mercoledì 11 marzo 2009

Fiorella non tradisce mai

Intendiamoci: Il Movimento del Dare non è, complessivamente (e, ribadiamo, complessivamente) il disco più profondo di Fiorella Mannoia. E neppure il meglio riuscito. O il più originale. Ed è anche il meno intellettuale, nell’accezione più ampia del termine. Malgrado almeno un paio di tracce di sicuro livello. Probabilmente, l’ultimo album, sul mercato discografico dal novembre dell’anno trascorso, non occuperà un posto nella storia della cantante romana. Né nell’ideale raccolta preferita dei suoi sostenitori più affezionati. Magari perché non è poi così scontato confermare puntualmente lo spessore qualitativo della produzione. O forse perché, dentro Il Movimento del Dare c’è abbastanza (o molto) pop: che segna una soluzione di continuità dall’impronta cantautoriale degli album precedenti. Attorno ai quali, appunto, si forgia la storia della Mannoia.
Però, Fiorella è ancora Fiorella. E la sua musica, al di là delle modalità, è sempre impregnata di qualità: interpretativa, quando non anche compositiva. E poi Fiorella non tradisce mai: perché tutto, dal suo microfono, prima o poi finisce per convincere. Sarà per la sua grazia naturale. O per la passione dell’impegno: professionale e sociale. O per l’intensità di quello che canta. O che racconta. Per l’arte di comunicare. E per la semplicità con cui cuce il rapporto: con la platea, con la musica, con le storie di vita quotidiana. Tranquilli: non è un passato (prossimo e remoto) baciato dal successo e il fascino intatto di quest’eterna ragazza a condizionare il pensiero. E non è vero neppure che Fiorella Mannoia debba necessariamente godere di immunità illimitata. Quello che interpreta, però, si valuta puntualmente. Anzi, si ipervaluta. E quel che potrebbe diventare, diventa. Sempre. Fiorella è come un fiume, che lava tutti i dubbi, se i dubbi affiorano.
Il Movimento del Dare, però, è un disco che si fa notare. Dicevamo della svolta in chiave pop. Ma c’è pure dell’altro: innanzi tutto, firma il ritorno di Fiorella all’esecuzione di tracce (dieci, per la precisione) inedite. Dopo sette anni, consumati a riproporre vecchie situazioni dal vivo oppure, come accaduto più recentemente, belle pagine di musica sudamericana, opportunamente tradotte e riarrangiate. Di più: l’ultima fatica discografica consegna una Mannoia che offre la voce a testi di autori mai interpretati, sin qui. Come Ligabue, che in tempi non troppo lontani aveva dedicato il proprio tempo ad un cantautore di culto e di lunga militanza qual è Guccini. Oppure come Bungaro e Tiziano Ferro. Riproponendo, nel contempo, spartiti di vecchi amici come Ivano Fossati e Pino Daniele: diventando un trait-d’union tra ciò che è stato, quel che è e ciò che, un giorno, potrà essere.
L’album , allora, merita un tour: che pasa anche dal Teatro Nuovo di Martina. Dove lei – ci mancherebbe – non evita di accedere corposamente al suo repertorio più celebrato, destinandogli – anzi – un taglio alto. In vestito bianco, a coda, apre con la realistica Io Posso Dire la Mia Sugli Uomini, di Ligabue, che poi è il motivo che inaugura il nuovo disco. Sùbito dopo, però, è il tempo di Mimosa, di Nicolò Fabi («Non la cantavo da un po’ di anni», dice), di Sally, della delicata e fossatiana C’è Tempo, di Come Si Cambia e di E Penso a Te, omaggio vibrante a Lucio Battisti («Ho deciso di mettere a dura prova le emozioni», fa sapere). E’ scalza, Fiorella: alla maniera di Cesária Evora. O, se volete, di Maria Bethania. Fino a Che Non Finisce, di Bungaro, Il Movimento del Dare (di Franco Battiato e Mario Sgalambro) e Il Sogno di Alì, di Piero Fabrizi, arrivano appena più tardi, a chiusura della prima parte del concerto, in cui arrangiamenti ed atmosfera sono assolutamente curati, sobri, eleganti. E in cui emerge ostinata la forza di porsi ancora delle domande: «Mi chiedo se questo è il progresso e se questo è il mondo che volevamo, dove il silenzio e l’indifferenza uccidono due volte».
La seconda parte è più informale. Fiorella passa dal bianco al nero, dai pieni nudi agli stivali scamosciati. L’approccio di Oh Che Sarà è esclusivamente vocale. Poi, un vecchio rap impegnato di Jovanotti (Occhio Non Vede, Cuore Non Duole) chiede un’introduzione accorata («Viviamo in una bolla di rassegnazione e la sensazione è che i giochi siano già stati fatti, e la politica c’entra relativamente. C’è un disegno che ci vuole rassegnati: ma chi è questo nemico planetario, chi c’è dietro questa crisi globale, chi la manovra, chi ci guadagna?». La Bella Strada di Fossati e Il Re di Chi Ama Troppo di Ferro riconducono al disco da presentare; Giovanna D’Arco di De Gregori, Il Cielo d’Irlanda, I Treni a Vapore e Il Tempo Non Torna Più sono tributi al passato. Fiorella non dimentica nappure De Andrè, a dieci anni dalla scomparsa dell’auore genovese. E, infine, chiude «con quella che è la Canzone», cioè Quello Che le Donne Non Dicono, incalzata da una Buontempo in versione latin e da Clandestino di Manu Chao, interpretata anche in platea, a contatto con il pubblico. La Mannoia è tornata. Con un disco nuovo e l’intensità dei giorni più belli. Fiorella è ancora e sempre Fiorella. E non tradisce mai.

Fiorella Mannoia (voce e percussioni), con Fabrizio Leo (chitarre), Roberto Gallinelli (basso), Luca Scarpa (pianoforte), Bruno Giordano (tastiere e sassofoni), Marco Brioschi (tromba e flicorno), Lele Melotti (batteria) e Carlo Di Francesco (percussioni)
Martina Franca (TA), Cineteatro Nuovo

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)