizzi (basso tuba). Il lavoro, distributo dall’etichetta tedesca Yvp Music, può contare anche sugli arrangiamenti di Luigi Giannatempo.
«Isole» è un progetto originale diviso in dieci tracce, cinque delle quali sono firmate dallo stesso Di Leone: è il caso del brano che dà il titolo all’intero cd, di "Il Momento Infranto", di "Composed on Piano for Mal Waldron", del tributo dedicato a Rota e Fellini e di "Tema per un Film Che Non C’è" («E’ a disposizione di chi lo riterrà opportuno», fa sapere lo stesso autore). Progetto, peraltro, testato in diverse esecuzioni dal vivo (una per tutte: quella di Piazza Teatro, a Trani, all’interno del cartellone «Pugljazz 2004»), che hanno preceduto e succeduto la registrazione in studio. Ed è, ovviamente, un lavoro fortemente caratterizzato dalla presenza dei fiati, che interagiscono con un tessuto musicale dal taglio sobrio ed equilibrato.
Come dire che le situazioni differenti (e questa, di fatto, lo è) non intimoriscono Guido Di Leone, musicista tra i più duttili del panorama pugliese: e le esperienze passate con la musica brasiliana d’autore (in compagnia di Paola Arnesano e Mario Rosini, giusto per citare due momi), con quelle legate alla cinematografia di Totò (parliamo della Banda degli Onesti, dove condivide il palco con lo stesso Bassi, ettore Carucci ed Enzo Lanzo), con le note di Gianni Basso, oppure con varie formazioni che guardano attentamente sia alla tradizione jazzistica che alla sonorità latine (lo ricordiamo, ad esempio, nel trio Con Alma, al fianco di Vito di Modugno e Mimmo Campanale) rafforzano il concetto. In attesa di nuovi progetti: che arriveranno. Molto presto.

Isole di Jazz (YVP Music, 2004)
Guido Di Leone (chitarra), Giuseppe Bassi (contrabbasso), Massimo Manzi (batteria) & Ottonando Brass Ensemble (Mino Lacirignola: tromba e flicorno; Marco Sannini: tromba e flicorno; Donato Semeraro: corno; Giuseppe Zizzi: trombone; Domenico Zizzi: basso tuba)

(pubblicato dal mensile "Pigreco")

venerdì 10 dicembre 2004

Einaudi, talento raffinato

Ludovico Einaudi è un talento raffinato. Quasi erudito: anche se non lo fa pesare. La sua impostazione è classica: ma la sua musica è fluida, restia alle etichette. Che sembra piacere anche e soprattutto ai più giovani: quelli che, ad esempio, affollavano la platea del Teatro Kismet OperA, a Bari. E che hanno potuto salutare la recentissima uscita del suo ultimo disco, «Una Mattina» (Decca/Universal), già presentato in diversi punti della penisola. Lo stesso lavoro che, proprio a gennaio, il pianista – cinquant’anni, diplomato al Verdi di Milano - farà conoscere al pubblico di Taranto (Teatro Orfeo), dopo essere passato anche per Milano, Roma, Mestre, Palermo e Bologna.
L’artista e il suo piano. E, intorno, atmosfera. L’idea (e la forza) del live è questa. Un’atmosfera di classe, ma colorata di brio. Niente affatto statica, nè ingessata. Fluttuante tra le note assorbite negli studi di un tempo e le sonorità captate nel lungo viaggio intrapreso sin dagli anni ottanta verso conoscenze nuove. Che, peraltro, hanno condotto il musicista verso il cinema e il teatro, per cui ha già composto. L’artista, i suoi silenzi e le sue pause, che temperano i suoi concerti, lievitando lo spessore del suo stile personalissimo.
L’artista e la sua musica accattivante, densa: che sa, però, scoprirsi persino lieve. Come l’ora e mezza che riesce a riempire, passando per "Leo", brano dedicato al figlio, oppure "Dna", "Fuoco" e "Resta per Me". Brani, questi, che – almeno all’Orfeo – si gioveranno di un pizzico di fascino in più: nella tappa tarantina, infatti, Einaudi si farà accompagnare da Marco Decimo, violoncellista di lunga navigazione cameristica, sempre più spesso al fianco del pianista torinese. La musica colta e le note popolari si incontrano, integrandosi: l’opportunità è interessante. E, chi può, ne approfitti.

