mercoledì 16 novembre 2011

Autobiografico, introspettivo, metaforico Zahir


Un pensiero fisso, che insiste. Che occupa la mente. Un'ossessione. Che luoghi, ricordi ed esperienze vissute alimentano e rafforzano. Un tarlo che si agita nella testa. Che non sembra conoscere uscita. E che fugge solo sotto la spinta della certezza di poter porre rimedio al problema. Traducibile, in arabo, con una sola parola: zahir. Un disco graffiante, che galleggia sulle metafore, nutrendosi di un pianismo contemporaneo macchiato di world music. Undici tracce che disegnano altrettante storie, ordinate su un tragitto geografico immaginario che nasce dove sorge il sole e muore là dove il sole scompare. Un incrocio tra pianoforte e piano preparato, tra umori mediterranei e aria di casa. Con qualche incursione nell'etnica e nell'elettronica. Un'introspezione, quasi un'autobiografia in note. E' lo Zahir di Massimo Carrieri, cioè il secondo lavoro del pianista martinese, prodotto dall'etichetta Effemusic, appena collocato sul mercato discografico. Cioè, l'evoluzione del pensiero musicale di un artista che si scruta, che continua a cercarsi, che prova a decodificare orizzonti e possibilità. Le sue possibilità.
Zahir, intanto, si accoda al primo album, Seven, ormai vecchio di quattro anni. Ma, dalle caratteristiche di Seven, sostanzialmente si allontana. E non solo per le modalità con cui viene costruito. Perchè, se il primo cd è un assemblamento di sette brani (diciamo pure più rigorosi, musicalmente parlando) scritti in tempi diversi, l'opera seconda è un'idea unitaria, completamente partorita in un determinato periodo, durato nove mesi: un momento storico evidentemente anche abbastanza sentito dall'uomo, prima ancora che dall'artista. Zahir, oltre tutto, dispone di tonalità più moderne, più contaminate. Dove l'improvvisazione ruba spazio alle precedenti composizioni, più legate alla scrittura. E dove, anche questa è una novità, s'inseriscono due voci: quella di Imma Giannuzzi, salentina di Lecce, da sempre attirata dalle tonalità terragne della musica popolare (è presente in "Terraross"), e quella di Salah Addin Roberto Re David, gioiese di origine e cultore della cultura sufi (appare nella traccia "Il Silenzio Intorno"). Del resto, il disco si abbandona pure a sonorità proprie di culture differenti e, comunque, ad atmosfere lontane o spirituali.
«Nel disco - rivela l'autore - c’è una traccia, "Il Silenzio Intorno", che si chiude con un adzan, un richiamo islamico alla preghiera. E, nel finale di "Lost in Her Dance", fa il suo ingresso un rito voodoo. Infine, il concept grafico e visivo che accompagna il disco passa attraverso elementi simbolici e metafisici. Poi, il titolo stesso del disco è la sintesi di tutto un processo introspettivo: e potrei continuare così ancora per un pò. Non penso si tratti di pure casualità. Chi vorrà, potrà cogliere una serie di messaggi che esulano dal semplice ascolto di undici composizioni al pianoforte». Al pianoforte, ma - dicevamo - anche al piano preparato. «Il pianoforte - continua Massimo Carrieri - è uno strumento dalle mille risorse. L’uso di questa tecnica non fa altro che ampliare la gamma delle possibilità timbriche che lo strumento offre. A seconda del materiale utilizzato, legno, metallo o plastiche, può assumere dei caratteri che lo avvicinano ad esempio ad uno strumento a corde pizzicate o a percussione. In Zahir questa procedura mi ha aiutato a ricreare gli ambienti, i luoghi in cui raccontare determinate storie. Succede, ad esempio, che in "Lost in Her Dance", una traccia con un’impronta fortemente tribale, in alcune zone il pianoforte sembra imitare l’ostinato di tamburo africano. Ancora, ne "Il Silenzio Intorno" o nella traccia "Zahir", un leggera cordiera in metallo ci riporta in atmosfere tipicamente orientaleggianti».
Zahir, tracce di un corso tutto nuovo. «Sì, è un lavoro che nasce con la volontà di rinnovarsi, di sperimentare, di cercare nuove strade: un atteggiamento doveroso, per evitare di ripetersi. Credo che questo progetto mi abbia condotto in alcune direzioni che continuerò a perseguire in futuro: come l’uso del sound processing, un arricchimento compositivo che apre ad infinite possibilità. Anche se in Seven, il mio primo disco, ci sono comunque degli elementi che, in qualche modo, anticipano quello che poi è andato ad evolversi in Zahir». Ma, anche, il frutto di un lavoro di ricerca. «Il primo lavoro di ricerca è passato innanzi tutto attraverso me stesso. Zahir arriva a quattro anni da Seven, un arco di tempo considerevole in cui sono maturate nuove esperienze di vita e professionali che, penso, mi abbiano fatto crescere sotto diverse angolazioni. Tutto ciò, forse, è avvenuto anche in maniera inconscia, contribuendo ad arricchirmi di nuovi stimoli, nuove idee e soprattutto, nuove cose da raccontare. Tornando più propriamente al disco, in Zahir c’è stata una particolare attenzione sul tipo di suono che doveva venir fuori, un aspetto che non ho trascurato sin dal primo passo: la scelta dello strumento. Sono venuto in contatto con uno Steinway del 1917 che Nicola Farina custodisce gelosamente nel suo negozio di Ostuni. E’ stato amore a prima vista: tra tante proposte, non ho avuto dubbi. Il secondo incontro magico, invece, è stato quello con Tommy Cavalieri, un vero maestro del suono. Il suo contributo è stato determinante per il risultato finale del disco».
Un disco, tra le righe, anche autobiografico. «Basta leggere qualche titolo: "Terraross", "Father", "Under Manhattan Sky". Non è difficile capire certi collegamenti. Chi mi conosce da vicino lo sa: c’è molto di mio. Racconto cose alle quali sono legato e che mi porto dietro, nel bene e nel male. Dentro, c'è l’essenza del mio personale zahir. Ogni traccia racconta una storia che, in qualche modo, è venuta in contatto con me. Ci sono luoghi, persone, stati d’animo, sentimenti. Non riesco a pensare alla mia parte artistica completamente scollegata da quella umana: quello che vivo e che sento in prima persona è la base di partenza sulla quale costruisco tutto il resto».

