sabato 15 dicembre 2012

Magnolia, la bimba dalle scarpe rosse

Magnolia è un disco firmato. Perchè ogni accordo trascina il nome e il cognome di chi lo ha disegnato. E anche al primo ascolto, senza conoscere l'autore, quelle note e quegli spartiti svelano il pianismo - questa volta ancora più fresco, più immediato e meno intimo - di Mirko Signorile. Che, al Teatro Forma di Bari, presenta l'ultima produzione della propria già sufficientemente corposa collana personale. Ovviamente commercializzata a ridosso dell'evento (il trenta novembre, per essere precisi) dalla Auand Records, etichetta biscegliese che ama occuparsi del talento musicale sparso per le contrade di Puglia. E, tra parentesi, sostenuta da Puglia Sounds: a conferma della forte pugliesizzazione dell'operazione, come proprio Signorile conferma con orgoglio in coda al concerto, sul palco. Dove, con il pianista di Modugno, si riuniscono il contrabbassista Giorgio Vendola, il batterista Fabio Accardi, il percussionista Cesare Pastanella e la violoncellista Giovanna Buccarella. Formazione, questa, ormai collaudata: ma integrata, seppure per pochi minuti, dalla voce di Giovanna Carone, compagna di viaggio in un'altra avventura parallela.
Magnolia, dunque: questo è un album che coniuga e miscela leggerezza e semplicità, ma senza sminuire lo spessore compositivo. E senza ripercorrere il solco di Clessidra, il primo (e fortunatissimo) lavoro confezionato a proprio nome da Mirko Signorile: una scelta, immaginiamo, precisa. E che ci sentiamo di condividere. E', di fatto, un disco diverso. Più attento, probabilmente, a certi gusti della gente, che oggi si avvicinano ad una musica meno cerebrale, più diretta. Ma, comunque, venato da sonorità digeribili: per ogni tipo d'orecchio. Le tracce sono undici, di minutaggio contenuto. Come sono undici le storie raccontate attraverso gli occhi di una bambina dalle scarpe rosse: Magnolia, appunto. "Viola" è il colore preferito dell'autore. Un ragazzo di trentanove anni (a febbraio) che prova a sognare. Oppure, il colore della sua anima. "Come i Burattini" è quel mondo in cui le gioie e la malinconia si incontrano. "La Rosa nel Deserto" è un brano che nasce per caso e per necessità, ma anche un omaggio all'Africa. "Magnolia", che dà il titolo all'intera raccolta, è una bimba immaginaria che possiede il dono di sorprendersi. "E Si Aprirono le Ali" è dedicata a quanti escono da un periodo particolarmente delicato della propria vita. "Il Giro della Testa", vocalizzato da Giovanna Carone, è quel momento in cui si materializza qualcosa di inatteso. "La Danza del Rivale" sono le evoluzioni da corteggiamento di un uccello. "Racconti di Fata" parla di magia ed incantesimi. "Autoritratto" è la fotografia di una persona solare e, contemporaneamente, un pezzo che si appoggia sul più noto "Retrato em Branco e Preto", musicato da Tom Jobim. "Intorno a Me" è pensato in sol, esattamente come "Intorno a Noi", inserito in Clessidra. E, infine, "La Villa Bianca", ambientato ad Ostuni e dedicato a una persona cara che non è più tra noi, è composto per soli piano e violoncello.
La situazione live, curata da Bass Culture, così come il lavoro discografico, persegue i concetti di bellezza e di passione. Ma, innanzi tutto, certifica l'estrema sensibilità di un artista versatile, che sa districarsi attraverso stili diversi e impostazioni differenti. Lasciando, sempre e comunque, un'impronta. La propria impronta. Basta ascoltare, per rendersene conto.

Mirko Signorile (pianoforte), Giovanna Buccarella (violoncello), Giorgio Vendola (contrabbasso), Fabio Accardi (batteria) & Cesare Pastanella in "Magnolia". Guest Giovanna Carone (voce).
Bari, Teatro Forma



mercoledì 12 dicembre 2012

Gateway to Life, un disco sincero

Dai classici di Porter alla composizione. Dall'interpretazione del jazz del periodo più lucido alla produzione propria, dove la canzone si arricchisce di dinamiche più moderne, più pop, più funk. Dal tributo alla storia ad una nuova sfida. Con se stessi. E con la musica che si evolve. Nei timbri, nel linguaggio. Giuseppe Delre, quattro anni dopo l'album d'esordio (Giuseppe Delre Sings Cole Porter, appunto), torna con un disco tutto suo, Gateway to Life, firmato Abeat Records, in circolazione dal 6 dicembre con il sostegno di Puglia Sounds e della Fondazione Andidero. Lavoro, questo, che raccoglie dodici brani, di cui due cover ("Yesterday", targata Lennon e McCartney, e "E Se Domani" della coppia Calabrese-Rossi, portato al successo da Mina e duplicato, all'interno del cd, pure in versione radiofonica). E, ad eccezione di due tracce cantate in italiano (a parte la già citata "E Se Domani", anche "Una Vecchia Storia") e una in portoghese ("Se"), sviluppato in inglese. Sintesi, evidentemente, di una certa evoluzione (e di una maturazione) artistica. E punto di passaggio di un percorso ponderato. In cui, peraltro, il vocalist molese non rinuncia a scrutare la quotidianità e le sue pieghe, oppure ad ammiccare al ventaglio di sentimenti che ruotano attorno alla gente comune.
Più atmosfere legate ai giorni nostri e meno swing: eppure, Gateway to Life resta un prodotto fondamentalmente elegante, cioè pensato ed eseguito con quel garbo che, poi, è una peculiarità dell'universo musicale del suo autore. Assistito, per l'occasione, anche dagli arrangiamenti per archi di Gianluigi Giannatiempo (un'assoluta garanzia, da questo punto di vista), dalle note del sassofonista newyorkese Michael Rosen e di diversi artisti pugliesi, che - prima di tutto - sono anche amici datati: è il caso di Vince Abbracciante ed Ettore Carucci (al Rhodes), di Fabio Accardi e Mimmo Campanale (alla batteria), di Nando Di Modugno (alla chitarra), di Mauro Gargano e Camillo Pace (al contrabbasso), di Francesco Lomangino (ai fiati) e di Mirko Signorile (al piano).
Gateway to Life, confessa Giuseppe Delre, è un disco sincero. E anche diretto: «Dieci brani nascono da esperienze di vita vissuta: sono storie che mi sono state raccontate e che mi hanno colpito, tanto da volerle rendere mie ed interpretarle. Storie che mi riguardano e che ho cercato di trascrivere senza fronzoli o orpelli inutili. Ho cercato di dare un anima più popular, ovvero più comunicativa, soprattutto perché i testi parlano della quotidianità e delle emozioni. Il disco parte dalla volontà di interpretare un mondo che, giorno dopo giorno, diviene sempre più rarefatto. Perennemente alla ricerca di un punto fermo e di una modalità interpretativa, questo lavoro è dedicato all'uomo moderno e alle sue passioni, alle sue paure e alla propria voglia di mettersi sempre in gioco. Al suo desiderio di svincolarsi dai condizionamenti per trovare finalmente la via, ovvero se stesso». La scelta dell'inglese, poi, non è casuale: ma un'esigenza dettata dalla metrica, che meglio convive con i fraseggi e certe note dell'album. «Volevo dare un taglio internazionale al progetto, che si appoggia anche su una modalità nuova di scrittura. Inoltre, l’inglese si presta maggiormente al mio fine creativo.Anche se, poi,canto anche in portoghese e in italiano, con il quale ho sin d'ora intenzione di interpretrare il mio prossimo lavoro discografico».
Ma, innanzi tutto, Gateway to Life sembra aver tracciato definitivamente il percorso artistico che attende il suo leader: «Senza ombra di dubbio. Questo disco vuole scavare oltre le sonorità della tradizione e guardare avanti, cercando un mood diverso rispetto allo swing e alle atmosfere da crooner che mi hanno contraddistinto in questi anni. Dentro c'è una ricerca armonica caratterizzata da un senso modal-tonale che aleggia in tutti i brani e che diventa evidente nelle due cover. Brani, questi, che presentano una nuovissima veste armonica e, in parte, melodica. Inoltre, anche la ricerca di grooves alternativi dimostra questa mia voglia di tracciare un percorso nuovo. Ecco, in Gateway to Life c'è voglia di raccontare e di raccontarsi».


