mercoledì 20 dicembre 2006

Dischi - Forward (Ettore Carucci)

Forward: per ripetersi. E confermarsi. Ettore Carucci torna a scrivere musica. E a suonare. Il prodotto è un cd appena griffato dalla Dodicilune di Gabriele Rampino, etichetta discografica leccese che preferisce orientarsi sulle produzione di buona qualità e che, ultimamente, ha incoraggiato le idee e diffuso gli spartiti di diversi musicisti rampanti di casa nostra. Da Raffaele Casarano (con Legend) a Pierluigi Balducci (con Leggero, realizzato dal suo Small Ensemble), da Rino Arbore (con Après la Nuit) ad Andrea Sabatino (con Pure Soul, arricchito dalla presenza di Fabrizio Bosso), da Vincenzo Deluci (con la deliziosa La Rana dalla Bocca Larga, del 2003) al pianista brindisino, ma ormai emigrato a Parigi, Nicola Andrioli (il disco è Alba). Torna a incidere, Carucci: e lo fa a meno di un anno di distanza dalla pubblicazione di I Way I Like (edito da Goody Music), album che ci piacque non poco, pensato assieme al batterista Francesco Lomagistro e pubbliczzato con qualche data live nel corso dell’ultima estate. Segnale, questo, evidentemente positivo: in quanto utile a ribadire l’attuale verve creativa del pianista tarantino, da un po’ di tempo particolarmente ispirato e, soprattutto, saturo di motivazioni. Ampiamente dimostrate, ad esempio, anche nel corso di Antiphonae Jazz 2006, a Locorotondo, in una della cinque date della rassegna: dove ha supportato con brio, eleganza e puntualità il già citato Raffaele Casarano nel viaggio musicale intrapreso con gli archi del Vertere String Quartet. Forward, intanto, è un’altra storia. Scritta con amici nuovi (i pluridecorati Ben Street al basso e Adam Cruz, già sodale di Chick Corea, alla batteria) e totalmente eseguita in live session, ad aprile, in un Teatro Paisiello (a Lecce) vuoto, ma acusticamente perfetto. Il lavoro, mixato da Valerio Daniele e sponsorizzato da Jazle, che poi è uno dei contenitori jazzistici più interessanti di Puglia e parente strettissimo della Dodicilune, si divide in nove tracce, di cui solo quattro (“Autumn Leaves” di Prévert e Kosma, “Lonnie’s Lament” di John Coltrane, “Bye Bye Blackbird” di Andreson e “Dolphin Dance” di Herbie Hancock) possono fregiarsi del titolo di cover. L’impronta di Carucci, invece, si poggia sulla fresca “I Remember Monk”, sull’intima e curata (a dispetto del titolo) “Confusion”, sulla minimalista “Piano Impro#1” (peraltro seguita da “Piano Impro#2”) e, infine, sulla dolce e raffinata “My Favourite Eyes”. Dicevamo: Ettore e i suoi nuovi amici. Già visti e ascoltati, proprio a Lecce, all’interno del cartellone di Jazle, al fianco del pianista venezuelano Edward Simón. E compenenti tradizionali del trio di Danilo Perez: dunque, niente affatto sconosciuti agli appassionati del settore. Il contrabbassista newyorchese Ben Street, oltre tutto, è atteso, nel prossimo febbraio, a Terni Jazz, con il quartetto di Aaron Parks. La perizia – sua e di Cruz - all’interno del disco è peraltro evidente, pregnante. E il risultato finale è un lavoro elegante e sobrio, talvolta anche brioso (è il caso della versione di “Lonnie’s Lament”): in cui emerge la cura dei particolari che timbra il prodotto ultimo, rifinito e accattivante, mai ostico, ricco di sfumature, vario. Ingredienti che lo spingono ad occupare un posto nell’elenco dei migliori album presentati nel corso dell’anno da autori pugliesi. Il cui livello medio, detto per inciso, continua a convincere la critica e, soprattutto, gli artisti dotati di nome che arrivno da oltre confine. E che, sempre più numerosi, accettano collaborazioni più o meno impegnative. Segno inequivocabile di un movimento che si confronta, che fermenta, che cresce. Senza conoscere flessioni: questa terra può trarne orgoglio.

Forward (Dodicilune, 2006)

Ettore Carucci Trio (Ettore Carucci: pianoforte; Ben Street: contrabbasso; Adam Cruz: batteria)

(pubblicato sul sito www.levignepiene.com)

venerdì 15 dicembre 2006

Sapori forti di Lucania

L’impegno sociale, le battaglie, la quotidianità dei cafoni, la questione meridionale, le terre amare, il destino dei dimenticati, la schiavitù contadina. Il poeta neorealista e il sindaco di provincia: Rocco Scotellaro, ieri. I versi e la figura, il pensiero e il messaggio, umano, ancor prima che politico: Rocco Scotellaro, oggi. Tra gli spartiti appassionati dell’Antonio Dambrosio Ensemble e l’omaggio – a cinquantatre anni esatti dalla scomparsa dello scrittore di Tricarico – di Antiphonae Jazz 2006. Tra le note di un progetto ormai rodato (perché inaugurato in estate) e il respiro ampio di un concerto scandito da rabbie antiche e dolori inevasi. Quello che chiude la serie, rimadando all’anno che verrà. Il quinto e ultimo di una rassegna sopravvisuta anche (e, a questo punto, diremmo soprattutto) per chiarire un concetto: non è necessario rincorrere, sempre e comunque, nomi e cognomi pregiati per sostenere il cartellone. Perché costruire una programmazione convincente con i musicisti di questo angolo d’Italia si può. Puntando sulle idee, innanzi tutto. E incoraggiandole. Anche se qualcuno non se n’è accorto. O ha finto di farlo. Rocco Scotellaro e il suo bagaglio di testimonianze. Alcune delle quali ripercorse dalle voci narranti di Francesco Tammacco e Matilde Bonaccia. E, dietro, un quartetto d’archi (Giuseppe e Vito Amatulli, Domenico Mastro e Vanessa Castellano, ovvero la musica nobile), due fiati (Achille Succi e Nicola Piovani, puntuali e asciutti), un contrabbasso e un piano (Camillo Pace più Pasquale Mega, cioè l’anima jazzistica), un polistrumentista (Pino Basile, cioè la faccia popolare della formazione) e un elemento di raccordo (Antonio Dambrosio alla batteria e alla direzione, oltre che alla composizione). L’ottavo percorso di «Antiphonae», dunque, si esaurisce così, fortificando l’intuizione che l’ha innervato sin dal primo momento: quella di viaggiare attorno al jazz, corteggiandolo e perforandolo, lambendolo e strisciandolo. Contaminandolo e arricchendolo. Senza mai abbandonarlo definitivamente. Si esaurisce, sì, ma lasciando un sapore buono. Con un live sempre pronto ad allargarsi verso umori diversi, sempre pronto ad aprirsi a sonorità persino distanti tra loro. E altrettanto abile a riguadagnare i binari jazzistici, proprio quando sembrano essersi dissolti (il ruolo specifico di Mega e Pace, del resto, è proprio quello). Concerto sempre fluido, tuttavia: e non inganni la presenza di due voci recitanti o la matrice poetica della serata. Fluido e vario, mai stantio o imbavagliato. Spesso di sapore forte, come la terra di Lucania. E di collocazione (e, magari, anche lettura) non semplicissima, è vero: perché ora un po’ austero e ora immediato, perché talvolta dolce e talvolta spigoloso. E, in certi passaggi, persino nervoso, ma sempre lucido, digeribile. E, ci è parso di capire, anche intriso di cuore: particolare che non dispiace, nemmeno ai meno romantici. Come non dispiace l’ormai imminente pubblicazione di un cd («Sempre Nuova è l’Alba») che insegue i passi di un progetto di parole e musiche disposte a combinarsi ordinatamente, diligentemente. Ma con il vigore proprio delle genti lucane, quelle delle pagine di Scotellaro, scomparso troppo presto. Con il vigore e la robustezza della «turba dei pezzenti, quelli che strappano ai padroni». Quella gente di quella patria, dove l’erba trema.

Antonio Dambrosio Ensemble (Antonio Dambrosio: batteria e percussioni; Pasquale Mega: pianoforte; Achille Succi: clarinetto e sax alto; Nicola Pisani : sax alto; Camillo Pace: contrabbasso; Giuseppe Amatulli: violino; Vanessa Castellano: violino; Domenico Mastro: viola; Vito Amatulli: violoncello; Pino Basile: tamburi a cornice e cupa cupa)
Locorotondo (BA), Auditorium Comunale
Antiphonae Jazz 2006

(pubblicato sul sito www.levignepiene.com)

domenica 3 dicembre 2006

O Rei do Bandolim

Taranto, talvolta, si risveglia da un torpore atavico e dilagante. E diventa la casa di un evento. Segno che la speranza va coltivata, sempre e comunque. E chi cerca live importanti, per l’occasione, deve ringraziare l’intuizione e l’offerta del Ramblas, un musiclub che si è ripromesso di organizzare anche qualche appuntamento di spessore specifico, utile a riscaldare le serate d’inverno. O, più segnatamente, Gianluca Guastella, che – supportato dal lavoro di Antonio Esperti - ha voluto sul palco di via Regina Margherita Hamilton de Hollanda, brasiliano di Rio traslocato giovanissimo a Brasília, re incontrastato del nuovo “choro”, stile musicale antecedente la bossa nova e a metà strada tra il dotto e il popolare, ed erede designato di Jacob do Bandolim. Che, dello “choro”, è stato interprete pregiato e anche punto di riferimento unanimemente riconosciuto per decenni. L’artista è un artista vero. E precocissimo: a cinque anni comincia a suonare il bandolim, che poi è il mandolino utilizzato in Brasile per proporre lo “choro”. Un mandolino che si accorda come un violino e che cambia la vita al ragazzo. Precoce anche a formare un gruppo musicale (un duo, il «Dois de Ouro», con il fratello, a undici anni) e a guadagnare titoli e ingaggi. Basta sentirlo, per capire il perché. E bastano pochi secondi, per scoprirne la tecnica altissima e la capacità forte di comunicazione. Per catturare la grande quantità di note e di suoni distribuiti con sette corde, squillanti e assolutamente autonome. Tanto da rendersi sufficienti senza accompagnamento. Perché, al «Ramblas», Hamilton de Hollanda si esibisce da solo. E, ovviamente, in acustico. Perché quel bandolim può fidarsi esclusivamente di se stesso, senza temere. E riempire la platea, plagiandola. L’artista è un artista geniale. Che, a trent’anni, usa lo strumento come potrebbe usare un’orchestra. Assicurando forma, corpo, sfumature. Il bandolim rincorre e si fa rincorrere, diventa incalzante, dirige ed esegue, è ritmo e passione, è il mezzo ed è il fine ultimo. Ed è anche percussione, quando serve: cassa armonica naturale, pronta a rispondere alle mani che battono sul legno, con sapienza. Il concerto è serrato, vivido, vissuto. E si sviluppa ben oltre i confini dello “choro”. Pescando avidamente nel contenitore infinito e variegato della MPB, la musica popolare brasiliana: “Samba do Avião”, ad esempio, è uno dei classici di Tom Jobim; “Feitiço da Vila” è una delle canzoni più intriganti dell’antico Noel Rosa; “Beatriz” è una delle saltuarie e felicissime produzioni a quattro mani di Chico Buarque de Hollanda e Edu Lobo; “Disparada” è musica sanguigna firmata da Geraldo Vandré, autore che Italia non dice nulla, ma che nel Brasile dei militari e della dittatura si è ritagliato un’angolo di notorietà, molte torture fisiche e irreparabili guai personali. Non solo: Hamilton cerca stimoli nell’Argentina di Astor Piazzolla, con la versione di “Adiós Nonino”, e nel repertorio di Andrea Morriconi, con “Tema d’Amore”. Solidificando quel processo di apertura del proprio cammino artistico, che l’ha condotto (e lo sta tuttora conducendo) a collaborazioni differenti: ultima, ma solo cronologicamente, quella con Hermeto Pascoal. Che, del ragazzo con il bandolim, racconta: «E’ un musicista nato con una dote: tutto è facile, per lui. E, anche se viene dalla scuola di Jacob do Bandolim, va al di là dei confini della musica tradizionale, proponendo un rinnovamento dello “choro”». Particolari, questi, che peraltro non cancellano il valore simbolico del prologo del live, cioè l’esibizione di Federico Di Viesto e Giovanni De Palma, chitarristi e – soprattutto - mandolinisti di San Vito dei Normanni, più saldamente ancorati al concetto di musica dichiaratamente popolare, forte e saporosa come la terra di Puglia. Protagonisti più oscuri, virtuosi di provincia: orgogliosi di quel “Conte di Lussemburgo” che, nell’ottocento, era considerata la serenata più efficace. Memorie storiche di polke e romanze che sopravvivono ancora, testimonianze di resistente cultura contadina. Lontane dallo “choro” e dalle sue evoluzioni: eppure così accattivanti. Testimonianze irriducibili, con una propria storia, poggiata in un altro continente: ma, se ci pensate bene, più vicina all’altra di quanto possa apparire.