Zahir (Effemusic, novembre 2011)
Massimo Carrieri (pianoforte, sinth e berimbau). Guest Imma Giannuzzi (voce) e Salah Addin Roberto Re David (voce)

sabato 12 novembre 2011

Il sogno americano di Daniela


La cattiva notizia corre sul filo virtuale della rete. Perchè, oggi, quasi tutto passa prima dai canali di internet. E corre veloce. Facebook è una lama affilata nel cuore del pomeriggio e, per chi arriva in ritardo, della sera. Una sera spesa, un po' ovunque, tra castagne e novello. Daniela è nel posto sbagliato, al momento meno opportuno. Broadway, New York. L'arteria spacca Manhattan e l'incrocio con la centoseiesima strada spezza un sogno americano. Il suv sfreccia sull'asfalto e la travolge: dettagli della prima ricostruzione del fatto. Daniela, a trentadue anni, ci lascia. La polizia a stelle e strisce fornisce pochi particolari. Quanto basta per sapere che non c'è domani. Folti riccioli rossi, sorriso gentile, voce ormai preparata al gran salto: perchè l'America, per chi naviga tra il soul e il jazz, il blues e il gospel, è sempre l'America. E New York è sempre un po' più America di altri luoghi. Da Andria, Daniela D'Ercole aveva scelto il suo cammino. Passando per i club, le piazze e i teatri di Puglia. Il primo viaggio oltre oceano, temporaneo. Poi, il rientro tra le contrade di casa nostra. Giusto per riannodare i contatti con il suo mondo di sempre. E per vagliare nuove soluzioni. Come il tango e le note d'Argentina: il progetto si era consumato in una sola data, ad Ostuni, quest'estate. Al fianco di una formazione d'archi e della fisarmonica di Giorgio Albanese. C'eravamo. E, proprio lì, Daniela faceva sapere della nuova avventura che l'attendeva. Ancora in New Jersey. Un'avventura più lunga, questa volta. E definitiva, probabilmente. La decisione era presa, ormai. Ma solo a novembre, qualche mese dopo, avremmo scoperto che l'avventura era quella finale. La jam session aspettava Daniela: appuntamento saltato. Con tutti i progetti. E con tutte le illusioni: perchè chi campa di arte, vive anche e soprattutto di illusioni. Che l'Italia, di questi tempi, non permette più a nessuno: musicisti compresi, ci mancherebbe. Bagaglio di viaggio e tante speranze: certe volte, va bene. E, allora, è meglio provare. Per non ereditare rimpianti o scrupoli. Senza sapere cosa c'è dietro l'angolo. O ai confini della centoseiesima strada: dove tutto può finire, all'improvviso. Dove scopriamo di sentirci un po' più soli. E dove la comunità musicale di Puglia elabora il suo terzo lutto, da giugno ad oggi: perchè non abbiamo dimenticato nè Pierpaolo Faggiano, nè Massimo La Zazzera. Intanto, dentro il bagaglio di Daniela, resta The Peacocks, il primo (e unico) disco registrato a suo nome, nel duemilaotto, con Ettore Carucci, Giuseppe Bassi e Marcello Nisi. Dove, tra questa e quella traccia, si respirava il profumo del musical, una delle sue passioni tra le note. Proprio quel musical nato e cresciuto a Broadway, quella strada immensa che spacca Manhattan e che, una sera di autunno, ha spezzato un sogno. Il sogno americano di Daniela.