Gateway to Life (Abeats Records, dicembre 2012)
Giuseppe Delre (voce), con Michael Rosen (sassofoni), Fabrizio Scarafile (sassofoni), Francesco Lomangino (flauto), Mirko Signorile (pianoforte), Vince Abbracciante (fender Rhodes), Ettore Carucci (fender Rhodes), Nando Di Modugno (chitarra), Camillo Pace (contrabbasso), Mauro Gargano (contrabbasso), Fabio Accardi (batteria) e Mimmo Campanale (batteria)

venerdì 9 novembre 2012

Tango. Con l'esclamativo

Tango. Ma non basta la semplice parola per cavarsela. O per capire. Sintesi stringata di un universo a parte, di un'intimità infinita, di una passione che si arrampica ovunque: non solo dov'è nato, cioè nell'Argentina degli italiani di inizio novecento. Riassunto sbrigativo di un mondo che trascina ancora i suoi miti, i suoi eroi, le proprie abitudini, le sue consuetudini. Cinque lettere che non si limitano alle sale da ballo, ai dischi più diffusi di Piazzolla e agli standard stropicciati e smaterializzati nei veglioni di fine anno. Musica fiera, il tango. E viscerale. Persino maledetta, se pensiamo a Borges. Vellutata e terragna, aggressiva e dolce: popolata dai ricordi, per parafrasare Gardel. E sempre più gradita, anche da noi. Pure nelle occasioni dal vivo: dove, paradossalmente, non si balla. Perchè esiste ancora distanza (e, sembra, reciproca diffidenza) tra i passi di danza e l'esibizione sonora: come se due mondi uguali si specchiassero, senza incrociarsi. Come se mancasse quel ponte che deve unire le anime gemelle. Note di postriboli, il tango. Che una certa letteratura ha tentato e prova ancora a trasformare in un appuntamento di classe, vagamente glamour. E anche materia abbondante: perchè affonda nella milonga e in altro ancora, ammarando infine nel nuevo tango. Che è una propaggine o la sua semplice evoluzione.
Tango. Con il punto esclamativo. Stiamo parlando di una nuova produzione discografica, griffata Fo(u)r, etichetta barese ormai ramificata in diverse collezioni private di casa nostra e saldamente affrancata al mondo del jazz, ma anche alle sue immaginarie affiliazioni. Dietro al microfono e ai mixer dello studio di registrazione di Tommy Cavalieri, due personalità affermate della scena musicale di Puglia: la vocalist Paola Arnesano, jazzista per definizione, ma tanguera nell'anima, e il fisarmonicista Vince Abbracciante, talento versatile che si sposta con naturalezza da una situazione all'altra. Dentro il cd, invece, dodici tracce. Non tutte, è bello puntualizzare, in pericolo di caduta nel burrone dei soliti classici (come "La Milonga de Buenos Aires" e "Volver", tanto per dire). Da "Garúa" a "Milonga Triste", da "Jacinto Chiclana" a "Alma de Bohemio", da "Cafetín de Buenos Aires" ad "Aquel Tapado de Armiño": il lavoro, ovviamente, non ignora nè Piazzolla e nè Gardel, affacciandosi comunque anche sulla produzione di autori come Troilo, Firpo, Piana, Mores, Delfino e Romero. Transitando pure per le tonalità di "El Dia Que Me Quieras", "Milonga de la Anunciación", "Milonga Sentimental" e "Pango", unico brano originale che Vince Abbracciante ha composto per omaggiare il tango, la fisarmonica e, soprattutto, suo padre. Che è poi una delle ragioni per cui il ragazzo si ritrova a suonare questo strumento.
«E' un album, questo, che guarda alla tradizione, ma dotato anche di una visione più ampia. Ed è un'avventura che abbiamo intrapreso seguendo un preciso percorso»: Paola Arnesano racconta come nasce e cresce l'idea. «Personalmente, amo il tango da tempo e, spesso, lo ballo. Vince, trainato anche dalla fisarmonica, si è già misurato con certe sonorità. Ci siamo incontrati e, casualmente, abbiamo concepito alcuni spettacoli dal vivo, che portiamo in giro da un anno, più o meno. E, altrettanto casualmente, in un secondo momento abbiamo pensato di realizzare il disco». Uscito ufficialmente il nove novembre e presentato, nello stesso giorno, in due distinte occasioni: prima nella cornice della sede barese della Feltrinelli e, in serata, presso l'accattivante Tenuta Pinto, masseria ristrutturata a metà strada tra Mola e Rutigliano che ospita la rassegna Winter Jazz Dialogues 012. Un modo come un altro, questo, per riaccostare la musica e gli interpreti pugliesi alla ristorazione (debitamente separata dal concerto) e, soprattutto, al filo conduttore di un progetto artistico. Ovvero, un metodo antico che, nel tempo, si è quasi trasformato in utopia.

Tango! (Fo(u)r, novembre 2012)
Paola Arnesano (voce) & Vince Abbracciante (fisarmonica)