Hamilton de Hollanda (bandolim)
Taranto, Ramblas Musiclub
Non So(u)l Jazz

(pubblicato sul sito www.levignepiene.com)

venerdì 1 dicembre 2006

Il momento di Casarano

Dicono che è il suo momento. Che cresce velocemente, che può affrontare il domani. Ed è vero. Raffaele Casarano, intanto, sgomita e amplia il suo orizzonte. Sì, è il suo momento: inaugurato, la primavera passata, con «Legend», album fresco e godibile partorito dalla collaborazione con il contrabbassista Marco Bardoscia, il pianista Ettore Carucci e il batterista Alessandro Napolitano (cioè i Locomotive) e rifinito con l’apporto blasonato di Paolo Fresu e dell’Orchestra del Conservatorio “Tito Schipa” di Lecce: particolari inequivocabili che custodiscono intenzioni solide e rampanti. E proseguito con la direzione artistica (di più: con l’ideazione e la successiva organizzazione) del Locomotive Jazz Festival, happening concentratosi in estate a Sogliano Cavour, pieno Salento, dove Raffaele Casarano – cresciuto nel solco della passione per Charlie Parker - gioca in casa. A cui neppure la pioggia (due giorni sui tre di programmazione) ha voluto sottrarre il velo di soddisfazione e orgoglio. Il suo momento è questo: perché il ragazzo sta attirando attenzioni e critiche molto più che confortanti. Perché il suo nome circola e decolla. Perché di lui, e non solo in Puglia, si comincia a parlare, con parole serie e buone. Perché i progetti, lentamente, si moltiplicano: nuovo (e più o meno imminente) lavoro discografico a parte, ovviamente con gli stessi compagni di percorso, stuzzica la stoica ricerca di un’evoluzione artistica, che non si accontenta di esplorare sentieri iperbattuti e sicuri. Prendete il live di Locorotondo, inglobato nel cartellone di Antiphonae 2006, rassegna intelligente e frizzante, ma anche un tantino snobbata dal pubblico e, soprattutto, dagli operatori dell’informazione (sotto questo aspetto, il salto di provincia – da quella di Taranto a quella di Bari – non ha pagato: gli antichi partner mediatici non sono stati sostituiti). Sul palco dell’Auditorium Comunale i Locomotive hanno incontrato il Vertere String Quartet, gruppo di impostazione classica (due violini, una viola, un violoncello) che, da tempo, gravita attorno al mondo della contaminazione attenta (ovvero discreta, ponderata) e delle modalità jazzistiche rivedute e corrette: come l’ormai robusta e datata collaborazione con Javier Girotto conferma. Casarano, Locomotive e Vertere: mondi apparentemente lontani, ma immediatamente vicini. Per un concerto che ha ribadito le potenzialità del sassofonista salentino e del suo gruppo e che ha convinto Giuseppe Amatulli e soci (i Vertere, appunto) a insistere. Tanto che il progetto (la prossima data è fissata al Ramblas Musiclub di Taranto, il 9 dicembre prossimo; gli altri appuntamenti vanno definiti) si svilupperà. Un concerto equilibrato e ben assemblato che, contemporaneamente, ha voluto ripercorrere qualche passo di Legend, la prima fatica discografica a proprio nome di Casarano (ad esempio, con la versione di “O Que Será”: un angolo di Brasile non guasta mai), anticipare quel che verrà (“Waltz for Nina”, scritto da Marco Bardoscia, entrerà di diritto nel prossimo cd), omaggiare amici importanti (l’apertura è un tributo a Javier Girotto, autore di “La Poesia”), salutare le radici popolari della musica pugliese (con “Lu Rusciu de Lu Mare”, arrangiata dal galatinese Simone Borgia), sfruttare la musica per dediche familiari (ecco, allora, “I Love My Life”) e tuffarsi nel blues più accattivante (bella la versione di “No Money”). E che, soprattutto, ha saputo avvicinare le due anime salite sul palcoscenico, proponendo – è meglio ricordarlo – artisti pugliesi. Centrando l’obiettivo di partenza: senza timore alcuno di smentita.

Raffaele Casarano (sassofono), Locomotive (Ettore Carucci: pianoforte; Marco Bardoscia: contrabbasso; Alessandro Napolitano: batteria) & Vertere String Quartet (Giuseppe Amatulli: violino; Ida Ninni: violino; Giuseppe Grassi: violoncello; Domenico Mastro: viola)
Locorotondo (BA), Auditorium Comunale
Antiphonae Jazz 2006

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

sabato 25 novembre 2006

L'Argentina vista da Córdoba

Argentina, quella croce del sud nel cielo terso, equazione senza risultato, capovolta ambiguità d’Orione. Testo (e letteratura, pittoresca ma credibile) di Guccini, tra verità e magia, percezioni e poesia urbana, sensazioni e realtà quotidiana. Ormai datata, ma ancora terribilmente attuale. Argentina, terra divisa tra il passato e un futuro intravisto, da sempre, con inquietudine e incertezza, di pensieri profondi e nobiltà svilite da accadimenti – ancora troppo vicini - inenarrabili e indelebili, Di languori e umori antichi. Mèta di curiosità strisciante, tra le apprensioni di sempre e una recessione da affrontare, ogni giorno, da giorni lunghi e duri. Argentina, di tanghi tragici e, comunque, di musica adulta. Di Gardel e Piazzolla, si usa dire. Sino a scomodare Silvio Rodríguez, che tanguero non lo è mai stato. E terra, tuttavia, di altre note ancora: perché, al di là del tango, c’è un Paese che respira, una cultura che pulsa. E ci sono altri percorsi musicali: che solo l’egemonia di una di esse, grande e senza tempo – il tango, appunto - ha saputo oscurare oltre i confini nazionali e, perciò, appartare dal pubblico più vasto. La verve jazzofila e terragna di Javier Girotto, allora, arriva in tempo a ricordarci che c’è un mondo, tra l’Equatore e la Terra del Fuoco, dove convivono pure milonga (parente stretta del tango, è vero) e chaya, chacarera e samba (la samba, con l’articolo al femminile, che non è il samba, brasiliano e differente). Stili e musicalità che il sassofonista di Córdoba, ospite più o meno storico della rassegna «Antiphonae», può permettersi di presentare alla platea dell’Auditorium Comunale di Locorotondo, nel terzo live dell’edizione 2006, accompagnato da Carlos Bruschini (basso e contrabbasso), Minino Garay (batteria e percussioni) e Gerardo Di Giusto (pianoforte). Presentandosi, cioè, in una veste nuova. O, meglio, inedita, da queste parti: quella dei Córdoba Reunión, quartetto che affronta il viaggio tra gli spartiti ispirandosi al jazz (e nutrendosi di jazz) per circumnavigare, sùbito dopo, le atmosfere più popolari di un’Argentina florida e malinconica, magica e gravida: di illusioni, disillusioni, speranze e disturbi. Córdoba Reunión, la compagnia di Córdoba, ovvero la città da cui ognuno degli integranti del quartetto si è formato, in attesa di spaziare oltre. Cioè, di emigrare: per poco o per tanto, temporaneamente o definitivamente. Come ogni argentino di talento - e non solo in campo musicale – è stato costretto a fare nel ventesimo e nel ventunesimo secolo. Proprio come Javier Girotto, rifugiatosi a Roma. O Minino Garay e Gerardo Di Giusto, trasferitisi nel fascino di Parigi. O Carlos Bruschini, transitato da Despeñaderos al Lago Maggiore. Córdoba Reunión, per servirvi. E per distribuire un progetto vivace e fresco, impastato di ritmo e di ritmi, di energia e calore. E anche di colore, perché no. Un progetto dai gusti rotondi, convincente. Talvolta effervescente. E, a tratti, persino esuberante. Questione di animo, oseremmo dire. Importunando una frase fatta e abusata, aggiungeremmo: questione di animo latino. Correndo il rischio serio di apparire scontati. Ovvio, l’impronta del live (e la direttrice dell’idea che lo genera) è fortemente jazzistica: nell’esecuzione e negli arrangiamenti. Ma l’incrocio di culture diverse e di esperienze musicali arricchisce, invece di sviare. In questo caso più che in altri. La contaminazione esiste, insiste: ma non corrode. Dà, piuttosto che sottrarre. E lascia maturare ulteriormente il progetto stesso. Che si evolve, dopo un settennato di cammino. «Ci siamo ritrovati dopo vent’anni, lontano dall’Argentina, in Europa. Vent’anni in cui ci eravamo un po’ persi, malgrado un passato remoto condiviso, agli albori delle carriere di ciascuno di noi», confessa Girotto. «E adesso torniamo nel nostro Paese, ad esibirci. Perché a dicembre presenteremo in tournée un nuovo lavoro discografico: che si chiama proprio Córdoba Reunión. Sono tutti brani originali. Ma, alla base del lavoro, convivono varie sezioni ritmiche». Il banco di prova è serio, serissimo. E quello di Buenos Ayres, tappa prima, ancora di più. Quattro vecchi ragazzi di Córdoba non passeranno inosservati. Assolutamente no.

Córdoba Reunión (Javier Girotto: sassofono; Gerardo Di Giusto: pianoforte; Carlos Bruschini: basso e contrabbasso; Minino Garay: batteria e percussioni)
Locorotondo (BA), Auditorium Comunale
Antiphonae 2006

(pubblicato sul sito www.levignepiene.com)

venerdì 10 novembre 2006

Intrecci suggestivi

Antiphonae 2006, atto secondo. Con due protagonisti già stabilmente accreditati sulla scena nazionale. E una trama niente affatto convenzionale. Perché inusuale (e suggestivo) è l’intreccio tra un pianoforte e un bandoneón. Lì, nel mezzo del palco, quello dell’Auditorium Comunale di Locorotondo: strumenti di stuzzicante convivenza, oltre tutto senza ulteriore accompagnamento. Evidentemente, però, l’esperimento può azzardarsi. E riuscire. Arricchendo la lista dei significati della rassegna, partita ad ottobre con il live dei Talea e ormai all’ottava edizione. Il piano è tra le mani di Rita Marcotulli, versatile quarantasettenne romana, jazzista della seconda ora (l’approccio con la musica è legato, piuttosto, alle sonorità sudamericane), ma assolutamente stimata. E non solo in Italia o in Svezia, dove ha vissuto e sperimentato. La cura del bandoneón, invece, è affidata a Daniele Di Bonaventura, marchigiano di Fermo, compositore di estrazione classica, eppure affascinato e contagiato dalle atmosfere di molti angoli di mondo (Argentina, innanzi tutto) e da progetti differenti tra loro (qualcuno, forse, ricorderà la collaborazione con Francesco Guccini nell’album «Ritratti», del 2004). L’alchimia partorisce un risultato arioso, cioè un concerto di facile assorbimento, che svicola senza intoppi, che si sparge senza frizioni, confezionato con leggerezza. Malgrado il prodotto custodisca una certa impronta classica, lasciando qualche metro di distanza dall’interpretazione jazzistica. E dove, comunque, la Marcotulli e Di Bonaventura provano a mescolare stili e preferenze, cercando soluzioni nuove. E senza oscurarsi (e togliersi spazi) a vicenda, ma compensandosi. Il repertorio è ispirato a musiche popolari raccolte un po’ ovunque. Canto alla Terra diventa così l’occasione buona per divagare tra la geografia e la musica, con eleganza, forma e sostanza. Ovvero un percorso sonoro che oltrevalica le terre conosciute, raggiungendo luoghi in cui le radici musicali riemergono con vigore. Affidandosi a brani originali (come “Just Feel”, tratto da «Koiné», del 2002, già eseguito dall’israeliana Noa, che – anzi - l’ha dirottato su un proprio album) e successi altrui, riarrangiati e riadattati. Tutti frutti di un progetto recente, proposto a Locorotondo per la seconda volta assoluta (il debutto è avvenuto ad aprile, a Pedaso, nelle Marche), come Rita Marcotulli sottolinea, lasciando trasparire un alone di orgoglio. Ma anche di un progetto fresco e impegnato, sentito: che va a collocarsi in fondo alla lista delle diverse esperienze della pianista, molto spesso rapita dai richiami del cinema o della letteratura o della poesia. E sempre pronta a ispezionare nuovi sentieri: come dimostra la prossima data pugliese, quella del 15 dicembre, quando al Teatro Paisiello di Lecce dividerà il palcoscenico di Jazle 2006 con il sassofonista britannico Andy Sheppard. Assieme al quale, detto per inciso, sta per pubblicare un nuovo lavoro, diretta conseguenza di un’intesa musicale datata già un paio d’anni.