Ludovico Einaudi (pianoforte)
Bari, Teatro Kismet OperA

(pubblicato dal mensile "Pigreco")

sabato 20 novembre 2004

Arnesano più Moroni uguale Defrà

Riecco la voce di Paola Arnesano. E il piano di Dado Moroni. Un’altra volta insieme: ma per un tour diverso. Questa volta, innanzi tutto, c’è da presentare un disco recente, il loro. Che si chiama Defrá e che è uscito sotto la protezione di un’etichetta tedesca (YVP), peraltro dimostratasi già sensibile nei confronti del jazz di casa nostra. E sì, perchè Paola Arnesano, salentina di Tricase ritrovatasi a Bari, è una delle interpreti più attive e presenti nel panorama musicale pugliese. Che, appunto, con il genovese Dado Moroni, ha - già da un po’- stabilito feeling e complicità artistiche.
La coppia, ormai collaudata e consolidata, dà cioè continuità alla già corposa sequenza dei live estivi toccando a novembre alcuni angoli di Puglia: ed esibendosi, tra l’altro, all’Osteria Quattro Venti di Fragagnano (il locale di Michele Todaro, ultimamente, ha oltrevarcato i confini della musica popolare, con la quale si era guadagnato visibilità). Location dove l’esecuzione del lavoro (tredici tracce) si rivela asciutta: come previsto, del resto. L’approccio con le note è consumato con il solito garbo, nel solco della tradizionale raffinatezza che contraddistingue Paola Arnesano e dell’essenzialità che piace a Dado Moroni. Due interpreti, magari, abituati a platee particolarmente attente e silenziose: e, dunque, concettualmente lontane dall’atmosfera di un punto di ritrovo dove si cena e si chiacchiera, anche ad alta voce.
Il live, certo, risente di qualche disfunzione (che la cucina semplice e saporita dell’Osteria Quattro Venti riesce a mitigare), ma il disco (poco ritmo, forse, ma molto swing) è soddisfacente. «Io e il mio compagno di viaggio – assicura Paola Arnesano – puntiamo parecchio sull’inter play, sull’incontro tra il piano e la voce. Per noi, questo aspetto è fondamentale.Per quanto mi riguarda, poi, maturare un’ulteriore esperienza al fianco di Dado Moroni è motivo di orgoglio».
Paola canta in italiano ("Amarti Con gli Occhi", di Rossi e Colombi, brano degli anni cinquanta), in inglese (segnaliamo "Someone to Watch Over Me" e "Nice Work if You Can Get it", due tributi a Gershwin, e Autum in New York, di Duke) e in portoghese ("Se Todos Fossem Iguais a Você" è dedicata a Vinícius De Moraes e Tom Jobim: la passione per il Brasile è sempre viva). «Tutti i brani di questo disco, inciso e prodotto nel duemilatre, ma commercializzato solo prima dell’ultima estate, sono standard, tranne uno, "Defrá", che offre il titolo all’intero lavoro e che è di mia composizione. E anche questo è un omaggio, tutto personale, ad una persona che mi è stata molto vicina».

Paola Arnesano (voce) & Dado Moroni (pianoforte)

Fragagnano (TA), Osteria Quattro Venti

(pubblicato dal mensile "Pigreco")

lunedì 30 agosto 2004

Irio De Paula, affezionato e ispirato

Alla Puglia, Irio De Paula è rimasto affezionato. E, a queste latitudini, ci torna spesso. Lo ha fatto anche quest’anno: prima presentandosi a Martina (il suo live era inserito nella versatile rassegna Notti Barocche, curata dall’associazione Palco Barocco), poi a Marina di Pulsano e, infine, a Manduria (inserito nel cartellone di Radici 2004). Affezionato, dicevamo. E, malgrado il tempo che scorre, sempre ispirato. Malgrado abbia (momentaneamente e, comunque, non del tutto) preferito alla chitarra classica quella semiacustica: che gli ha permesso di presentare una scaletta infarcita di poco Brasile e di tanto jazz. Tuttavia, il programma – forse impropriamente definito come Sambajazz e consumato con la corposissima collaborazione di un batterista di spessore qual è il romano Stefano Rossini e del bassista Giorgio Fontana, pure lui romano - è piaciuto. Anche a chi, magari, avrebbe gradito ascoltare (o riascoltare) l’ennesimo fedele contributo alla bossa nova di Carlos Lyra, Baden Powell, João Gilberto e Luís Bonfá.
Irio De Paula, intanto, è sempre tecnicamente perfetto. Tanto da proseguire a recitare le note a memoria, com’è tradizione. Quasi con nonchalance: ma garantendo un livello di professionalità intatto. Specificità che, negli ultimi trent’anni, lo ha regolarmente premiato, dotandolo di una visibilità continua e ampiamente nazionale. Sin dai tempi del Manuja, locale ingiustamente eclissatosi dalle notti della capitale. Il suo talento genuino, cioè, emerge sempre. E non solo, quando –in prossimità della fine del concerto- si ritaglia uno spazio tutto suo, proponendo (da solo e con la chitarra classica) qualche clássico del suo Brasile: "Odeon" di Nazareth, per esempio, oppure "O Que Será" di Chico Buarque de Hollanda.
Il resto del repertorio, invece, è essenzialmente jazz e, oltre tutto, fortemente elettrico (l’apporto di Giorgio Fontana si fa sentire). Anche se bene si inseriscono le versioni riarrangiate di "Travessia", composta da Milton Nascimento nel ’66, e di "Wave", uno dei brani onnipresenti della produzione di Tom Jobim. E che, di fatto, preservano all’interno del live un ulteriore spazio alle sonorità del Brasile. Le stesse che Irio ha contributo a diffondere in Italia, quando il mercato discografico non era ancora globale e quando la cultura verdeoro non era ancora un modello alla moda.