martedì 9 ottobre 2012

Caldo, morbido jazz

Nuove produzioni discografiche si affacciano. Ad ottobre (e, ormai, ci siamo) esce, anche in distribuzione digitale, A Day Will Come, frutto dell'incontro tra il sassofonista danese Martin Jacobsen, da tempo ciclicamente coinvolto in progetti con artisti di casa nostra, e il trio guidato dal chitarrista materano Dino Plasmati e completato dal tarantino Marcello Nisi (alla battera) e dal salentino Luca Alemanno (al basso). Il lavoro approntato dall'Open Jazz Quartet (cinquantacinque minuti suddivisi in nove tracce), registrato ad inizio di quest'anno a Matera, è griffato Farelive, etichetta lucana che ha recentemente licenziato anche Joy to the World, realizzato dalla LJP Big Band dello stesso Plasmati e dal vocalist Beppe Delre, e vanta sette composizioni originali ("59th Street", "A Special Day", "A Day Will Come", "Inside" e "Killer Wine" di Dino Plasmati, "Borderlines" di Jacobsen e "Sugar's" di Marcello Nisi), a fronte di due brani tratti dal repertorio di Van Heusen e Burkel ("Here's that Rainy Day") e Carmichael e Washington ("The Nearness of You").
Il disco si accosta alle tonalità più tipiche del jazz autentico, senza affacciarsi sulle contaminazioni che, di questi tempi, sembrano aver requisito molti spazi e molti palati. E non attinge neppure ai canali di quello che, adesso, si definisce jazz moderno. Trattando, però, il jazz più tradizionale con sonorità attualissime. I pezzi inseriti nella raccolta, peraltro, sono sufficientemente caldi e morbidi, cioè di impatto sicuro. «Certamente - conferma il band leader Dino Plasmati - il disco è di impronta moderna, per costruzione dei brani e per alcuni suoni ricreati. Si ascoltano, del resto, sonorità a volte metropolitane, oppure sognanti e, a volte, classiche. La scelta è stata quella di far prevalere, innanzi tutto, il concetto di melodia, che deve rimanere impressa nella mente dell'ascoltatore, piuttosto che una struttura complicata che, magari, tende a sorprendere. Il nostro jazz non é di frontiera o fortemente contaminato, come sempre piú spesso si sente in giro. Ma questo lavoro ha tutti gli elementi del modern jazz, pur volgendo uno sguardo distratto al passato».
La collaborazione con Martin Jacobsen, invece, nasce nel duemiladieci. E, da allora, la frequentazione si è fatta più stretta. «Di lui me ne aveva parlato Marcello Nisi e, una sera, durante un mio concerto eseguito al fianco di Max Ionata, Martin era lí ad ascoltarci. Conoscendoci, abbiamo inconsapevolmente steso le basi per un futuro prossimo. Di lí a poco abbiamo cominciato ad esibirci dal vivo assieme e, subito dopo, abbiamo progettato la registrazione del disco. Martin rappresenta il sassofonista perfetto per A Day Will Come: tenorista puro, suono caldo, coltraniano al punto giusto e grande interprete, oltre che ottimo solista. Fortunatamente, nel corso della mia carriera, ho avuto la possibilità di collaborare con nomi eccelsi del panorama jazzistico mondiale: mi riferisco a Randy Brecker, Vince Mendoza, Evan Parker, Steve Grossman, Bob Mover, Jack Walrath, Michel Pilz, Robert Bonisolo, Fresu, Trovesi, Bruno Tommaso, Mirabassi e tanti altri. Musicisti fantastici, tutti con forti personalitá musicali, da cui ho cercato di apprendere e rubacchiare qualcosa. E Martin si inserisce in questo club. Ogni volta che devo suonare con un ospite di questo calibro, peraltro, studio e analizzo molto analizzando i suoi brani, le sue improvvisazioni. Cercando di cogliere le caratteristiche salienti della vena compositiva di ciascuno di loro, provando a farle mie. E questo, ovviamente, mi permette di arricchire la mia tavolozza cromatica, rendendola sempre fresca e attuale. In quest'ultimo periodo, ad esempio, mi sento fortemente attratto dalle strutture compositive di Vince Mendoza e i brani che ho scritto in questi ultimi tempi risentono di alcune sonorità tipiche dell'estro mendoziano, pur opportunamente dosate alle mie caratteristiche compositive».

A Day Will Come (Farelive, ottobre 2012)
Open Jazz Quartet (Dino Plasmati: chitarra; Martin Jacobsen: sax tenore; Luca Alemanno: contrabbasso; Marcello Nisi: batteria)

mercoledì 29 agosto 2012

Storie d'amore e di marea

Stesso garbo di sempre, stesso incrocio di note gentili e concetti di sostanza. La musica dei Fabularasa resta parte di quel cantautorato di casa nostra che si nutre di racconti e di idee. E che lascia un buon ricordo. Cinque anni dopo En Plein Air, l'album d'esordio, ecco D'Amore e di Marea, la seconda produzione, firmata Radar Music e distribuita da Egea. Il disco è di uscita recente (maggio): ma la proposta dal vivo comincia ad affacciarsi. Oltre regione (Ancona, Sesto San Giovanni) e in Puglia (l'ultima data a Mola, nel Gazebo Dal Canonico, struttura ricettiva immersa nelle campagne di San Materno). Dove il quartetto barese (il paroliere, l'ispiratore e il band leader Luca Basso, che è pure la voce del gruppo; il bassista Poldo Sebastiani, il chitarrista Vito Ottolino e il batterista Giuseppe Berlen) divide il palco con un guest di assoluto prestigio e di riconosciuta sensibilità musicale come il clarinettista Gabriele Mirabassi, che poi ha condiviso la stesura del progetto anche in fase di registrazione. Anche se, nel registro degli ospiti dell'album, troviamo anche altri nomi: Paul McCandless, signore dei fiati degli Oregon, e la genovese Giua, compositrice e vocalist di versatile talento, il trombettista Giorgio Distante, Fabrizio Piepoli (voce), Maurizio Lampugnani (percussioni) e Gianni vancheri (al bouzouki).
D'Amore e di Marea, di fatto, insegue e completa En Plein Air. Sarà per quelle composizioni sincopate e spesso solari o per quell'abitudine di allacciare solidi rapporti con la scrittura che rifugge dalle ovvietà. O, come suggeriscono gli stessi Fabularasa, per quella musica fatta a mano, artigianalmente: che possiede un fascino proprio. Al di là del fatto che, proprio la presenza di Mirabassi, finisce per costituire un accrescimento sostanziale ad un profilo musicale già delineato e consolidato nel tempo. «Inseguivamo Mirabassi - confessa Luca Basso - da parecchio tempo. In realtà, però, le nostre strade si sono incrociate solo adesso: prima in studio e ora pure dal vivo. La data di Mola è stata, in pratica, la seconda che abbiamo vissuto assieme». Ma D'Amore e di Marea, oltre che d'incontri, parla soprattutto di storie: «Sì, perchè le storie ci piacciono. Come quella di quel giovane contadino pugliese che scrisse al suo datore di lavoro una lettera, in cui motivava il rifiuto ad accettare un dono di Natale, che i suoi compagni di fatica non avrebbero probabilmente capito o digerito. Quel contadino era Giuseppe Di Vittorio, la canzone si chiama "Il Regalo" e ci fa riflettere sull'onore, sulla dignità, sulla coscienza. E una storia di fantasia è pure quella che, in "Serenata della Controra", ci porta la figura di quell'innamorato un po' imbranato che va a proporsi a lei non di sera, ma durante il sonno del pomeriggio».
E storie, dopo tutto, sono quelle punteggiano i testi di "Aria", di "L'Oro del Mondo" (dedicata a chi condivide, incompreso, l'amore per la musica), di "Maiorana si Imbarca sul Postale", di "Leggero", di "Fiorile" e "Il Campo dei Girasoli" (entrambi riproposti per l'occasione, ma estrapolati dal primo lavoro discografico). Fa niente, poi, se l'atmosfera intima dell'appuntamento dal vivo si scontra con i problemi conviviali, con l'amplificazione che fatica ad allinearsi e con il vociare deciso dei bimbi effervescenti dislocati, diciamo così, in platea. Dove, comunque, non sfugge il coinvolgimento emotivo, che va al di là della professione e della professionalità, di Mirabassi: che si ritaglia, peraltro, anche un momento tutto suo, estraendo dal proprio bagaglio personale un brano di Caximbinha, uno degli eroi dello choro che, in Italia, nessuno o quasi avrà mai sentito nominare. Finendo, così, per impreziosire un percorso sonoro che si assesta attorno ai suoi racconti preziosi, piccole fotografie di una quotidianità che stentiamo a riconoscere. O a ricordare.