Rita Marcotulli (pianoforte) & Daniele Di Bonaventura (bandoneón)

Locorotondo (BA), Auditorium Comunale

Antiphonae 2006

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

martedì 7 novembre 2006

Talento e buon gusto

Il talento al servizio del buon gusto. E il buon gusto al servizio del talento. E, ancora, la felicità di esprimersi con raffinatezza, sobrietà. Ma anche pienezza, intensità. E brio, quando serve. L’offerta (la prima, generosa offerta: più avanti è previsto un ulteriore appuntamento) della Camerata Musicale Barese ai cultori del jazz di qualità di casa nostra si chiama Dave Douglas, americano del New Jersey prolifico – oltre venti lavori originali dal 1991 ad oggi – e navigato. Che, al Nuovo Palazzo di Bari (per la sessantacinquesima stagione concertistica) si presenta con l’interessantissimo Donny Mc Caslin al sassofono, James Genus al contrabbasso, Clarenc Penn alla batteria e – addirittura – Uri Caine al rhodes (sì, avete letto bene: al rhodes e non al pianoforte, su specifica richiesta dell’artista). Il quintetto si dota, cioè, di un’impronta moderna che, però, nulla sottrae all’altissima densità delle esecuzioni e al calore del prodotto finito. E questo va detto sùbito, per inciso: per dribblare qualsiasi possibilità di equivoco. Malgrado – e anche questo va sottolineato – il rhodes non renda giustizia piena alla classe e alla personalità di Uri Caine. Diventando, di fatto, un passaporto insostibuibile per la tromba di Douglas e per il sassofono di Mc Caslin: che si assicurano così, dall’inizio alla fine, il fulcro delle attenzioni, gravitando a proprio piacimento tra note e improvvisazioni. E riempiendo il palco, anche da sole. Senza dimenticare, tuttavia, di offrire lo spazio vitale agli altri strumenti, utilissimi ad aprire la strada, a modellare gli assist migliori. Attorno al repertorio (impegnato, ma godibile; anzi, godibilissimo) emergono un’esibizione confezionata con accuratezza e non poche virtù. Che sono poi la leva capace di azionare l’intera serata, accompagnandola per mano. E colpisce anche la quantità di combinazione di accordi, che lascia trattenere il fiato e consumare velocemente i due set (complessivamente, un’ora e mezza di musica sempre carica di significati). Comunque, Dave Douglas, consacratosi sulla scena newyorchese, non rinuncia per neppure un minuto a fortificare la propria etichetta di innovatore, guadagnata in trentott’anni (ne ha quarantatre, a cinque comincia a studiare pianoforte, a sette si avvicina al trombone; solo più tardi si dedica alla tromba) vissuti con la musica, per la musica. Un altro buon motivo, questo, che ha evidentemente spinto la Camerata Musicale Barese a sottoporlo ai propri abbonati e a quanti hanno voluto esserci (e chi non c’era, ha perso parecchio). Camerata che, a marzo, nel gran mare degli eventi dedicati alla classica e alla danza, ha previsto un secondo momento jazzistico con il live di John Abercrombie, chitarrista che presenterà il suo ultimo progetto. Con lui, il violino di Mark Feldman, il contrabbasso di Marc Johnson e la batteria di Joey Baron. Niente male, davvero.

Dave Douglas Quartet (Dave Douglas: tromba; Donny Mc Caslin: sassofono; James Genus: contrabbasso; Clarenc Penn: batteria) & Uri Caine (rhodes)

Bari, Cinema Nuovo Palazzo

65ma Stagione Concertistica della Camerata Musicale Barese

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

domenica 29 ottobre 2006

L'opera prima di Tenneriello

ControVerso è un’opera prima. E, come qualsiasi opera prima, deve incoraggiare chi la realizza. Spronandolo a limarne gli angoli più ruvidi e a fortificarne le convinzioni. Ma il primo lavoro discografico di Leo Tenneriello (e del suo gruppo) garantisce la presenza di un’idea e assicura un solco dentro cui perseguire le linee di domani. ControVerso non è un progetto rivoluzionario, né innovativo, ma un’intenzione interessante. Dove il pop d’autore assume frequenti venature rock, rafforzate dalla chitarra elettrica di Egidio Maggio, dalle evoluzioni extracustiche della tastiera di Marcello Ingrosso e dal raddoppiamento della voci (alle parole di Tenneriello si associano e si mescolano quelle di Marco Nuzzo). Venature peraltro puntualmente addolcite dal sassofono di Tonino Semeraro, di visibile scuola jazzistica. Controverso è una raccolta di otto tracce, distribuite dall’etichetta Interbeat e nate – sembra di capire – con una solida porzione di pudore. Non per caso, ci mancherebbe. Ma senza la presunzione di abbagliare, stordire. Per di più, generate in riva ai due Mari, in una terra difficile da vivere. Anche e soprattutto artisticamente parlando. E accolte in Salento dalla rassegna Tele e Ragnatele, marchio di fabbrica della Saletta della Cultura “Gregorio Vetrugno”, da quattro anni palestra abituale della musica di nicchia, di qualità e possibilmente giovane. Dove, generalmente, non transitano nomi e cognomi unanimemente riconosciuti. E dove, purtroppo, occorre lottare troppo spesso con l’indifferenza popolare. Particolare che potrebbe tranquillamente infastidire Mario Ventura, ideatore della kermesse e ancora saldamente motivato. ControVerso, dunque, è il primo passo. Che, da solo, non può permettersi di occupare lo spazio di un concerto. E, allora, per allargarsi, il quintetto tarantino ricorre (con soggezione, dice) alle cover, in attesa di pensare e presentare il secondo album, evidentemente già calendarizzato. Ecco, perciò, “Rimmel” e “Generale” di De Gregori, “Cosa Sarà” di Dalla e De Gregori, “Mangiafuoco” e “L’Isola Che Non C’è” di Edoardo Bennato, “Uh Mammà” di Mimmo Cavallo, “Io So’ Pazzo” di Pino Daniele e un omaggio a Bob Dylan. Logico, però, tributare maggiori attenzioni sulla produzione originale, che si aggrappa pure sul contributo robusto di Enzo Tenneriello: come “Volo Non Volo” (scritta sulla solitudine di chi non conserva più illusioni), “Devi Imparare” (le note sono firmate anche da Mimmo Cavallo, così come quelle de “Il Mio Falconiere”), “Girasoli” (di Tonino Semeraro, «che mi ha spinto a produrre il cd», riferisce Leo Tenneriello), “Amore Tolemaico”, “Isola Possibile” («è la ricerca dell’altrove che ognuno si porta dentro»), “La Cattiveria” e “Il Grillo” (un po’ il manifesto dell’intero disco, brano «che rappresenta chi possiede un punto di vista diverso sulle cose e per questo viene prevaricato»). Non attendetevi, però, testi arrabbiati o troppo complicati. Leo Tenneriello e il suo seguito (a proposito, Maggio e Ingrosso vantano un percorso datato al fianco di Mariella Nava) si prefiggono di non prendersi eccessivamente sul serio. O, più semplicemente, non abbandonano impunemente i binari del pop per addentrarsi in sentieri più accidentati, limitandosi a riflettere sulla quotidianità degli eventi. Badando, tuttavia, più alla sostanza (delle parole, del messaggio) che alla forma (il confezionamento del live, la raffinatezza dei timbri vocali). Anzi, apparendo talvolta un po’ bruschi, spicci. E abusando delle basi musicali, che – è un parere – tolgono qualcosa, invece di arricchire il progetto. Un progetto destinato a smussarsi e modellarsi. Leo Tenneriello e soci sono i primi ad attendere se stessi.

Leo Tenneriello (voce), Marco Nuzzo (voce), Marcello Ingrosso (tastiera), Egidio Maggio (chitarre), Tonino Semeraro (sassofono, fisarmonica e tamburello)
Novoli (LE), Saletta della Cultura “Gregorio Vetrugno”
Tele e Ragnatele 2006

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

sabato 28 ottobre 2006

Tra i Balcani e il jazz

La seconda vita di Antiphonae abita a Locorotondo, nella raccolta – ed evidentemente più accogliente – cornice dell’Auditorium comunale. E sì, perché il punto della questione (o della discordia) era la casa. E i suoi affittuari. Il fatto è più o meno universalmente conosciuto: la rassegna jazzistica più longeva e interessante della provincia di Taranto si trasferisce. Anzi, emigra. Da Martina Franca, per sette edizioni sede tradizionale di un cartellone talvolta persino importante. Emigra: trascinando attriti, disguidi, incomprensioni e qualche spicciolo di polemica. Leggera, ma anche risentita. Consumando, di fatto, quella che era sembrata una minaccia. E che, invece, adesso è diventata realtà. Dunque: c’è un nuovo direttivo, quello dell’Associazione Antiphonae, creatice della kermesse, edificato sulle macerie del precedente, scioltosi polemicamente lo scorso inverno: se Martina non ci segue e l’Amministrazione Comunale non ci ama – dissero i protagonisti - abbassiamo la saracinesca. C’è un nuovo presidente (Caterina Mutinati invece di Pasquale Mega) e c’è una nuova piazza (oltre provincia, appena sei chilometri più in là, dove si sono concentrate più attenzioni e qualche aiuto economico e logistico, particolarmente gradito). E c’è, ovviamente, anche un nuovo programma: più limitato (la recessione, del resto, non si cancella facilmente, neppure cambiando indirizzo), eppure dignitosissimo. E, complessivamente, godibile: malgrado qualche nome - Javier Girotto, ad esempio - già visto e ascoltato la scorsa stagione (cambia, però, il progetto) e nonostante il massiccio impiego (ma chi ha detto che possa rappresentare un problema?) di musicisti pugliesi. Ai quali, peraltro, in passato la rassegna non ha mai fatto mancare il sostegno, cioè la visibilità e il cachet. E, allora, la prima pietra miliare dell’esilio di Antiphonae, ancora saldamente martinese nelle sue radici e nella composizione del direttivo, si chiama Talea. Il gruppo, ultimamente riemerso sui palcoscenici dopo il debutto (positivo) di qualche anno addietro e un periodo contraddistinto da una minore frequenza concertistica, apre un cammino che, di qui a dicembre, sarà percorso anche da Rita Marcotulli, Daniele Di Bonaventura, i Córdoba Reunión, il già citato Javier Girotto, Raffaele Casarano & Locomotive, il Vertere String Quartet e l’Antonio Dambrosio Ensemble. Primo appuntamento dai larghi orizzonti, verrebbe da dire. Perché l’idea che sorregge la formazione (incrociare le sonorità dell’area balcanica alle esperienze jazzistiche di casa nostra) è buona, anche se ormai sfruttatissima, a tutte le latitudini. Un’idea che, però, si appoggia anche sulla consapevolezza di aver intrapreso il sentiero prima di altri, in tempi maturi, ma non eccessivamente sospetti. Riassumendo, le espresssioni vocali dense dell’albanese Meli Hajderaj e l’esperienza consumata dello slavo Hadnan Hozic (compagno di viaggio, per intenderci, di Cesare Dell’Anna in una formazione di culto come Opa Cupa) incrociano i sassofoni di Gaetano Partipilo (la provenienza è Cassano Murge, Puglia, Italia), il contrabbasso di Giorgio Vendola (barese, vicinissimo all’area di influenza di Mirko Signorile), la tromba del cistranese Giorgio Distante, il sax contralto di Alessandro Nocco, la batteria del cilentano Vincenzo Bardaro e le percussioni di Mario Grassi. Tutti, orfani, per l’occasione, del capobanda, Admir Shkurtaj, fisarmonicista albanese perfettamente integrato nel panorama musicale di queste contrade e bloccato da un problema di salute. Assenza, questa, che toglie qualcosa al prodotto finito, ma che tuttavia non lo svilisce: elemento utile, però, a dimostrare la solidità del gruppo, malgrado gli imprevisti. Una solidità che, peraltro, non impedisce a nessuno di crearsi spazi corposi di creatività e di ritagliarsi applausi privati. Assoli (frequenti) a parte, il repertorio e le atmosfere sono profondamente balcaniche. Le incursioni e qualche interpretazione, invece, più specificamente jazzistiche. La commistione, di fatto, riesce a scaldare la gente e a infrangere le incertezze dei mesi passati a cercare soluzioni diverse e a inseguire nuove strategie. Perché, come sottolinea nella brochure di presentazione della manifestazione Caterina Mutinati, presidente dell’Associazione "Antiphonae", «nessuna edizione è stata più sofferta di questa. Solo un paio di mesi fa nessuno avrebbe più scommesso su di noi. Il risultato è qui, in questa rassegna che non doveva più esistere e che invece esiste ancora, ostinatamente e a dispetto delle crescenti difficoltà e del placido disinteresse che la cultura, a volte, incontra presso certe istituzioni». Traducendo, esserci è già una vittoria.