(pubblicato dal mensile "Pigreco")

lunedì 12 luglio 2004

Dischi - Historias del Sur (I Tàngheri)

Tangueros. Anzi, Tàngheri. Con l’accento sulla a. Per giocare sulle parole. E forse, anche su se stessi. Oppure, più semplicemente, jazzisti prestati al tango di Astor Piazzolla e di Carlos Gardel: cioè ai suoi interpetri meno convenzionali e più sofferti. Oppure, ancora, jazzofili prestati ad un progetto accarezzato da tempo: e già divulgato nelle piazze e nei club di Puglia, da più di un anno. Dal quale, infine, è scaturito un cd, appena sfornato dall’etichetta Panastudio: Historias del Sur.
I Tangheri sono Antonio Di Lorenzo, batterista di collaudata versatilità; Davide Penta, bassista puntuale e prolifico; l’ostunese Vince Abbracciante, fisarmonicista emergente, e Rocco Capri Chiumarulo, la voce teatrale che offre conforto alle note. Il lavoro di esordio, invece, è un contenitore di dodici brani: alcuni universalmente conosciuti da una larga fetta di pubblico, altri di produzione propria. Un contenitore che passa da "Vuelvo al Sur" («Torno al sud/Come si torna sempre all’amore/Arrivo al sud/Come un destino del cuore/Sono del sud/Immensa luna/Cielo al rovescio/Cerco il sud/Con il suo domani, il suo dopo/Voglio il sud/La sua buona gente/La sua dignità») a "Caminito", da "Sus Ojos se Cerraron" a "Jeanne y Paul", attorno alle quali sfilano "Rouge" (scritta da Davide Penta), "T-Rex" (di Vince Abbracciante) e "Todo Tiene un Final" (di Antonio Di Lorenzo).
Historias del Sur, in realtà, è un omaggio divertito, un tributo goliardico ad un genere che non ha ancora esaurito la sua epoca. Ma è anche un disco sentito e, contemporaneamente, partorito con leggerezza. Senza la pretesa dei protagonisti di prendersi troppo sul serio. Ed è anche un’alternativa alle sonorità del jazz, alle quali il gruppo continua a rimanere saldamente ancorato. E verso le quali il disco, evidentemente, si affaccia, più che velatamente: traendone sostentamento ed ispirazione. Issandosi, perché no, su quella sinergia di stili che, oggi, fanno tendenza. E che i cultori della nuova lingua musicale chiamano contaminazione. Anche e soprattutto quando si apre la pagina di "Last Tango in Paris", di Gato Barbieri. Giusto per ricordarci che le note non hanno confini: né temporali, né geografici, né stilistici.