Fabularasa (Luca Basso: voce; Vto Ottolino: chitarre; Poldo Sebastiani: basso; Giuseppe Berlen: batteria) in "D'Amore e di Marea". Guest Gabriele Mirabassi (clarinetto)
Mola di Bari (BA), Gazebo Dal Canonico

mercoledì 15 agosto 2012

Branduardi, il menestrello ricercato

L'estate di Montalbano, una delle frazioni di Fasano, è anche il Folk Fest, balcone ormai abbastanza apprezzato sulla musica meno rassegnata. Che, ogni anno, tra un appuntamento e l'altro, inserisce una data di prestigio, in cui cantautorato e musica popolare si corteggiano. Questa volta, l'associazione A Sud inserisce in cartellone Angelo Branduardi, menestrello moderno ultimamente più abituato ai palcoscenici di un teatro, piuttosto che a quelli di un palasport o di una piazza, ma sempre felicemente disteso tra note eteree, orizzonti epici, fiabe, fantasie, ambientazioni gotiche e spiritualità. Anche se la sua produzione più recente comincia a caricarsi di venature più funkeggianti: che, probabilmente, l'esecuzione dal vivo finisce per amplificare. Però, è sempre un bel sentire: per la raffinatezza inattaccabile e l'incrollabile originalità delle sue composizioni, vecchie e nuove, per quella creatività sempre fluente, per quella ricercatezza narrativa che seduce, ma non pesa. E, ovviamente, anche per quel taglio musicale inconfondibile, che non rischia mai di apparentarlo con qualsiasi altro autore di casa nostra.
Già, la musica. Anzi, il suono. «Che poi - rivela - è il comun denominatore della nostra storia. Una storia di secoli che cerco di riassumere in pochi minuti. Quel suono da cui nasce tutto. Perchè anche il verbo di Dio va inteso come suono, prima ancora che come parola. Perchè il suono è presso Dio. Cioè, il suono è Dio. Quel suono cupo che prende forma nel nulla, dal nulla. Le prime creature, del resto, sono luce e suono. Dal quale arriva la musica, che è energia vitale, ovvero il miglior antidoto dell'uomo contro la paura della morte». La musica di questo signore garbato e colto (parliamo di cultura della vita, delle cose) si muove, peraltro, tra le corde vocali e quelle del violino, che una certa annedottica ritiene lo strumento del diavolo, come lo stesso Branduardi ricorda con un pizzico di vanità («E questa mi sembra una cosa ragionevole. Ma il violino è anche il compagno più aristocratico»).
La chitarra, invece, spunta molto più tardi, al tramonto del live. Che si inaugura con un le parole di speranza di "Si Può Fare", aprendo poi una finestra sull'esperanto di un artista che possiede il dono di sdoganare con naturalezza la genialità e, infine, sull'ultimo lavoro discografico, Camminando Camminando 2. «Non soffro, come tanti altri musicisti, del difetto di non riconoscere le mie composizioni che hanno ottenuto più successo»: dalla scaletta, così, sgorgano più avanti "Il Denaro dei Nani", testo innervato di doppi sensi che gli ultimi anni del panorama politico italiano hanno sapientemente coltivato, "La Tempesta", "Ballo in Fa Diesis", "La Pulce d'Acqua", "La Fiera dell'Est". «Sono brani seminuovi, è usato garantito», chiosa divertito. Sùbito dopo aver ironizzato sui talent show e prima di dedicare alla platea accalcata su piazza della Libertà "La Donna della Sera", «una canzone d'amore, una delle poche ho scritto, poggiata su un testo particolare e, sotto certi aspetti, ardito. Tanto che un paio di giornaliste, tempo fa, mi definirono macho. Magari. Questo, giusto per dimostrare che anch'io scrivo testi passionali. Ma sono andato dall'andrologo, non vi preoccupate».

Angelo Branduardi (voce, violino e chitarra) in concerto, con Leonardo Pieri (tastiere, piano, fisarmonica e programmazioni), Michele Ascolese (chitarre e bouzouki), Stefano Olivato (basso, contrabbasso e armonica), Davide Ragazzoni (batteria e percussoni)
Montalbano di Fasano (BR), Piazza della Libertà
Folk Fest 2012