Talea Modern Balcan Project (Meli Hajderaj: voce; Hadnan Hozic: voce e chitarra acustica; Gaetano Partipilo: sax soprano e sax contralto; Alessandro Nocco: sax contralto; Giorgio Distante: tromba; Giorgio Vendola: contrabbasso; Vincenzo Bardaro: batteria; Mario Grassi: percussioni )

Locorotondo (BA), Auditorium Comunale

Antiphonae Jazz 2006

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

domenica 22 ottobre 2006

Alta produttività

La produttività incalzante non è un problema. E le frequentissime visite nelle sale d’incisioni non sono un ostacolo. Anche se il pericolo subdolo dell’impasse è commercialmente implicito. Parole di Guido Di Leone, compositore barese che, a Capurso (Sala Botticelli dell’Hotel ’90), ha presentato ufficialmente la fatica ultima, «Walkin’ Ahead», partorita nel marzo scorso con la complicità del batterista torinese Alessandro Minetto, del caldo sassofonista Barend Middelhoff (olandese di Den Haag, ma bolognese di residenza) e del contrabbassista romano Pietro Ciancaglini. Del resto, Questions & Notes, voluta dall’Associazione "Porta del Lago" e coordinata dal direttore artistico della manifestazione, Michele Laruccia (per intenderci: è l’attore primo del Multicilturita Summer Jazz Festival di Capurso) è una rassegna che si pregia di sottoporre al pubblico lavori originali prodotti in terra di Puglia, da artisti pugliesi. Coinvolti, prima del live, in un sintetico dibattito dove è possibile comprendere il progetto e le intenzioni che lo sorreggono: situazione, per l’occasione, moderata dall’ormai consumata esperienza di Alceste Ayroldi, una delle anime di Jazzitalia, partner principale dell’appuntamento. Walking’ Ahead, distribuito da pochissimi giorni, è il frutto più recente dell’antica collaborazione di Guido Di Leone con la label tedesca Yvp Music, ma è pure l’ennesimo album lanciato sul mercato discografico a proprio nome o a nome di una formazione in cui il chitarrista (e, da un po’, anche il batterista) è punto di riferimento. Pratica, questa, rinvigoritasi in questi ultimi mesi, per la verità: da quando, cioè, Di Leone ha fondato – con altri musicisti – un’etichetta indipendente, la Fo(u)r. Ma questa è un’altra storia. «E’ vero, non lo nascondo. In estate, per esempio, è uscito il primo album del Trio De Janeiro, del quale faccio parte, e prima ancora ho registrato diversi altri progetti. E l’intervallo tra un cd e l’altro ha coperto tempi ridottissimi. Produco tanto, lo ammetto. E, forse, da un certo punto di vista, sarebbe più opportuno calibrare le presenze, sugli scaffali. Però, sono convinto che un disco resti un biglietto da visita, per un artista. Di più, un quadro. E poi non dimenticherò mai quello che accadde anni fa: preparammo, prima della morte di Fellini, un vasto repertorio di musiche tratte dal bagaglio di Nino Rota, un autore che ho particolarmente amato. Avremmo dovuto inciderle, ma rimandammo. Scomparso Fellini, legato indissolubilmente alle opere di Rota, molti altri ci rubarono l’idea e confezionarono diversi prodotti, bruciando il nostro lavoro. Che non fu mai più approntato».Un concerto non è un disco. E un disco non è un concerto. Ma la presentazione di Capurso ha saputo segnalarsi per l’intensità, soprattutto. E per quelle sonorità adesso fresche e frizzanti, ora particolarmente dense, ma anche di immediata assimilazione. O per quelle note sempre rotonde: ravvivate – consentitecelo – da una batteria che, da queste parti, era transitata veloce in qualche avvenimento non eccessivamente reclamizzato: quella di Alessandro Minetto. «Generalmente – prosegue Guido Di Leone – elaboro un progetto musicale e poi scelgo i musicisti che dovranno eseguirlo. In questo caso, invece, è avvenuto il contrario: mi sono trovato casualmente a suonare con i miei futuri compagni di viaggio. In una di quelle situazioni che solo il jazz può offrire: senza provare. Cioè, ci siamo conosciuti e abbiamo cominciato a suonare: e, allora, mi sono invaghito del loro sound. Ho riscontrato affinità e intesa, da sùbito. Adesso, non abbiamo neanche bisogno di comunicare: ci regoliamo con uno sguardo».La musica è come la vita. E’ arte dell’incontro. Vinícius De Moraes non sbagliava. «Due giorni dopo aver conosciuto Barend, Alessandro e Pietro ho cominciato a comporre cinque brani di questo cd («Walkin’ Ahead» è un incrocio di nove tracce, ndr). E, poco più in là, abbiamo inciso». Facendo convergere pezzi originali (“Walkin’ Ahead”, che offre il titolo all’intero disco, “Soft Blow”, “Hypnotic Waltz”, “Spring Board” e “The Dishwater Tune”) e cover riarrangiate (“Westwood Walk” di Mulligan, “III Wind” e “I’ve Got the World on a String” di Arlen-Koehler, “Mia Malinconia”, tema principale dell’«Amarcord» felliniano, di Nino Rota). E senza dimenticare di aggiungere un’abbondante fragranza di west coast. «Che gradisco infinitamente, contrariamente a molti jazzisti». Guido Di Leone ci riprova. In attesa della prossima intuizione. Imminente, immaginiamo.

Guido Di Leone Quartet (Guido Di Leone: chitarra; Barend Middelhoff: sassofono; Pietro Ciancaglini: contrabbasso; Alessandro Minetto: batteria)
Capurso (BA), Sala Botticelli dell’Hotel ‘90
Questions & Notes

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lunedì 9 ottobre 2006

Anima popolare

La musica popolare non si crea e non si inventa, né si reinventa. Piuttosto, si interpreta. O, di questi tempi, si contamina. E si evolve (o si involve: fate voi). Semmai, si può inventare una nuova formazione: non per stupire, ma per divertirsi. E, magari, per divertire. O, più semplicemente, per intrattenere, con un po’ di gusto. Senza effetti speciali. Senza artifici. E senza stravolgimenti musicali. Mimmo Gori, tarantino con la passione del tamburello e dell’organetto, accarezzava da tempo un’idea. Da quando, probabilmente, aveva abbandonato il “progetto Demotika Orchestar”, una band niente male nata sull’asse jonico-salentino sulla scia della tradizione. Un progetto disgregatosi, però, nel tempo: diciamo pure der diversità di vedute affiorate all’interno del gruppo. Dove diversità di vedute significa dover rispondere ad uno specifico quesito: perseguire la via maestra oppure concedersi all’innovazione? L’idea di Mimmo Gori, alla fine, si è materializzata e solidificata. Per chiamarsi Terminal Jonio, ensemble che ha cominciato a bussare sulle piazze e nei locali della provincia di Taranto, porzione di Puglia che sta lentamente (o, rispetto al profondo Salento, molto meno velocemente) cercando di riappropriarsi di una parte delle proprie peculiarità culturali. E che, a Mottola, all’interno del Dreams Bar (sede non ufficiale in cui il concerto, organizzato per omaggiare il Parco delle Gravine e inizialmente previsto in piazzetta La Rotonda, è stato spostato a causa delle cattive condizioni atmosferiche), ha riproposto brani conosciuti e anche (generalmente) meno ascoltati, tutti ben rifiniti e ovviamente attinti dall’immenso bagaglio della tradizione meridionale. Passando dalla pizzica alla tammurriata, dalla tarantella alle note importate dal Gargano o dalle Murge, puntando alla conservazione di certe atmosfere, di certe sonorità. Affidate, peraltro, anche alle doti del polistrumentista barese Gianni Gelao, alla voce profonda e popolare e alla chitarra di Peppe Zerruso, alla voce e al tamburello di Pietro Balsamo e al violino di Claudio Merico, affianco ai quali si agita la danza di Simona Tempesta. «Vogliamo solo contribuire a tutelare questo patrimonio musicale, nient’altro. Rifuggendo dalle tentazioni del nuovo che avanza. Non aspettatevi niente di più: il Terminal Jonio Ensemble è un’occasione per stare assieme, per suonare assieme. E per riscoprire qualche strumento ormai dimenticato, perché no. Come la cornamusa o la zampogna. E ci stiamo adoperando per acquisire qualche canto ormai disperso, direttamente dalla voce degli anziani delle Murge. Come vedete, niente di nuovo. Ma è questo che ci piace. E non è detto che rinunceremo a qualche brano originale, anzi» Se è per questo, il progetto del gruppo è più ampio: e prevede, tra l’altro, una collaborazione stretta e imminente con gruppi di ottimo spessore quali quello di Nando Citarella & i Tamburi del Vesuvio, Canto Discanto e Spakka-Neapolis 55, oltre alla Banda di Montemesola. Che, assicura Mimmo Gori , «dispone di musicisti interessanti e, soprattutto, versatili, con i quali sarà possibile impostare un discorso artisticamente intrigante». E, chissà, assicurarsi anche un respiro musicale più vasto e nutrito. Senza doversi necessariamente avventurare per sentieri più o meno oscuri.