Historias del Sur (Panastudio, 2004)
Antonio Di Lorenzo (batteria), Davide Penta (basso e contrabbasso), Vince Abbracciante (fisarmonica), Rocco Capri Chiumarulo (voce)

(pubblicato dal mensile "Pigreco")

lunedì 26 aprile 2004

Joyce, bossa profonda

ecce chiama ancora il Brasile e il Brasile risponde. E l’abitudine di incontrarsi si consolida: piacevolmente. Accadeva in estate, quella appena passata: allora da Palazzo Adorno passarono Gilberto Gil e Maria Bethânia e, subito dopo, Caetano Veloso riempì Piazza Duomo. E accade di nuovo, ad aprile, quando la rassegna «Jazle 2004» tributa il suo penultimo spazio a Joyce. Stavolta non nella consueta cornice del Teatro Paisiello, dove dodici mesi prima transitarono Jacques Morelenbaum e il Quarteto Jobim, ma nel più defilato e freddo Teatro Don Bosco. Dove l’impressione è che l’appuntamento, meritevole di un’affluenza più corposa, passi abbastanza inosservato. Seminando qualche spicciolo di rammarico.
Il palcoscenico cambia, ma il Brasile svicola ugualmente: con discrezione e garbo. Perché Joyce si concede una serata di bossa profonda, contaminata da poche - pochissime - divagazioni. Immergendosi nei classici: rivisitati appena, per non cavalcare il pericolo di stravolgerli. Elargendo almeno quattro brani immortali: utili a sintonizzarsi sulla modulazione di frequenza di quanti non convivono abitualmente con le sonorità di oltre oceano. E ripercorrendo il solco della tradizione: cioè scegliendo un compromesso tra la sua musica e quella che la gente, quasi sempre, si attende di ascoltare in un concerto di un artista brasiliano.
Joyce compone, corposamente. Questa volta, però, si preferisce interprete. O, almeno, non esclude affatto questa possibilità. E, allora, sgorgano "Aguas de Março", "Corcovado" e "Ela é Carioca" di Tom Jobim, "Eu e Você" di Carlos Lyra, "Samba da Bênção" di Vinícius. E poi, ancora, "Upa Neguinho" di Edu Lobo, che finisce inevitabilmente per raccontare un pezzo della storia di Elis Regina, e "Aquarela do Brasil" di Ary Barroso («E’ l’inno nazionale brasiliano», certifica). Prima di tornare indietro nel tempo, riproponendo "O Que E' Que a Baiana Tem" di Dorival Caymmi, con cui il live si chiude definitivamente.
Joyce è brio, dosato con leggerezza. Probabilmente perché è figlia della bossa: etichetta che ostenta con orgoglio, ripetutamente. «Quando arrivai in Italia per la prima volta, ero al seguito di Vinícius de Moraes e di Toquinho». Quella tournée fu itinerante, persino nel nome: Il Poeta, la Ragazza e la Chitarra. «La mia generazione si è formata con la bossa nova. E proprio Vinícius e Tom Jobim sono i miei padrini musicali. E, anche se oggi tento nuove soluzioni artistiche, non dimentico la mia provenienza, il mio passato».
Il jazz entra in scaletta con `The Band on the World`, brano che abbraccia l’inglese, dedicato ad un vecchio club di Manchester, e si sviscera con le improvvisazioni di Teco Cardoso (flauto e sax), Rodolfo Stroeter (basso) e Tutty Moreno (batteria), che chiudono la prima parte del concerto. Il viaggio si concede anche una deviazione alla ricerca delle radici, raggiungendo il luar de Luanda: alla fine, però, ripara ancora nella bossa. Cioè, in una sedia e una chitarra: «La bossa ha bisogno di una sedia: non ho mai visto João Gilberto esibirsi in piedi. E, ovviamente, poi ci vuole concentrazione».
E passione. «Chiaro. Al di là del desiderio di innovazione che sta attraversando il Brasile. Ci sono molti artisti, da noi, che stanno crescendo e si stanno imponendo, sperimentando strade nuove. Artisti che, spesso, sono i discendenti naturali di chi ha contribuito a disegnare il panorama musicale del nostro Paese negli anni Sessanta e Settanta. Prendete la figlia di Elis Regina, Maria Rita. O Simoninha, il figlio di Wilson Simonal. E anch’io ho due eredi che hanno iniziato il proprio percorso: Ana Martins e Clara Moreno. Del resto, la musica brasiliana esce da un momento particolare, in cui le case discografiche avevano impartito una politica eccessivamente commerciale. Credo, tuttavia, che qualcosa sia cambiato o stia cambiando. Diciamo pure che la situazione tende ad un miglioramento evidente. La musica brasiliana si avvicina al futuro, perché possiede un futuro, oltre che un passato. Un passato che deve essere riconosciuto come patrimonio dell’umanità».

Joyce (voce e chitarra), Teco Cardoso (flauto e sassofono), Rodolfo Stroeter (basso) & Tutty Moreno (batteria)
Lecce, Teatro Don Bosco
Jazle 2004

(pubblicato dal sito www.musibrasil.net)