venerdì 27 luglio 2012

Mister Jarrett, è stato un piacere



Concetti a confronto, su barricate diverse. E due partiti ben distinti. Mentre, nel mezzo, scorre la musica. Quella di rango. Di qua, la fazione degli scontenti: per i quali la funzionalità di un festival (jazzistico, in questo caso) abita nella progettualità che dovrebbe scandire i calendari. Una progettualità che non confluisce necessariamente attorno al mito e al suo nome, ma che si alimenta di un'idea più articolata, che possa garantirsi un percorso proprio, incentivando gli artisti, premiando la sperimentazione e educando il pubblico. Senza penalizzare, cioè, il movimento. E senza sacrificare denaro che, altrimenti, andrebbe a coprire il costo di tanti concerti di qualità, ma meno pubblicizzati. Centocinquantamila euro di cachet (più spese, come il jet privato: così si dice) per la presenza, al Petruzzelli di Bari, di Keith Jarrett e del suo gruppo, possono sembrare - oltre tutto - uno schiaffo alla gente comune che naviga nei mari cupi di questo inizio di millennio. A fronte, peraltro, della cattiva fama che accompagna il band leader, ovunque considerato personaggio capriccioso, intransigente e arrogante. Inappuntabile davanti ad una tastiera, ma scorbucito e tagliente appena si volta. Nemico dichiarato di fotografi, cineoperatori e ascoltatori maleducati (ma questo è un pregio, diciamolo sùbito). E, da un po', anche della vasta platea di Umbria Jazz. Palcoscenico, questo, sul quale probabilmente non salirà più, dopo le due ultime burrascose esperienze. E' un partito risentito, quello dei contrari. Che sembra aver trovato la sponda ideale in Roberto Ottaviano, direttore artistico (dimissionario: non solo, ma anche per queste motivazioni) di Bari in Jazz, contenitore che ha chiuso ufficialmente il perorso del duemiladodici con l'evento in atteso dell'anno. Piaccia o no. Proprio quel Roberto Ottaviano che (chi ci segue, ormai, lo sa) non ammaina la bandiera sventolata per diversi anni: solo la pianificazione artistica, cioè, accresce lo spessore di una rassegna.
Di là, invece, il partito dei favorevoli. E, in definitiva, degli entusiasti. Keith Jarrett è una fetta saporita della storia del jazz. E il suo stile, ancora purissimo (anzi, c'è persino chi giura che l'artista nordamericano abbia guadagnato, nel tempo, ancora più eleganza e un rigiore pressochè assoluto), vale la spesa dei tagliandi d'ingresso (alcuni complessivamenet popolari, altri di taglio decisamente più alto: gli sponsor e i contributi pubblici, del resto, non riescono a coprire tutto). Non per niente, jazzisticamente parlando, il signore di Allentown è il più pagato al mondo. E talmente facoltoso da potersi permettere eccessi e ruvidezze da star un po' viziata (il Petruzzelli, per esempio, ha dovuto adeguarsi, predisponendo la temperatura interna sui ventuno gradi: prendere o lasciare). E poi il suo pianismo, oggi, è quanto di meglio si possa ascoltare: e, dunque, anche Bari (come Perugia e altre location di prestigio) possiede il diritto di godere i suoi momenti di grandeur musicale. Senza aggiungere che, per un festival determinato a imporsi in ambito nazionale, è arduo assai acquisire quotazioni senza poter attingere alle firme più importanti: Umbria Jazz insegna. Il partito dei favorevoli, comunque, non si pente mai della scelta, neppure un attimo. Tributando il rispetto richiesto e dovuto. Calandosi in un silenzio assoluto, molto più che religioso, addirittura anacrononistico, di questi tempi. Sarà per l'occasione di gala. Sarà per i contorni regali del teatro più bello di Puglia. Sarà per il prezzo di una sera speciale: che quasi obbliga tutti a non disperdere neppure un secondo di quell'ora e tre quarti del live che il trio, superando qualsiasi ottimistica previsione, concede. Al netto della pausa intermedia, più cameristica che jazzistica. O sarà per il timore di perdere il privilegio, nel pieno del tragitto: l'irritato Jarrett, altre volte, ha tranciato lo spettacolo a metà. Meglio non contraddirlo e seguire le indicazioni, quindi.
Dolce imposizione, però: l'esibizione è una di quelle che, al di là dei luoghi comuni, si fa inseguire con naturalezza. Anche se le tonalità del contrabbasso del settantottenne (e ancora sufficientemente giovanile) Gary Peacock si avvertono poco (Jarrett, qualche volta, abbandona il piano e si alza per accertarsi del problema tecnico). E mentre la raffinatissima batteria di Jack Dejohnette ricama, in punta di bacchette, trame talvolta ardite. Ma questa è davvero una serata speciale. E, probabilmente, anche fortunata. Il Maestro è di buon umore: lo dimostra l'interpretazione asciutta, ma priva di inquietudini. Lo conferma la durata del concerto. Lo sancisce il numero di bis accordati alla platea (tre). E persino un dialogo serrato nei tempi, ma cordiale, con uno spettatore che lo ringrazia. Certo, Jarrett arriva sul palco con le mani in tasca (un atteggiamento di sfida alla musica, o al mondo, o a se stesso, chissà), suona e se ne va. Niente parole, solo musica. E snodatissimi inchini (prima, durante e dopo) verso la gente che applaude adorante. In una tipologia di scenario (un teatro) che, evidentemente, gradisce particolarmente. Il resto, sono note che scorrono con precisione chirurgica, austerità e soddisfazione: di chi esegue, di chi ascolta e anche di chi ha promosso l'iniziativa: Abusuan e Puglia Sounds su tutti. Tra un blues e una ballad, in mezzo all'esercito dei favorevoli che c'erano e lontano da quello dei contrari che non c'erano. Eserciti fieri e tosti, ognuno con il proprio carico di ragioni e convinzioni. Che si eludono e si compensano. Mentre, ai confini delle barricate, sgorga la musica. Quella che non si può censurare, al di là delle posizioni di ciascuno. E che riesce persino a scacciare le ombre di una leggenda metropolitana: il personaggio Keith Jarrett non sembra poi così cattivo come ci hanno raccontato.

Keith Jarrett (pianoforte), Gary Peacock (contrabbasso) & Jack Dejohnette (batteria)
Bari, Teatro Petruzzelli
Bari in Jazz 2012

lunedì 16 luglio 2012

Sound Briefing, vecchi ragazzi che si ritrovano

I ragazzi rampanti di un tempo si attrezzano ancora per scalare la musica e la vita, ma il tempo è più ottuso di noi e incalza per tutti, come scriveva qualcuno, e i ragazzi di allora sono ormai discretamente adulti. Addirittura, uno di questi (Fabrizio Bosso) è in cima ai pensieri di tanti appassionati del genere e ha decisamente guadagnato una popolarità alta e salda su tutta la penisola. E gli altri, come Claudio Filippini, Gaetano Partipilo, Giuseppe Bassi e Fabio Accardi, fanno parte da anni, a pieno diritto, della buona borghesia jazzistica di quest'Italia che sembra vendersi sempre più alle cover band e alla note di media e scarsa qualità. Ma sono ragazzi, questi, che negli ultimi anni del secolo passato condividevano gusti, tendenze, sogni, visioni ed esperienze artistiche. Pronti ad aprire la porta ad un universo misterioso e accattivante. Disposti a misurarsi, a progettare, ad aggrapparsi ad una o più idee, a sondare le strade che partono dalle sette note e portano chissà dove. E chissà quando. Tutti sulla piattaforma comune di un laboratorio musicale che, allora, era Bari. Dove lo stesso Bosso, piemontese di origine, era stato attratto o, forse, divorato. O, più semplicemente, adottato. E dove i ragazzi del Fez, il mitico Fez che Nicola Conte aveva inventato, provavano a costruirsi un futuro.
Questi ragazzi di un tempo, poi, hanno percorso strade diverse. Parallele, talvolta. Ma, in certi frangenti, pure convergenti. Stabilendosi altrove (come Bosso). Rientrando alla propria residenza (Filippini è pescarese). Rimanendo in Puglia (come Bassi e Partipilo), pur ritagliandosi la possibilità di viaggiare e arricchirsi. Oppure varcando le Alpi (è il caso di Accardi), per poi rientrare alla base. Ritrovandosi, però, alla prima occasione utile, qua e là. Comunque, con la promessa implicita di rivedersi, di risentirsi. Ognuo per proprio conto, dunque. E, nel bagaglio di ciascuno, un progetto condiviso. Che, un po' di estati e inverni dopo, Mordente Records (la giovane etichetta indipendente lanciata sul mercato proprio da Fabio Accardi, al suo terzo titolo) ha voluto ripescare dalla memoria. Ecco, così, Sound Briefing, un disco ufficialmente licenziato alla fine di maggio e sul punto di essere presentato al pubblico (al Mavù Club di Locorotondo, la notte tra il ventotto e il ventinove luglio, praticamente a ridosso della prima dell'edizione duemiladodici del Locus Festival, che si tiene proprio nella città della Valle d'Itria).
La fatica discografica del gruppo (The Jazz Convention, si chiama) nasce, in realtà, a ridosso dell'incontro live consumatosi nel duemilaundici a Molfetta e prova a misturare un ristretto numero di tributi ad alcuni big del jazz ("Billie's Bounce" di Charlie Parker, "The Rumproller" di Andrew Hill, "Yes I Can, No You Can't" di Lee Morgan) a sette composizioni originali ("Il Fiore Purpureo" griffato da Filippini e già presente in uno dei lavori a suo nome, "Silvesonic" e "Hozic" di Gaetano Partipilo, la serrata "Silly Toy" di Accardi, "In Volo" di Bosso e "Endless Dream" e la ballade "Daniela's Walking" di Bassi). Per inciso, proprio quest'ultimo titolo è dichiaratamente dedicato a Daniela D'Ercole, già compagna (di vita e di musica) del contrabbassista barese, prematuramente scomparsa a New York nel novembre scorso. Dai toni forti e accesi, Sound Briefing (prodotto da Puglia Sounds) è, in definitiva, un hard bop che si fa ascoltare con facilità e che, ovviamente, non dimentica di far spazio agli assoli e alle qualità interpretative dei singoli (particolarmente accattivante, in "Silly Toy", il dialogo tosto e sincero del sax di Partipilo e della tromba di Bosso). Del resto, una reunion è anche l'occasione migliore per divertirsi assieme. O no?