Terminal Jonio Ensemble (Peppe Zerruso: voce e chitarra; Pietro Balsamo: voce e tamburello); Mimmo Gori: organetto e tamburello; Claudio Merico: violino; Simona Tempesta: danza)

Mottola (TA), Dreams Bar

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venerdì 29 settembre 2006

Ritmi senza confini

Dall’Esquilino, con ritmo. Mescolando note, stili, culture e linguaggi. Ma proponendosi con una musica comune, priva di schemi. E di confini. L’Orchestra di Piazza Vittorio è un laboratorio perenne, in formazione ed evoluzione costanti. Sedici musicisti (variabili, come il numero), prodotto di undici paesi diversi (dall’Italia all’Ungheria, da Cuba all’Ecuador, dagli Stati Uniti al Senegal, dal Brasile e dall’Argentina alla Tunisia): pronti ad autofinanziarsi per ritrovarsi, esibirsi e, magari, garantirsi il permesso di soggiorno. Roma (anzi, piazza Vittorio, incrocio autentico di uomini e razze: all’Esquilino, appunto) li accoglie. Mario Tronco, pianista degli Avion Travel, li raccoglie e li coordina. E, sul palco, li dirige. «Facciamo del meticciato la nostra poetica», dice. Ironia, ma anche progetti di integrazione, non solo musicale. Puntualmente esportati sulle altre piazze d’Italia. O, come accaduto a Bari, all’interno della Fiera del Levante e, più precisamente, di «Mediterre 2006», fiera dei parchi del Mediterraneo e contenitore attento al concetto di avvicinamento di popoli e identità diverse. Il sound è composito, anarchico. Sonorità molteplici si fondono e confondono: il pop abbraccia le tonalità arabeggianti, il rock si unisce alle atmosfere sudamericane, il mambo è sparato immediatamente prima di quelle indiane. Sì, sparato: perché il ritmo è sempre ben sostenuto, corposo, presente. Trascinante. E impastato di improvvisazione, puntuale e abbondante. Eppure, il repertorio cambia spesso. «Perché qualcuno, prima o poi, ci lascia. Anzi, deve lasciarci. I permessi di soggiorno sono veramente un problema e c’è chi deve necesseriamente rientrare in patria. E, con lui, si disperde anche una parte del patrimonio che ci ha portato in dote». Mario Tronco deve navigare anche nel mezzo dell’incertezza. Pur sapendo che la precarietà è uno dei motori dell’ensemble. Che, intanto, ha ispirato una pellicola («L’Orchestra di Piazza Vittorio», regia di Agostino Ferrante), documentario presentato all’ultimo Festival Internazionale di Locarno già in distribuzione in alcune sale cinematografiche italiane (a Bari, ad esempio, è già passato). Ovviamente, si parla di immigrazioni ed emigrazioni, ma anche e soprattutto di musica. La musica partorita in Piazza Vittorio e perfettamente inseritasi nel programma di «Mediterre», che per la quarta edizione ha saputo riunire anche l’algerino Khaled, i Radiodervish, Les Tambours du Bronx, Nando Citarella & i Tamburi del Vesuvio e l’Orchestra di Nazareth, formazione composta da israeliani, arabi musulmani e cattolici. Nonostante i venti di guerra, frequenti e impetuosi.

L’Orchestra di Piazza Vittorio diretta da Mario Tronco
Bari, Fiera del Levante
Mediterre 2006

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venerdì 22 settembre 2006

Il nastro è riavvolto

Recuperare la strada interrotta, questo è il problema. Anzi, questo è il punto. Perché, probabilmente, un problema non è. Perché, magari, si tratta semplicemente di un’esigenza interiore, squisitamente artistica. Oppure di un piacere assolutamente personale. E poi i tempi cambiano. E, dal momento che nulla si inventa, ripercorrere le curve della memoria si può. Diciamo anche che, talvolta, la nostalgia corrode. E che Ivano Fossati, alle tematiche legate alla nostalgia, non ha mai rinunciato, vantandosene. Il dato, intanto, è di lettura agevole: il nuovo ciclo di live del cantautore genovese è di impatto generosamente rockettaro, come già ampiamente certificato dall’ultimo lavoro pubblicato (L’Arcangelo) e dalla progressiva inversione di tendenza del suo percorso musicale negli ultimissimi tempi. Nessuna sorpresa, dunque, a Lecce (Chiostro del Palazzo dei Celestini, cioè l’attuale Palazzo dell’Amministrazione Provinciale, sotto la regia di Deltaconcerti). Anche perché, in fondo, Fossati si riaccosta alle origini. E non solo con le note. Ma, anche e soprattutto, con i testi: adesso decisamente più espliciti e meno raffinati, più immediati e meglio decodificabili. Pensandoci bene, oltre tutto, l’utilizzazione massiccia della chitarra (il pianoforte c’è, ma compare e scompare) significa più di qualcosa. Finendo con l’indirizzare, l’influenzare. E modificando l’atmosfera. La terza vita di Fossati, cioè, sembra parente più stretta della prima, piuttosto che della seconda, peraltro mai abiurata. Tanto, comunque, da sussultare all’improvviso. E graffiare, quando serve. Intendiamoci: nel mare delle proposte che sgorgano dagli ultimi due album confezionati continuano a spuntare i marchi indelebili di “La Madonna Nera”, “La Pianta del Te’” e “Mio Fratello Che Guardi il Mondo”, oppure le note de “La Canzone Popolare” o de “I Treni a Vapore”. Però, ad esempio, la rinuncia all’interpretazione di almeno un brano di «Discanto», un disco ormai datato – ma assolutamente fondamentale, nel tragitto storico dell’artista ligure – non passa inosservata. Proprio no. Ancora: anche l’approccio (musicalmente robusto) del concerto è indicativo: “Ventilazione” è un brano stagionato, eppure mai troppo proposto dal vivo, negli anni precedenti. “La Crisi”, sùbito dopo, trascina problematiche dei nostri giorni con un linguaggio trasparente, semplice, cioè privo di mediazioni verbali di fossatiana memoria. “Ho Sognato Una Strada” – che, per la cronaca, apre L’Arcangelo – è invece una finestra sulle guerre (preventive oppure no) sacrificate per il controllo delle strategie petrolifere. Ed è lo spunto ideale per soffermarsi sull’attività di Amnesty International e per introdurre “Pane e Coraggio” e “L’Arcangelo”, storie di marginali ed emarginati assorbiti da mondi diversi («La speranza si compra/ Ma tutto il resto si vende»). Di sèguito arriva la delicata “L’Amore Fa” («L’amore fa la guerra agli idioti, agli arroganti pericolosi…/ L’amore è una puttana/ Che onora la bellezza»), che introduce i pezzi di maggiore impegno, come la recentissima “Cara Democrazia” (Cara democrazia/ Sono stato al tuo gioco/ Anche quando il gioco si era fatto pesante…/Sono stato tradito/ O sono stato ingannato/ Con quanta leggerezza/ Sono stato alleggerito). I balconi del ricordo, intanto, si affacciano sulla sintesi del tributo: “Ragazzo Mio”, di Luigi Tenco, si porta dietro – come garantisce lo stesso Fossati - «un genere di scrittura difficile» («Non credere che gli uomini senza idee per primi vanno a fondo»). Appena più tardi, invece, l’immancabile “Panama” si veste di tonalità decisamente elettroniche, mentre “La Musica Che Gira Intorno”, un classico amatissimo, chiude il repertorio, anticipando i bis (cinque: “Il Bacio Sulla Bocca”, “Questi Posti Davanti al Mare”, “La Canzone Popolare”, la toccante “C’è Tempo” e “Il Disertore”, del francese Vian). Ma, ad applausi esauriti, resta una certezza: qualcosa è cambiato. Oppure, niente sembra essere davvero cambiato. Il nastro si riavvolge. E tutto ritorna al proprio posto.

Ivano Fossati (voce, chitarra e pianoforte), Mirko Guerrini (sassofono, fisarmonica, pianoforte e tastiera), Pietro Cantarelli (pianoforte e tastiera), Fabrizio Barale (chitarre), Riccardo Galardini (chitarre), Daniele Mencarelli (basso e basso elettrico), Claudio Fossati (batteria), Marco Fadda (percussioni)
Lecce, Chiostro del Palazzo dei Celestini

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sabato 12 agosto 2006

La parola prima della musica

«Nessun uomo è un uomo qualunque/La sua vita può essere piena/Di un dolore che gli brucia il petto/E che gli fa piegare la schiena/Di un dolore che noi gli dobbiamo pagare in rispetto/Nessun uomo è un uomo qualunque/La sua vita può essere piena/Di un respiro che gli fotte il petto/E gli fa indolenzire la schiena/Del silenzio del mondo che compie un delitto perfetto». Claudio Lolli non è un personaggio qualunque. E non è un cantautore qualunque. E’ personaggio sino in fondo. E cantautore drasticamente lontano da ogni schema. O convenzione. Claudio Lolli è la parola, prima della musica. E’ la parola dura, tagliente, irriverente, drammatica, pessimista, brutale. Non teatrale: piuttosto, angosciata. E’ la parola dell’opposizione: politica, sociale, intellettuale. Sovversiva, dicevano una volta. Sgorgata dalla quotidianità degli eventi: soprattutto quelli più bui del dopoguerra italiano. Infarciti, troppo spesso, di lutti, di stragi. E di lotte clandestine, al limite del pubblico pensiero. Claudio Lolli è anche un poeta. Un poeta a suo modo: perché piace, oppure spaventa. Raccontando quello che altri non scriverebbero mai («Io ti racconto lo squallore di una vita vissuta a ore/Di gente che sa non sa più far l’amore/Ti dico la malinconia/Di vivere in periferia/Del tempo che ci porta via/…Io ti racconto settimane fatte di angosce sovraumane/Vite e tormenti di persone strane/E di domeniche feroci passate ad ascoltar le voci/Di amici reclutati in pizzeria/…Io ti racconto tanta gente che vive e non capisce niente alla ricerca di un po’ d’allegria/… Io ti racconto il carnevale/La festa che finisce male/Le falsità di una città industriale). Un poeta che continua a preferire le parole, minimizzando le sonorità. Da un po’ di tempo, peraltro, delegate alla sola chitarra di Paolo Capodacqua, che lo accompagna nei live, come quello consumatosi nel cortile del Castello di Carovigno (rassegna Interferenze Sonore, a cura di Pino Marella). Lolli, ormai, canta pochissimo. Anzi, difficilmente. Legge i suoi testi sulle note macinate da Capodacqua. Talvolta, le accompagna: ma l’effetto è sapido, forte. Anzi, le parole pesano e feriscono di più. E lo scenario si confonde tra sarcasmo e triste ironia, tra versi e confidenze, fotogrammi che si rincorrono e disincanto. La scaletta tocca i brani tradizionalmente più pubblicizzati, ma il verbo è improprio. Lolli, bolognese, cinquantasei anni, possiede una cerchia di estimatori ristretta e non se ne duole troppo. Non è uomo da palcoscenico ampio, non è artista da plebiscito. Difende la sua musica di nicchia, con il timbro di intellettuale un po’ snob che rifiuta orgogliosamente. Lolli, diciamolo pure, non è per tutti. E per pochi sono anche le sue canzoni di rabbia, la sua avversione per il potere. Di qualunque provenienza. Il percorso del concerto si presenta come un viaggio nel passato, tra le maglie delle sue composizioni più significative. Attacca con “La Fine del Cinema Muto”, del millenovecentottantotto («Anche noi abitiamo in un cinema/E siamo in bilico ad ogni minuto»), proiettandosi poi nei farraginosi anni settanta, con una ballata anarchica di fine ottocento arricchita da un testo che rievoca il caso Calabresi-Pinelli, maturato in uno dei momenti più difficili dell’Italia repubblicana: senza nascondere un paio di verità («Non ho più la percezione degli anni che passano», fa sapere al pubblico, ma «tutti abbiamo la percezione di vivere nel migliore dei mondi possibile». Sbagliando, probabilmente). E allora, sùbito dopo, diventa inevitabile soffermarsi sulla forza e l’arroganza del potere: “Analfabetizzazione” (1977) è un classico che ne accetta il linguaggio, sfidandolo. E preferendo osservare la storia dalla parte dei vinti, invece che dei vincitori («Non ho mai avuto un alfabeto tranquillo, servile/Le pagine le giravo sempre con il fuoco/Nessun maestro è stato mai talmente bravo/A respirare il mio ossigeno/E il mio gioco/E il lavoro l’ho chiamato piacere/Perché la semantica è violenza, oppure è un opinione/… E il potere, da quel giorno, m’insegue/Con le sue scarpe chiodate di paura/M’insegue sulle sue montagne/Che io chiamo pianura». Anche “Adriatico” è un’immagine del potere, ma «quello più subdolo e quotidiano», ancorato ai ricordi di una gioventù introversa («Ecco il bicchiere dentro cui anneghiamo»). Le note continuano ad alternarsi alle parole (tante): si passa da "Dita", composta con Paolo Capodacqua (che, nel corso del live, ottiene due spazi propri, trasportando in italiano anche una celebre composizione di Georges Brassens), a “Da Zero e Dintorni”, da “Folkstudio” (scritta per ricordare la figura di Giancarlo Cesaroni, creatore dell’omonimo scantinato romano dal quale sono passati gli autori più ispirati di una generazione) a “Quando la Morte Avrà” e ad “Anna di Francia” («Non sarò quel cielo grigio, quel mattino/Il dentifricio che fa a pugni con il vino/Non sarò la tua consolazione/E neanche il padre del tuo prossimo bambino/Ma per questa volta almeno sarò la tua libertà). I “Musicisti di Ciampi” è, invece, un tributo a Piero Ciampi – autore profondo e mai accarezzato dal successo, né dal semplice consenso popolare - : tributo sentito, perché «una persona che soffre merita sempre qualche verso o, come in questo caso, quattro quartine» («E lui sa/Che avrà da fare ancora/Con il vento»). “Ho Visto Anche degli Zingari Felici”, infine, suggella il cammino alla ricerca della malinconia e di quel tempo perduto che, intanto, non sembra essere neppure trascorso o che sembra essere passato invano. Soprattutto perché le tematiche già conosciute e discusse ieri sono anche quelle di oggi: «E’vero che non ci capiamo/Che non parliamo mai in due la stessa lingua/E abbiamo paura del buio e anche della luce, è vero/Abbiamo tanto da fare/Che non facciamo mai niente/E’ vero che spesso la strada sembra un inferno, una voce/In cui non riusciamo a stare insieme e dove non riconosciamo mai i nostri fratelli». Due ore di frasi e accordi, di risvolti amari e ricordi: ma la voglia di raccontarsi c’è ancora. Sfilano, in sequenza, “Curva Sud” («L’Italia bagnata e sospesa nel troppo silenzio/Di un cielo confuso e una scritta-reclame/Che ci osserva dal buco ed è dipinta di blu/Si apre uno stadio fantasma/Una luce accecante/Ma senza notturne/Si sentono cori, bestemmie infelici/Della curva sud») e “Vecchia Piccola Borghesia”, che chiude anche la sezione dedicata ai bis. Gli accadimenti più o meno recenti, però, obbligano a integrare il testo («Vecchia piccola borghesia/Vecchia gente di casa mia/Per piccina che tu sia/Il vento, un giorno, ti spazzerà via»), pensato con l’energia e l’ingenuità dei diciott’anni, con due avverbi di realismo che appassiscono le certezze sessantottine: «forse, eventualmente». Senza, per questo, svuotarle: la lotta pura di Claudio Lolli prosegue. Temeraria.

