sabato 4 giugno 2011

Bari in Jazz, una residenza per cominciare


Il quartetto nordico di Tomasz Stanko, James Taylor, Bojan Z e la reunion coordinata da Mauro Gargano, i Blues Breakers Renewed, il quintetto di Sylwester Ostrowsky e Piotr Wojtasik, Cuong Vu e l’Apulian Orchestra, Anthony Joseph, il trio di Blake Allison Drake, la Cosmic Band di Gianluca Petrella: il cartellone duemilaundici di Bari in Jazz offre il meglio che la ricerca last minute del suo direttore artistico Roberto Ottaviano è riuscita a selezionare. La kermesse targata Abusuan (quindici concerti in quattro date, dal ventotto giugno al due luglio) è già vicina. Come sempre, dislocata in diverse location (il Teatro Piccinni, piazza del Ferrarese e l’Auditorium della Vallisa) e, come sempre, aperta anche ad espressioni autenticamente pugliesi quali i Camillorè (gruppo che, peraltro, si allontana dai canoni del jazz), l’Hocus Pocus Quartet di Gianni Lenoci, il quartetto di Rino Arbore, la band di Dario Skepisi, la Reunion Platz di Michele Giuliani e la tribù di Raffaele Casarano, che propone Argento, la sua ultima fatica discografica.
La settima edizione del festival, però, propone altri due episodi fuori programma. Uno, quello di chiusura, è assolutamente pregiato: il tredici ottobre si esibisce Wayne Shorter, leggenda vivente che, in Puglia, costituisce uno degli appuntamenti musicali più attesi dell’intero anno. L’altro, invece, è l’antipasto che lo stesso Ottaviano si è ritagliato per sé e per un plotone di amici (il contrabbassista Giorgio Vendola e il trio olandese dei Boi Akih) nella chiesa di Santa Teresa dei Maschi. Greencard (è questo il nome del progetto) è, innanzi tutto, il prodotto sgrezzato di una reunion, il frutto più immediato della residenza incoraggiata da Puglia Sounds, che affianca nel lavoro quotidiano di Bari in Jazz 2011 il Centro Abusuan, e dell’ambasciata dei Paesi Bassi in Italia, in collaborazione con il programma Dutch Italian Music Exchange e il Performing Art Fund. Lavoro che, prossimamente, la formazione presenterà nei festival di Amsterdam, Rotterdam ed Utrecht. E che, nello specifico, si incarica di riassumere l’incontro tra il patrimonio musicale di terre lontane (le Molucche, suolo d’origine della voce del gruppo, Monica Akihary), gli umori e i sapori della musica etnica e, infine, la storia del jazz di matrice europea, oggi particolarmente attirato dalla contaminazione e stimolato da una sete di modernità travolgente.
Dalla commistione, peraltro, esce un concerto dai contorni cameristici, non eccessivamente terragno, dove vocalizzazioni e scat offrono la sponda a un lavoro delicato e ad un sound di gradevole raffinatezza, che viaggia attraverso molteplici linguaggi, sfiorando talvolta anche il free jazz. Monica Akirahy possiede molta tecnica, voce plastica e modulata. Gli oggetti sonori di Sandip Bhattachraya sussurrano, ma offrono densità. La chitarra di Niels Brouwer si muove tra mille atmosfere, trasformandosi spesso in strumento di percussione. I sassofoni di Roberto Ottaviano, artista dalle intuizioni argute (non ricordiamo un solo progetto fallito), entrano nel tessuto del live con robustezza e il contrabbasso dosato di Giorgio Vendola unisce le varie anime della formazione. «Tutto nasce – fa sapere Ottaviano – da uno scambio di registrazioni: Monica e il suo gruppo hanno avuto la possibilità di ascoltare Pinturas, un recente lavoro realizzato a mio nome, e noi abbiamo valutato i loro primi due album. E, infine, ci siamo incontrati due giorni prima di esibirci, provando proprio all’interno di Santa Teresa dei Maschi. Del resto, è da tempo che cercavamo di confezionare una residenza come questa: che, di fatto, è l’esperienza d’esordio».
Il resto, dicevamo, sta per arrivare. In coda alle solite difficoltà di percorso e tra qualche venatura polemica. «Questa – puntualizza lo stesso Ottaviano – è un’avventura nata alle piscine comunali, sette anni fa. Da allora, si sono sviluppate situazioni differenti, con le quali il festival è cresciuto, nonostante i tempi difficili che la cultura e, quindi, anche la musica hanno dovuto affrontare. Ritengo, tuttavia, che gli sforzi e l’attenzione verso questa idea non debbano attenuarsi. Anzi. Bari in Jazz non può più essere considerato come il frutto dell’impegno di un’associazione culturale come Abusuan, che si avvale dell’affiancamento di alcune istituzioni e di uno sponsor importante. La progettualità, invece, necessita di nuove risorse, più robuste. Parlo per quel che mi riguarda: un direttore artistico di una manifestazione di livello non può limitarsi a concentrare le proprie energie sui last minute, né preoccuparsi di sforare il budget di mille euro. Un festival non può e non deve accontentarsi su situazioni di ripiego, ma nutrirsi di una propria identità, anno dopo anno. Arricchendosi, se possibile, di momenti di incontro che valorizzino i concerti e che seguano i suggerimenti che arrivano dal resto del Paese e pure dall’estero. Lavorando, cioè, in anticipo con i tempi: dunque, con un budget prestabilito e solido». Limpido, inequivocabile. Ma, oggi, persino utopistico.

Roberto Ottaviano (sax soprano e sopranino), Giorgio Vendola (contrabbasso) & Boi Akih (Monica Akihary: voce; Niels Brouwer: chitarra; Sandip Bhattachraya: percussioni) in “Greencard”
Bari, Chiesa di Santa Teresa dei Maschi
Bari in Jazz 2011