Sound Briefing (Mordente Records, maggio 2012)
Fabrizio Bosso (tromba), Gaetano Partipilo (sassofoni), Claudio Filippini (pianoforte), Giuseppe Bassi (contrabbasso) & Fabio Accardi (batteria)

giovedì 12 luglio 2012

De Santis, cantastorie moderno del Salento


Il cantastorie esiste ancora. Solo che la figura si è evoluta. E si sono evolute la tecnica del racconto, la semantica, l'approccio con la gente che ascolta e applaude, le dinamiche di comunicazione e qualche altro dettaglio ancora. Poi, oggi, c'è internet. E c'è youtube. E da lì, magari, passa parecchia produzione: che raggiunge il pubblico dietro la scrivania, oppure in un qualsiasi luogo che possa ospitare un tablet, uno smartphone o un portatile vecchio stampo. Prima ancora che nelle piazze, come si usava un tempo. Il cantastorie, di questi tempi, è un cantautore popolare: non troppo snob, ma al passo con la quotidianità. Che ne modella il linguaggio, la metrica e qualche altra cosa. Un cantautore che approfitta di serate quasi confidenziali, in questa o quella rassegna. In questa o in quella location: dove, perchè no, si prova a percorrere strade musicali parallele alle più battute, senza glamour e senza troppi effetti speciali, ma con un paio di idee da sviluppare. Pensando che fare musica, fare spettacolo e fare cultura è ancora possibile, attraverso la parola che insegue una rima e un paio di accordi in croce.
Il cantastorie non è ancora un retaggio dimenticato (o da dimenticare) del passato. Ma sopravvive, seppur con fatica grande. In provincia, ovvio, è più facile. E in certi angoli di un'Italia ancora verace lo è di più. Il Salento, ad esempio, è una penisola che sa custodire ancora certi ricordi, certi sapori, certe storie: da raccontare e da sentirsi raccontare. E' un lembo di terra che guarda avanti, ma che pure si rifiuta di segare per sempre il legame con il ritmo ancestrale che una chitarra, una voce e un po' di tradizione possono combinare. Mino De Santis, infatti, arriva da Tuglie. E del suo Salento parla. E, con ironia, sta cominciando a percorrere il Salento per presentare Caminante, il suo secondo disco. Perchè, di questi tempi, il cantastorie (e De Santis lo è: e ci auguriamo che non si offenda, in quanto è una condizione degnissima, è una dote ed è, oltre tutto, una verità) è discograficamente evoluto e, come vedremo, non rinuncia neppure a confezionare quelli che, una volta, si chiamavano videoclip e, adesso, sono veri e propri cortometraggi.
Cantastorie, dunque. O cantautore di estrazione terragna, fa lo stesso. Strumentazione e tonalità essenziali, timbri decisi e semplici, molte strofe, tanti concetti: la ricetta è semplice e funziona puntualmente. Chiaro, è la parola che viene prima dell'elemento squisitamente musicale. E' la parola che comanda. La parola, che poi è la storia, le storie. Storie che vengono da lontano, che dicono di una terra e dei suoi comandamenti, del suo passato e del suo presente, delle sue inclinazioni e delle sua speranze, dei suoi riti pagani e dei suoi drammi. Ma anche della vita dell'uomo qualunque e della morte, dei tic e dei vizi, degli intrighi di provincia e delle picaresche pieghe di un fatto di pubblico dominio. Storie di emigrazione, di partenze e ritorni, di viaggi e di sogni, di costrizioni sociali e di ipocrisie, di piccoli centri e di consuetudini antiche. Storie allacciate da testi diretti, sempre divertiti e, talvolta, intrisi di ruvida schiettezza: come nella migliore tecnica della composizione tradizionale. Testi anche particolarmente verbosi, lunghi e sarrati, da accompagnare con attenzione, per non perdere qualcosa. E per non perdersi nei meandri del dialetto, che comunque si sposa con una certa facilità di vocabolario.
Caminante, che De Santis presenta ufficialmente anche a Martano, nel quadro degli appuntamenti organizzati dall'amministrazione cittadina, è pure l'occasione per riproporre qualche passo della precedente produzione, Scarcagnizzu. E per proiettare, a metà di un live che supera le due ore di durata, Lu Ccumpagnamentu (Il Funerale), un video di una decina di minuti diretto da Gianni De Blasi, griffato Zero Production e realizzato interamente proprio in questo angolo di Grecìa, grazie alla partecipazione di numerosissime comparse rubate alle proprie occupazioni. E', in pratica, il singolo estratto da Caminante che viene lanciato, proprio in questi giorni, sui canali di internet: perchè, dicevamo, cantastorie va bene, ma nel pieno rispetto del tempo che viviamo e del progresso che ci ingloba. Con una finestra aperta su quella storia e su quelle tradizioni dalle quali (chi più, chi meno) veniamo.

Mino De Santis (voce e chitarra) in "Caminante"
Martano (LE), Giardini del Palazzo dei Duchi Gaetani di Castelmola
Estate Martanese 2012