Claudio Lolli (voce e chitarra) & Paolo Capodacqua (chitarra)
Carovigno (BR), Castello Dentice di Frasso
Interferenze Sonore 2006

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

domenica 16 luglio 2006

Dulce, ritardo perdonato

Per la prima volta in Puglia. E con tre mesi di ritardo: ampiamente perdonati. Dulce Pontes è il fado di oggi. Che è, poi, il fado di sempre. Poco riveduto e poco corretto: per fortuna, aggiungiamo. Perché il sentimento portoghese rispetta e risparmia ancora la tradizione. Alla quale il lusitano concetto di saudade è saldamente e indissolubilmente legato. Dulce Pontes ha chiuso la sessantaquattresima stagione concertistica dell’Associazione Amici della Musica “Arcangelo Speranza”, protrattasi in estate proprio per garantire il live di maggior richiamo, inizialmente previsto per aprile e successivamente posticipato tra i pini del teatro all’aperto allestito all’interno di Villa Peripato. Dulce Pontes, però, è soprattutto la voce ufficiale del Portogallo più vero, erede diretta di Amália Rodrigues. Ed è una voce piena, pregnante, drammatica. Con la quale, probabilmente, da Trás-os-Montes all’Algarve, di questi tempi può competere solo quella di teresa Salgado, leader consacrata dei Madredeus, formazione che si è ormai abituata a guardare al futuro. Dulce Pontes, invece, no. Perché racconta un Portogallo antico, forse ancestrale. Con sentimento ed emozioni violente. Il suo è ancora il fado del cavaquinho e della chitarra portoghese: attraverso il quale sfilano immaginariamente i miradouros di Lisbona, l’anima di Alfama e di Socorro, il Tago onnipresente, l’idendità di un Paese che si sta freneticamente allineando su ritmi sconosciuti, appena quindici anni addietro. Senza concedere tributi alle contaminazioni, alla modernità galoppante. E senza dimenticare di bagnarsi nelle note di uno dei canti tradizionali più famosi, “Andorinha”, che chiude il concerto al secondo bis. Ecco, il concerto: sobrio, elegante. Intenso. Che il pubblico (strano, ma vero, a queste latitudini) insegue con attenzione, in silenzio quasi devoto. Dettagli di non trascurabile spessore, dei quali si cominciava ad avvertire l’esigenza. Dulce modula la voce e si presenta al pianoforte. Più tardi, si alza e lascia la totale responsabilità musicale ad Amadeu Magalhães (cavaquinho, chitarra acustica, braguesa, flauti e corno), Felipe Lucas (chitarra portoghese); José Soares (chitarra acustica), Paulo Feitera (chitarra acustica), Lopes Da Graça (oboe), Daniele Zaccaria (violoncello) e Beto Betuk (percussioni). Regalando, soprattutto, la fragranza del suo Portogallo.

Dulce Pontes (voce e pianoforte), Amadeu Magalhães (cavaquinho, chitarra acustica, braguesa, flauti e corno), Felipe Lucas (chitarra portoghese); José Soares (chitarra acustica), Paulo Feitera (chitarra acustica), Lopes Da Graça (oboe), Daniele Zaccaria (violoncello) e Beto Betuk (percussioni)

Taranto, Teatro all’aperto di Villa Peripato

64ma Stagione Concertistica dell'Associazione Amici della Musica "Arcangelo Speranza”

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

sabato 15 luglio 2006

Emozioni da palcoscenico

Non è sempre agevole assistere a concerti in equilibrio puntuale tra note ed emozioni, tra musica e parole. E non è sempre facile imbattersi in live ben confezionati, che sanno costruire l’atmosfera, alimentando lo spessore del prodotto. Anzi, non è neppure semplice ritrovarsi di fronte a concerti dosati nei particolari, curati nei dettagli. Dove non basta esibirsi. Dove, invece, vince l’esigenza di confrontarsi con se stessi: e, quindi, di migliorarsi. Eppure, a volte succede. Ed è successo: ultimamente, a metà luglio, a Torre Egnazia di Fasano, nell’area degli scavi archeologici, in occasione di Egnazia Estate ’06, dove i Radiodervish (Nabil Salameh: voce; Michele Lobaccaro: basso e chitarre; Alessandro Pipino: tastiere; Anila Bodini: violino) hanno replicato le tappe più significative del loro percorso artistico. In attesa di presentare – più avanti, quando i tempi saranno maturi – il prossimo lavoro discografico, in via di ottimizzazione.Nel frattempo, l’esibizione dei Radiodervish, mai incensati per quello che, in realtà, meriterebbero, ci ha convinti. Nuovamente, fortemente. Così come, già nello scorso mese di aprile, a Brindisi, quando l’incontro con l’attore (e la voce recitante) di Giuseppe Battiston generò il riuscitissimo spettacolo (griffato Teatro Pubblico Pugliese) Amara Terra Mia - Tra Parole e Musica, contenitore di sonorità (quelle consuete del gruppo appulo-palestinese) e riflessioni, di versi disperati e sensazioni crude, di umori e poesia profonda. Sì, ci ha convinti. Definitivamente. Tanto da poter urlare la certezza di considerare la formazione assolutamente in grado di poter reggere il confronto (ogni confronto) in ambito nazionale. Cioè molto al di là degli strettissimi confini regionali, dentro i quali sembrano ancora relegati dall’immaginario collettivo. Senza dubbio alcuno. Per la qualità delle sonorità prodotte, per la capacità di prendere per mano il concerto e, dunque, il pubblico, per l’eleganza nell’inseguire il particolare, per la bontà dei testi, per la precisa alchimia con cui vengono misturati impegno sociale e concetto di solidarietà, fragranze mediterranee ed orientali, parole di speranza e rispetto delle tradizioni. Tradizioni musicali e non: del resto, «Amara Terra Mia» è stato anche (o soprattutto) un omaggio a Modugno, oltre che un diario sviluppatosi nella quotidianità degli ultimi quindici anni italiani, segnati da quegli avvenimenti tragici che hanno aperto una discussione ancora irrisolta, legata indissolubilmente all’irraggiungibile piattaforma della tolleranza razziale e religiosa. Un diario in cui, al centro di ogni storia, ci sono l’uomo, i suoi ideali, il suo futuro, la fuga e l’approdo. E la convivenza. Motivi, questi, che rendono la musica dei Radiodervish vitale, istruttiva, irriverente, obbligatoria. E, probabilmente, anche scomoda. Particolare utile per continuare ad inseguirla. E incoraggiarla.

Radiodervish (Nabil Ben Salameh: voce e chitarre; Michele Lobaccaro: basso e chitarre; Alessandro Pipino: piano e tastiere; Giovanna Buccarella: violoncello)
Torre Egnazia di Fasano (BR), Area degli Scavi Archeologici
Egnazia Estate 06

(pubblicato sul sito www.levignepiene.com)

venerdì 14 luglio 2006

La signora scalza

Era attesa l’anno passato, Cesária Evora. A Lecce, all’interno del cartellone ricco e suggestivo del Negramaro Festival, dedicato alle arti e alla cultura di Capo Verde. La signora scalza, però, non arrivò: problemi personali. L’appuntamento, comunque, si è solo aggiornato di un anno: e la kermesse salentina ha inserito il live dentro la programmazione che circumnaviga la musica e le problematiche provenienti dall’Africa, continente sul quale sono riposte le attenzioni dell’edizione 2006, tuttora in corso di svolgimento. Nessun problema: del resto, Capo Verde – amministrativamente Portogallo, cioè Europa – è geograficamente parte integrante dell’Africa. E l’accostamento non sfigura. Anzi. Il concerto di Cesária Evora, peraltro, ha saputo attirare più gente del preventivato: non a caso, il palco (approntato, di concerto, dall’Amministrazione Provinciale di Lecce, dalla locale sede della CGIL e dal Centro Abusuan di Bari) ha traslocato nelle ultime ore, ritrovandosi davanti alla Curia Vescovile, nella calda e aristocratica cornice di Piazza Duomo, preferita al più raccolto chiostro del Palazzo dei Celestini. Segno evidente che, al di là dello spessore ormai riconosciuto dell’artista, la rassegna leccese è ormai entrata di diritto nell’ideale tracciato estivo dei pugliesi che amano gli spettacoli dal vivo. Come dimostrano le presenze fitte di appassionati arrivati anche da oltre il confine salentino. Tanta gente, allora. Fattore che, paradossalmente, ha sottratto qualcosa all’evento. In termini di atmosfera, soprattutto. Evento che – è un’opinione, ovviamente – ha guadagnato maggiore visibilità, ma non migliore ascoltabilità. E che, probabilmente, si sarebbe nutrito meglio con più intimità. Avremmo preferito, cioè, un contenitore meno dispersivo. Sgravato, magari, dal moto perpetuo di quanti hanno troppo spesso preferito dedicarsi alla birra più venduta o agli squilli dei propri cellulari, rigorosamente accesi. Ma questo è: e, di questi tempi, occorre accontentarsi della quantità numerica di pubblico, piuttosto che della qualità (e dell’attenzione) degli spettatori. In Puglia come altrove, sia chiaro. E diciamo pure che Cesária Evora (lo ammettiamo: meno carismatica e più fredda di quanto immaginassimo) ha rinunciato ad impalcare un feeling poderoso con la platea, limitandosi a cantare (bene) e mantenendo una certa distanza con il resto della piazza. Senza preoccuparsi, cioè, di condividere qualche concetto o – più semplicemente – qualche complicità. Per le quali non occorre dialogare nella stessa lingua, portoghese o italiano che sia. Anche se – va detto, è cronaca – la sua morna è riuscita a sradicare dalle sedie più di qualcuno, che ha rischiato il ballo, nonostante i ritmi niente affatto serrati. E nonostante qualche dettaglio (uno su tutti: l’utilizzazione incessante del sassofono) che sembra stridere con i concetti più tradizionali della musica popolare capoverdiana. Ma, evidentemente, la contaminazione è un’esigenza che ha varcato con sicurezza anche il Mediterraneo, spingendosi a sud.

Cesária Evora
Lecce, Piazza Duomo
Salento Negroamaro Festival

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

mercoledì 12 luglio 2006

La prima volta del Trio de Janeiro

Lui, chitarrista di talento ormai riconosciuto, anche oltre regione. E jazzista con la passione delle atmosfere mediterranee. Lei, vocalist salentina d’estrazione e barese d’adozione. E due preferenze: gli standard eleganti e gli autori brasiliani. Di bossa, ma non solo. L’altro, percussionista tranese, personaggio amabilissimo e musicista per purissimo diletto. Cioè, Guido Di Leone, Paola Arnesano ed Enzo Falco. Ovvero, il Trio de Janeiro, formazione che presta il titolo al cd appena approntato, da pochissimi giorni sul mercato discografico e firmato dall’etichetta indipendente Fo(u)r. Etichetta, peraltro, giovanissima, ideata proprio da Guido Di Leone lo scorso inverno. Il lavoro è ovviamente destinato ad un pubblico che apprezza la musica d’autore brasiliana che va dagli anni quaranta agli anni novanta e, anche e sopratttto, la bossa nova, non eccessivamente inquadrata dalle coordinate del jazz, storicamente parente stretto di molte tonalità che arrivano da quella fetta di Sud America. L’album è una raccolta di ventitre brani che attingono dal repertorio di Chico Buarque de Hollanda (“Atrás da Porta”), Ary Barroso (“Na Baixada do Sapateiro” e “Na Batucada da Vida”), Caetano Veloso (“Desde Que o Samba E’ Samba”), Tom Jobim (le immancabili “Desafinado”, “Insensantez”, “Aguas de Março” e “Garota de Ipanema”), Baden Powell (“Vou Deitar e Rolar”, “Lapinha”, “Cai Dentro” e “Samba Triste”), João Bosco (“Cobra Criada”, “Bala Com Bala”), Edu Lobo (“Corrida de Jangada”), Nelson Cavaquinho (“Folhas Secas”), Djavan (“Fato Consumado”), Gilberto Gil (“Meio de Campo” e “Amor Até o Fim”) e di altri autori ancora. Ventitre brani peraltro rivisitati in un live che ha voluto espressamente (e ufficialmente) presentare il prodotto finito, ma appaltato nel tempo: perché il Trio de Janeiro, di fatto, si muove sui palcoscenici di Puglia - e anche di fuori regione - da anni. Senza aver, però, mai generato un disco capace di sintetizzarne il percorso. Almeno sino ad oggi. Un live, oltre tutto, inconsueto: perché confezionato sul mare (anzi, sui due Mari), all’interno di un battello (Cala Junco, solitamente adibito al trasporto turistico). Musica in movimento, cioè: l’ultima frontiera abbattuta sulla strada degli spettacoli dal vivo. In una terra che, evidentemente, comincia ad avvertire il bisogno di industriarsi, di valutare nuove idee e di credere nel turismo, fonte mai troppo amata. Musica in movimento, frutto di un’invenzione di Larry Franco, pianista tarantino e, ovviamente, direttore artistico di una rassegna, «Jazz nei 2 Mari», che guarda al dixieland e anche oltre. E che ha offerto (e continuerà a farlo) altri appuntamenti, rigorosamente estivi. Tra le onde, intanto, il Trio de Janeiro ha saputo garantire spartiti lievi, ma intrisi di significato, non solo musicale (il repertorio brasiliano d’autore affonda le proprie radici anche nella ricercatezza dei testi: ma chi non conosce il portoghese avrà difficolta a percepirlo). Divertendosi, senza prendersi troppo sul serio. Puntando, nel contempo, sulla qualità. Ma, innanzi tutto, per Guido Di Leone e Paola Arnesano si è trattato di un ritorno (gradito) alle sonorità oroverdi: basti pensare alla precedente esperienza di «Abrasileirado», inciso con l’apporto di diversi musicisti di casa nostra, tra i quali Mario Rosini. Non troppi anni addietro.

Trio de Janeiro (Paola Arnesano: voce, surdo e congas; Guido Di Leone: chitarra; Enzo Falco: percussioni)
Taranto, Motonave Cala Junco
Jazz nei 2 Mari

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

venerdì 19 maggio 2006

Dischi - L'Ultimo Bivio (Martino De Cesare)

L’idea è raffinata, farcita di atmosfere, ben curata. E il suo ideatore è ormai pienamente inserito nel panorama musicale di qualità. Martino De Cesare da Crispiano, già da un po’ strettissimo collaboratore di Eugenio Bennato, ha presentato anche in Puglia (più precisamente, al Teatro Verdi di Martina) il suo ultimo lavoro, L’Ultimo Bivio… Tra Sogno e Realtà, un disco edito da Rai Trade e Mad Management che segue il percorso dell'omonimo libro (di Rosaura Di Giuseppe) che lo accompagna.
Il cd e il libro nascono da una visione onirica dello stesso Martino De Cesare: un sogno viene trascritto di botto su un foglio il mattino dopo e riposto poi in un cassetto per quasi vent’anni. Più tardi, quel sogno diviene soggetto per il libro e anche sceneggiatura per la realizzazione di un film. Il protagonista del romanzo è Dave, musicista per passione, accattone per mestiere, un ragazzo che inizia la sua carriera nella Taverna di Elektra, ma che si vede costretto a mendicare ancora per poter sopravvivere. La storia, pubblicata da Lupo Editore, parla di un uomo riservato, schietto e sincero, un personaggio misterioso che vive l’avventura della sua vita tra avversità, sventure, dolori, fughe, bisogno d’amore e grandi e piccole fortune. Il racconto scorre leggero e veloce, come una pellicola, in cui le verità di un sogno possono essere delle comode maschere che proteggono dall’assenza e dal bisogno d’amore. Il disco, invece, è composto da dieci tracce in cui canzoni, suoni e melodie, spesso registrate in acustico, fondono le sonorità della chitarra tradizionale con il riff folk e il nu-jazz.. Un lavoro per il quale, racconta Martino De Cesare, «è indispensabile lasciarsi cullare dalle immagini, dalle atmosfere e abbandonarsi al tempo di una melodia», consapevoli del fatto che «la vita diventa più leggera con un po’ di fantasia». Al fianco di Martino De Cesare si sviluppa l’apporto del già citato Eugenio Bennato (è la voce de "La Canzone di Iuzzella", scritta dallo stesso autore partenopeo), di Pietra Montecorvino (voce nella traccia "Jac") e di Edoardo Bennato (autore di "Se Non Ci Fosse Lei"), ma anche quello di Tonio Rugolo (chitarrista di estrazione classica) e Daniele Brenca (al basso). Senza dimenticare la funzione armonica sviscerata durante il live di maggio dal Quartetto d’Archi Flegreo (tre violini e un violoncello). Concerto nel quale, inoltre, si sono alternati diversi interventi di Ivan Raganato, dove l’attore ha proposto alcuni adattamenti teatrali tratti dal romanzo.

L'Ultimo Bivio - Tra Sogno e Realtà (Rai Trade, 2006)

Martino De Cesare

(pubblicato dal mensile "Pigreco")

domenica 14 maggio 2006

Dischi - Le quattro linee di Fo(u)r

Musicisti per passione. E per professione. Dotati di idee imprenditoriali: segni particolari che non fanno male. E, quindi, all’occorrenza, produttori. Di se stessi, ma non solo. Dopo averci pensato per mesi interi. Guido Di Leone, chitarrista barese, il trombettista fasanese Mino Lacirignola e Larry Franco, vocalist e pianista tarantino, suonano ovunque e hanno inciso tanto. Passando spesso attraverso le maglie strette delle case discografiche e della distribuzione: ritrovandosi a spendere cifre che possono diventare ragguardevoli, senza ottenere il riscontro atteso. «E allora – dice Guido Di Leone – abbiamo deciso di unire le forze e di fondare un’etichetta, la Fo(u)r. Cioè, i dischi li registriamo, li produciamo e li distribuiamo noi, scavalcando le case discografiche che così poco hanno dato al jazz e, più in particolare, alla musica di casa nostra. Basta sapersi organizzare e avere un po’ di tempo. Proprio per questo, abbiamo coinvolto Tonio Del Vecchio, un amico che è poi il grafico di tutti i nostri precedenti lavori. E’ il quarto fondatore dell’etichetta, non è un musicista, ma sa muoversi benissimo, in questo ambito. E così facciamo tutto in casa, recandoci in Calabria per approntare materialmente il disco. Utilizziamo lo studio di registrazione del Pentagramma di Bari, ma possiamo appoggiarci anche altrove. Dove l’autore del disco vuole, per intenderci. E sì, perché l’etichetta non è aperta ai soli fondatori, ma a tutti».
L’idea è quella di promuovere qualsiasi tipo di lavoro che possa suscitare interesse, senza limitazioni dettate dal prestigio del nome del musicista che vuole promuoversi con un cd. «Ma, soprattutto – continua Guido Di Leone – la Fo(u)r vuole seguire il prodotto dopo la sua realizzazione in studio. Curandone particolarmente la distribuzione e la pubblicizzazione. Non siamo sognatori, ma possiediamo buone intenzioni. Perciò, abbiamo già intavolato un discorso concreto con la Feltrinelli e con altri soggetti che hanno mostrato di gradire l’iniziativa».
La Fo(u)r prevede quattro binari musicali. Il primo è riservato al classic jazz, il secondo al contemporary jazz, il terzo a quelle sonorità che dal jazz si discostano, senza però rifiutarlo, e il quarto alla realizzazione dei promo. I primi due album usciti sotto la nuova etichetta sono già in commercio. Parliamo del debutto discografico di Nino Di Leone («Quel Che Non Si Fa Più», ventotto tracce in cui il pianista ripercorre musicalmente gli anni cinquanta e sessanta, passando da autori come Kramer, Buscaglione, Luttazzi, Batacchi e Cichellero) e di «All the Way», il disco griffato Francesca Leone, vocalist barese che ha dedicato il lavoro a Jimmy Van Heusen con il suo quartetto, composto dallo stesso Guido di Leone (chitarra, batteria e arrangiamenti), da Teo Ciavarella (al pianoforte) e da Aldo Vigorito (al contrabbasso). Il terzo prodotto, invece, è uscito in questi giorni: «Sì – conclude Guido Di Leone – e si chiama «Tribute Duez», per la linea contemporary jazz. Il sottoscritto è il protagonista al fianco di quattordici musicisti, tra i quali spiccano Franco Cerri, Dado Moroni, Gerry Smulian, Ira Coleman, Marco Tamburini e Paola Arnesano. Con ognuno dei quali, ovviamente, mi esibisco in duo. La collana, però, si allungherà molto presto. I primi riscontri sono positivi. Inoltre, sta per essere pubblicato, sempre sotto l’etichetta Fo(u)r, il libro di tecnica trombettistica curato da Mino Lacirignola. Significa che non abbiamo tralasciato neppure questa opportunità».