venerdì 6 luglio 2012

Bari in Jazz, programmazione doppia

Nomi inarrivabili. Quest'anno Bari in Jazz si mette a strafare. Per il gaudio magno degli appassionati. Otto luglio: Chick Corea. Ventisette luglio: Keith Jarrett. Entrambi sul palcoscenico nobile del Petruzzelli. Che, poi, sono i protagonisti dei due appuntamenti, diciamo così, fuori cartellone. Ma, se non vi basta, nella quattrogiorni istituzionale c'è pure qualche altro evento davvero niente male: Maria João e Mário Laginha, il sestetto di Paolo Damiani, Maria Pia De Vito e il Progetto Makemba di Majid Bekkas. Tutti insieme, appassionatamente, all'interno del Summer Music Village del lungomare del capoluogo. La kermesse, malgrado i problemi già analizzati in passato, rilancia. Spostando, però, l'obiettivo sui live di prestigio, che dovrebbero catturare il grande pubblico. E tagliando, nel contempo, le date più propedeutiche al progetto originario. Anche per questo, allora, Bari in Jazz perde, alla fine di questa ottava edizione, il suo direttore artistico Roberto Ottaviano: stanco, fa sapere, di dover prendere atto di determinate situazioni quando le decisioni sulla programmazione (che dovrebbero transitare soprattutto da lui) sono state già assunte e ratificate da altri (è il caso dell'ingaggio dei big, direttamente gestiti da Puglia Sounds). E irritato da problematiche varie, già sviscerate su queste colonne negli ultimi due anni. Ma ribadite prima dello start: «Ritengo di aver contribuito a costruire un festival dotato di idee, di una visione, di un'identità. Inseguendo determinate strategie, aggrappandomi a determinate dinamiche, provando a coinvolgere le istituzioni attorno ad un genere musicale che, tradizionalmente, non raccoglie platee oceaniche. E puntando sulla progettualità, più che sull'onda emotiva che certi nomi e cognomi sanno agitare. Ma, quando un direttore artistico vede tradire certe logiche, continuare diventa impossibile. E poi, a mio modo di vedere, nell'organizzazione di un festival ci sono alcune priorità da soddisfare».
Lo spettacolo, però, continua. Partendo dal tre luglio, quando gli acuti e i bassi di Maria João Monteiro Grancha, accompagnati dal pianoforte di Mário Laginha, si dividono il palco con l'Orchestra Sinfonica della Provincia di Bari, diretta da Lorenzo Marini. Symphonic Loves è un montaggio di differenti passaggi musicali (si va da brani mozambicani a composizioni brasiliane, passando ovviamente per il repertorio del suo Paese, il Portogallo) in cui la cantante lisbonese - che non è una fadista, come erroneamente riferito in fase di presentazione da molti media: sarebbe bastato documentarsi, prima - riesce ad offrire una gamma di vocalizzazioni delicate e, contemporaneamente, intense. Oggettivamente, però, la presenza del'orchestra finisce per ingabbiare la sua verve e il suo estro: il meglio, del resto, arriva quando Maria João (cinquantasei anni portati benissimo) duetta con Mário Laginha, pure lui palesemente liberato da vincoli e paletti. E, probabilmente, non aiutano neppure gli arrangiamenti scelti per l'occasione dallo stesso Laginha: tanto che il concerto fatica a decollare, acquisendo pienezza a metà percorso.
Appena ventiquattr'ore e Bari in Jazz bissa: sul palco, questa volta, il violoncellista Paolo Damiani ripropone, ventisette anni dopo, una vecchia idea presentata a Roccella Jonica, dove la matrice jazzistica si fonde con la tradizione sarda. Tracce di Anninnia è una suite in cui la Vanishing Band (formazione riveduta, così come sono riscritti gli spartiti) rilegge le ninna nanne isolane con fantasia, ironia e un po' di spirito free, sottolineato dalle suggessive incursioni e dallo scat di Diana Torto e Lauren Newton, dall'assidua presenza della batteria di Martin France, dagli assoli elettrici del francovietnamita Nguyen Le e dai fiati pastosi di Glenn Ferris e di Roberto Ottaviano. Il terzo appuntamento, invece, nasce dall'incrocio e dalla compensazione delle sonorità che arrivano da tre continenti diversi: l'Africa del marocchino Majid Bekkas e del maliano Ali Keita, l'Europa del sassofonista francese Louis Sclavis e il Sudamerica dell'esuberante Minino Garay. Il Progetto Makemba, sostenuto da un partner consolidato del festival quale è Alliance Française, è un momento riuscito di métissage o, per usare le parole del direttore artistico, di folklore immaginario. Il live, sin da sùbito, si trasforma in un affresco vivo e pulsante dove la commistione musicale abbatte qualsiasi barriera, seminando colori e sapori. Infine, chiude la rassegna (sei luglio) Crossing the Borders, l'incontro tra la voce di Maria Pia De Vito e il quintetto capitanato dal pianista napoletano Francesco Villani. Appositamente pensato per Bari in Jazz, il concerto si nutre di composizioni originali ben assemblate (dei fratelli Villani, di Gianni Falzone e del contrabbassista danese Jesper Bodilsen), alle quali si affancano due sole cover (una è "29 Settembre", resa celebre dagli Equipe '84 e da Lucio Battisti). Quattro situazioni dal vivo in altrettanti giorni: niente, numericamente parlando, in confronto all'edizione precedente, ma qualitativamente degnissime. Attendendo (ma questa è una storia parallela) il piano solo di Chick Corea e, successivamente, Keith Jarrett, Gary Peacock e Jack Dejohnette. Non gente qualsiasi.

Bari in Jazz 2012
Bari, Piazzale Cristoforo Colombo

Maria João (voce), Mário Laginha (pianoforte) & l'Orchestra Sinfonica della Provincia di Bari diretta da Lorenzo Marini in "Symphonic Loves"
03.07.2012

Paolo Damiani (violoncello) & Vanishing Band (Diana Torto: voce; Lauren Newton: voce; Glenn Ferris: trombone; Roberto Ottaviano: sassofoni; Nguyen Le: chitarra elettrica; Martin France: batteria) in "Tracce di Anninnia"
04.07.2012

Majid Bekkas (voce e oud), Ali Keita (balafon), Louis Sclavis (sassofono) & Minino Garay (batteria) in "Progetto Makemba"
05.07.2012

Maria Pia De Vito (voce), Francesco Villani (pianoforte), Valerio Scrignoli (chitarra elettrica), Giovanni Falzone (tromba), Jesper Bodilsen (contrabbasso) & Pierluigi Villani (batteria) in "Crossing the Borders"
06.07.2012