(pubblicato dal mensile "Pigreco")

martedì 2 maggio 2006

Dischi - Legend (Raffaele Casarano & Locomotive)

Raffaele Casarano è giovane, ma sta crescendo. E, per dimostrarlo, il sassofonista salentino presenta Legend, album di nove tracce confezionato con l’apporto di un contrabbassista (Marco Bardoscia, da Copertino) e di due tarantini, il pianista Ettore Carucci (ultimamente assi prolifico e particolarmente presente sul mercato discografico di queste contrade) e il batterista Alessandro Napolitano, che negli ultimi tempi sembra aver acquisito motivazioni pesanti. Ma non è tutto: perché in sala d’incisione, per l’occasione, sono entrati anche il trombettista Paolo Fresu e i quarantasette componenti l’Orchestra del Conservatorio “Tito Schipa” di Lecce, diretta da Massimiliano Carlini. Forse per rinsaldare quei rapporti che si sono recentemente instaurati tra la musica leggera e quella sinfonica: rapporti sui quali Pigreco si è già diffusamente fermato nei numeri di marzo e aprile. E, sicuramente, per offrire un prodotto pensato e accattivante.
Per la cronaca, «Legend» – prodotto e distribuito dalla leccese Dodicilune, etichetta specializzata in ambito jazzistico e affidata alle cure di Gabriele Rampino, che è poi l’organizzatore máximo di una delle più interessanti rassegne musicali pugliesi, Jazle – è stato battezzato a marzo in un live tenuto a Casarano e, il 30 aprile, riproposto dal vivo alla platea tarantina, all’interno della programmazione del Ramblas Musiclub. Senza Fresu e senza orchestra, ovviamente, ma con lo spirito che ha spinto Raffaele Casarano e Locomotiva (è il nome della band, che nasce per caso, in treno) a progettare un lavoro dall’impronta frizzante ed elegante, sobria. Dove esiste un forte sapore di jazz colto, ma dove non mancano gli spazi per ogni singolo musicista (bellissimi gli assoli dei fiati). Un disco, tra l’altro, ripercorso con personalità e da scoltare con attenzione. Di notte, magari. E che, peraltro, ha saputo nutrirsi della collaborazione di Giuseppe Bassi (contrabbasso), Dario Congedo (batteria) e Alessandro Monteduro (percussioni), confidando sugli arrangiamenti di Simona Borgia e Fabrizio Piccinno e anche sul nome del brasiliano Chico Buarque de Hollanda, autore dell’unico pezzo non originale ("O Que Será").

Legend (Dodicilune, 2006)
Raffaele Casarano (sassofono) & Locomotive (Ettore Carucci: piano e fender rhodes; Marco Bardoscia: contrabbasso; Alessandro Napolitano: batteria). Guest Paolo Fresu (tromba) & l'Orchestra del Conservatorio "Tito Schipa" di Lecce

(pubblicato dal mensile "Pigreco")

sabato 25 marzo 2006

Il poeta e l'amore

Tra il jazz e la canzone d’autore. Attingendo da questo e da quella, ma salvaguardando la propria concezione musicale. Innervandola di ironia, perché no. Daniele Dall’Omo è bolognese. Ed è un chitarrista al seguito di Paolo Conte, da diverso tempo: quindi perfettamente integrato nella sofisticata orchestra dell’esigentissimo chansonnière piemontese. Ma l’artista pretende anche uno spazio interamente suo: e, allora, Daniele Dall’Omo si trasforma in cantautore, sfornando un disco («Il Poeta e l’Amore»), realizzato con Davide Blandamura (basso elettrico e tastiere) e Marcello Benetti (batteria) e recentemente uscito sotto la protezione di Fonoprint. Un disco da far conoscere alla gente. Anche a quella di Puglia. Il tour è maturato in tre tappe, tutte consumate a marzo: prima a Casarano (Le Signorie), poi a Lecce (Prosit Café) e, infine, a Taranto (Ramblas Musiclub). Tappe, peraltro, condivise con un trio pugliese: Raffaele Casarano al sassofono, il giovanissimo Marco Bardoscia al contrabbasso e il tarantino Alessandro Napolitano alla batteria. «Come al solito – ammette Dall’Omo – nelle serate live ho ritenuto opportuno alternare i brani di mia produzione ad alcune cover (segnaliamo, fra tutte, “It’s Wonderful”, del già citato Paolo Conte e “Una Fetta di Limone” del duo Gaber-Jannacci, “Destra – Sinistra” di Gaber, “Mille Lire al Mese” di Gilberto Mazzi e “Guarda Che Luna di Fred Buscaglione”, ndr). Il disco, invece, contiene dieci tracce originali: e marzo era il momento giusto per pubblicizzare il mio ultimo lavoro, prima di essere nuovamente assorbito dalla tournée di Paolo Conte, che a giugno toccherà anche Bari». «Il Poeta e l’Amore» è un album versatile, orecchiabile, ma che sa concedere anche spazio ai testi: è il caso di “Fragil”i, ultima fascia del cd. Senza dimenticare l’aspetto puramente musicale. Perché, come scrive Dall’Omo, «la musica non ha confini, non ha colore, né vestito e parlka tutte le lingue del mondo. Non puoi vederla, né toccarla, è un’arte astratta, inafferrabile, che va dritto in fondo all’anima».

Daniele Dall’Omo Quartet (Daniele Dall’Omo: voce e chitarra; Raffaele Casarano: sassofono; Marco Bardoscia: contrabbasso; Alessandro Napolitano: batteria)

Lecce, Prosit Café

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

domenica 12 febbraio 2006

Incroci di tendenza

Ci affidiamo alla memoria, senza vincoli cronologici: prima Dalla, poi Battiato, Minghi, Antonella Ruggiero, quindi Teresa De Sio. Anche da queste parti, persino ultimamente. I nomi della canzone (d’autore) italiana scelgono sempre più spesso - sembra questa la tendenza – a incrociarsi e misurarsi (e, magari, ad affinarsi, completarsi, divertirsi: fate voi) con le note e le sonorità più classiche o seriose di un’orchestra sinfonica. Elaborando un progetto fuori dagli schemi, eppure dentro la logica musicale. Cercando percorsi alternativi che valichino il confine del deja vu e del già sentito. Inseguendo, forse, qualcosa di nuovo che, di fatto, nuovo non è più, da un po’. Tributando, tuttavia, sensazioni (quasi sempre, immaginiamo) godibili: e, dunque, rispondendo ad un’implicita richiesta della gente, che di sensazioni vuole vivere. Almeno dentro un teatro, un auditorium, uno stadio o un palazzetto dello sport. Dove cioè, si produce spettacolo: musicale e non solo. Il fenomeno che avanza si chiama commistione. Anzi, diciamo pure ci piace chiamarlo così. E ci provano in tanti, ormai. Dicevamo di Dalla: ha inaugurato, anni addietro, il discorso e proprio questo mese, a Taranto, si esibirà al fianco dell’Orchestra della Magna Grecia diretta da Luís Bacalov. Lo stesso ensemble che, a febbraio, ha condiviso per cinque serate gli applausi con Teresa De Sio, decurtando – probabilmente- il potenziale sonoro degli abutuali compagni di viaggio della cantante cavese, la Folkorkestra, ma assicurando al pubblico un’impressione finale di appagamento. Alla lista, poi, si è aggiunto anche Sergio Cammariere, autore che sa essere raffinato e intrigante, delicato e versatile. E ritrovatosi, ad inizio di marzo, sul palco dell’Auditorium della Guardia di Finanza del quartiere San Paolo, al fianco dell’Orchestra Sinfonica della Provincia di Bari diretta da Paolo Silvestri. Detto per inciso, il live, inserito nell’ambito della stagione concertistica dell’Orchestra stessa, ha convinto tantissimo: innanzi tutto per il suo confezionamento, semplice e diretto, cioè efficace, ma anche per la facilità di conversazione instauratasi tra l’attrazione principale (Cammariere, appunto) e l’esercito (quarantacinque elementi) dei musicisti di supporto, ai quali si sono aggiunti i fedelissimi del compositore calabrese (il sempre più interessante Fabrizio Bosso alla tromba, vero e proprio guest della serata, il navigato Luca Bulgarelli al contrabbasso e il batterista Amedeo Ariano, asciutto e, al contempo, vivace). Così come ha convinto lo stesso Cammariere, più sciolto e comunicativo rispetto al passato e, soprattutto, più disposto a improvvisare. E, perche no, a diversificare la scaletta (costituita dai passaggi più belli dei suoi due lavori pubblicati, “Dalla Pace del Mare Lontano” e “Sul Sentiero”), tanto da interpretare un omaggio a Luigi Tenco e proporre una rivisitazione di “Caravan”, di Duke Ellington. Sia chiaro, però: diversificare non è assolutamente necessario. E’ necessario, piuttosto, un progetto che sappia offrire e offrirsi: operazione, per l’occasione, pienamente riuscita. Conseguenza logica, quando nessuno ruba lo spazio altrui. E, in un’epoca dove impera il concetto di commistione, assicurarsi il rispetto dei ruoli non è mai facile.

Sergio Cammariere (voce e pianoforte), Fabrizio Bosso (tromba e flicorno), Luca Bulgarelli (contrabbasso), Amedeo Ariano (batteria) & l’Orchestra Sinfonica della Provincia di Bari diretta da Paolo Silvestri

Bari, Auditorium della Guardia di Finanza

Stagione Concertistica 2005/2006 dell’Orchestra Sinfonica della Provincia di Bari

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

venerdì 13 gennaio 2006

Dischi - The Way I Like (Berardi Jazz Connection)

Il senso (delle cose, della musica: fate voi) che piace. «The Way I Like» è il cd appena confezionato da due musicisti fortemente tarantini e da tempo avvolti nella propria dimensione jazzistica. Il primo si chiama Ettore Carucci, pianista già prestatosi a diverse formazioni regionali e affezionato compagno di viaggi di Guido Di Leone, tanto per fare un nome. Il secondo è il batterista e percussionista Francesco Lomagistro, peraltro dedicatosi – in un passato niente affatto lontano – anche alla cura del blues live. Un cd, «The Way I Like», che peraltro si avvale di sinergie qualitativamente interessanti: nelle dieci tracce del disco, difatti, troviamo il lavoro dei contrbbassisti Giuseppe Bassi (da Bari) e Marco Bardoscia (da Lecce), della vocalist Paola Arnesano (presente nel brano "Estou Falando de Amor", da lei stessa composto), del sassofonista Vincenzo Presta, di Emanuele Coluccia (al sax tenore), di Andrea Sabatino (alla tromba), del già citato Guido Di Leone (sua la chitarra in "Over Leaf") e di Christian Lisi (al contrabbasso in Amorio). Dieci tracce, per la cronaca, racchiuse in un album registrato nello scorso mese di giugno per l’etichetta Antibemusic, e tutte arrangiate dalla Berardi Jazz Connection: dalla premiata ditta Carucci&Lomagistro, appunto.
Il lavoro, distribuito dalla romana Goody Music, si presenta anche bene (la copertina, realizzata nella penombra della metropolitana di Barcellona, è intrigante) e lascia trasparire l’esigenza di misturare le tonalità tradizionalmente più legate al jazz (è il caso di "Amorio", traccia numeo otto) con sonorità più calde, proprie del mondo latino (si spiega così la presenza di un brano dall’inequivocabile timbro brasiliano, quello di Paola Arnesano, di "Jive Samba" di Nat Adderley, di "Walking With My Sons" o di "Una Más", di K. Dorham). Anche "Offside", il pezzo che apre l’album, possiede un ritmo viace, fluido, persino frizzante (bello l’intervento dei fiati). "Mr. Rhodes", invece, è un omaggio personale di Ettore Carucci al Fender Rhodes largamente utilizzato in questa traccia e, più in generale, in tutto il cd (è ben presente anche in "Over Leaf"). Il tutto per un prodotto globale fresco e godibile. La musica, del resto, deve seguire il suo percorso. E il senso è quello giusto. Quello che piace.

The Way I Like (Antibemusic, 2006)

Berardi Jazz Connection (Ettore Carucci: piano e fender rhodes; Francesco Lomagistro: batteria, percussioni e vibrafono; Giuseppe Bassi: contrabbasso; Marco Bardoscia: contrabbasso; Christian Lisi: contrabbasso; Paola Arnesano: voce; Vincenzo Presta: sax tenore; Emanuele Coluccia: sax tenore; Andrea Sabatino: tromba; Guido Di Leone: chitarra)

(pubblicato dal mensile "Pigreco")