lunedì 2 luglio 2012

Adesso canta. E, allora, balla


Settemiladuecentotrentatre visualizzazioni on line, mentre scriviamo. In un paio di settimane: giorno più, giorno meno. L'estate e il web non si combattono, ma si alleano. E la gente che ama la musica naviga come se il sole non battesse forte, come invece batte. Il videoclip, nel caso specifico, è anche frizzante, ben strutturato, lieve e attraente nello stesso tempo. Ed è una novità assoluta per chi conosceva Camillo Pace, contrabbassista pugliese abituato a supportare una formazione già ben delineata: che si tratti di jazz o di altro. Perchè, da sempre, il ragazzo non conosce recinti musicali, muovendosi agilmente da un punto all'altro dell'universo delle sette note. Solo che, questa volta, il contrabbassista supera la soglia della subalternità in cui lo costringe lo strumento e diventa attrazione principale. Acquistando voce: intesa nell'accezione più letterale. E trasformandosi, senza alcun travaglio interno, anche in cantante, cioè frontman di se stesso e di un gruppo di musicisti, tutti rigorosamente made in Paglia, che gli ruotano attorno.
Basta un po' di coraggio sfacciato, un testo fresco (che, in mesi caldi come questi, allevia un po'), un po' di amici disposti a confezionare il prodotto finale (il video è solare e anche il montaggio è accattivante), una giovane attrice (la martinese Sara Putignano) che aggrazia la scene e una storia semplice (un sogno o la realtà): il clip del singolo "E Allora Balla" è già diventato un must in tutta la Valle d'Itria e anche oltre. Oltre che velocissimo veicolo promozionale di un disco completo (dieci tracce, di cui due esclusivamente strumentali) che Camillo Pace ha già idealmente preparato, ma che uscirà non prima della fine dell'anno. Un disco che non possiede ancora un titolo, nè un'etichetta. Al quale, ovviamente, contribuiranno molti compagni di viaggio collaudati: come Vince Abbracciante, Guido Vincenti, Lello Patruno ed Enzo Iaia, tutti già direttamente coinvolti nel singolo, o come Antonio Lorè, che appare nel video. Nomi ai quali se ne aggiungeranno altri, a ulteriori lavori in corso.
"E Allora Balla", cioè, non è ancora in circolazione, nel senso più classico del termine. O, per eessere più precisi, non è ancora in commercio (brutta immagine: ma occorre pur farsi capire). Eppure, la rete di internet e, più specificamente, il potentissimo canale di youtube l'hanno già promosso, divulgato, dignificato, celebrato. Sorprendendo, per primo, il suo ispiratore. E chi, con lui, ha lavorato ad un progetto nato, come si dice in questi casi, per puro piacere. O per vedere l'effetto che avrebbe innescato. Girata tra i vicoli di Cisternino e Locorotondo e davanti alla chiesa custodita all'interno della Masseria Sant'Elia, in agro di Martina, e costata cinque giorni di lavoro sotto la regia di Nicola Masciullo e la fotografia di Daniele Rizzi (il montaggio è di Graziano De Pace, la scenografia è firmata Fabiana Rizzi), la clip nasce sulla spinta degli apprezzamenti ottenuti, qua e là, da chi ha ascoltato la versione definitiva del brano. E, sicuramente, si appoggia saldamente sulla naturale simpatia di Camillo Pace, universalmente accreditato di una forte impronta comunicativa. E che, comunque, anche in passato si è confrontato con la composizione di testi (ricordiamo, per tutti, "il Volo dell'Angelo", cantata da Connie Valentini nell'album Uhuru Wehtu, di cui abbiamo diffusamente già parlato in questo blog), senza però azzardare il passo successivo, quello dell'interpretazione diretta. Che, a questo punto, sembra una soluzione nuova (o, almeno, un'opportunità in più) sul cammino del musicista martinese. Folgorato, si dice, da un incontro casuale nella notte leccese con la danza improvvisata e imprevedibile di un personaggio fuori dagli schemi. E imbeccato, all'improvviso, dal tastierista ostunese Piero Vincenti. Forse, il responsabile primo di quell'intuizione che potrebbe aver collocato sulla piazza un altro cantautore.

venerdì 29 giugno 2012

Di Voce in Voce, nuovo look

Bari trova il suo contenitore logistico degli spettacoli all'aperto. E' il lungomare che accarezza la città vecchia, lambendo il porto. Piazzale Cristoforo Colombo è il nuovo crocevia delle note d'estate: da qui sono passati (o passeranno) la Festa dei Popoli, Bari in Jazz, live svincolati dall'etichetta di una manifestazione e altri appuntamenti ormai legati alla tradizione musicale del capoluogo e segnati da anni sulle agende degli appassionati. Non solo baresi, ovviamente. Come Di Voce in Voce, rassegna di nicchia (ancora oggi, malgrado la gratuità dell'evento e l'apertura ad una platea che, tuttavia, latita) e di contenuti non sempre dedicati ad un pubblico largo. Ma, piuttosto, a fruitori attenti, sensibili all'uso della parola e dei versi, oltre che alle tonalità speziate che, dai quattro angoli del mondo, attraversano il mare per trovare residenza in Puglia. Particolarità che, peraltro, la vecchia collocazione (l'auditorium della Vallisa: anche se, sino all'anno scorso, i live si concentravano in autunno) sembrava avvalorare, rafforzare. Ma l'esigenza sfrenata di spettacolo avanza sempre più speditamente, impietosa: a costo di costringere pure i concerti di maggior qualità alla globalizzazione culturale, allo struscio sotto il palco e alla birra che scorre vicina. E dovremo pur farcene una ragione, dimenticando l'intimità di un tempo. O quelle atmosfere sulle quali il cartellone ideato da Giuseppe De Trizio e dall'associazione Radicanto si è ispirato, appoggiato e alimentato nelle prime edizioni. Alle quali, onestamente, ci eravamo affezionati. E per le quali, alrettanto onestamente, proviamo già una solida nostalgia. Ma, del resto, le sponsorizzazioni aiutano a sopravvivere: e certi passi diventano obbligatori, a volte.
Quest'anno, poi, l'avvio della programmazione musicale coincide con gli Europei del pallone. E la prima delle due giornate in cui viene spalmato Di Voce in Voce si scontra addirittura con la seconda semifinale del torneo continentale. Quindi con l'Italia di Prandelli e la Germania di Loew. Praticamente, con la continuazione ideale di un'insostituibile storia calcistica. Risultato: la programmazione slitta di un'ora e mezza (si parte con la proiezione su maxischermo della partita) e si comprime nei tempi. Inevitabile, allora, che - tra agitazioni, distrazioni e residui di tifo - qualcosa si perda: in intensità e in delicatezza, innanzi tutto. Ma questo è. Però, la prima tranche della rassegna porta in dote la presentazione di due cd, di uscita freschissima: Arriva la Banda e Casa. Il primo, sottofirmato da Puglia Sounds, è la nuova proposta discografica dei Bandadriatica, formazione di impatto consolidato e dai balcanismi sempre robusti, modellati con la consueta digeribilità. La ciurma di Claudio Prima continua a spostarsi di porto in porto, tra scirocco e libeccio, grecale e tramontana, licenziando undici tracce alle quali, in sala di registrazione, collaborano tre tra le migliori voci del Salento: Cinzia Villani, Maria Mazzotta ed Enza Pagliara. Cover a parte ("Come Fanno i Marinai", omaggio a Lucio Dalla spuzzato di rebetiko: il gruppo salentino, evidentemente, ha anticipato sui tempi anche Capossela), la ricetta è quella solita: ai momenti di frenesia pure si alternano oasi di vero e proprio cantautorato, di sapido gusto popolare. Nell'esibizione dal vivo, tuttavia, viene a mancare il violoncello di Redi Hasa, ma non un paio di rifermenti a Maremoto, il fortunato lavoro precedente: di cui Arriva la Banda appare la naturale continuazione artistica.
Casa, invece, è l'ultimo album confezionato dai Radicanto, che raccoglie (e, contemporaneamente, rivisita) canti e composizioni della vasta area mediterranea, avvalendosi anche della voce e della verve di un vecchio amico come Raiz, ex leader degli Almamegretta, che così torna ad esibirsi con il gruppo fondato da Giuseppe De Trizio. L'esibizione si carica di volumi, si presenta con una veste decisamente più moderna, più elettrica. Raiz, sul palco, finisce per catturare molti spazi per sè e, probabilmente, le tonalità più tradizionali del gruppo finiscono per essere stravolte. Ma il percorso musicale resta ugualmente genuino e fantasioso. In chiusura, poi, Radicanto e Bandadriatica si ritrovano assieme sul palco dove, immediatamente dopo, vengono raggiunti dalla Sossio Band, che peraltro ha aperto il cartellone della prima serata. Le vigorose tonalità del settetto gravinese engono riassunte in "Muretti a Secco", un disco abbastanza recente in cui si incontrano ritmi serrati, ricorrenti commistioni musicali e testi terragni (in dialetto murgiano), ma anche socialmente impegnati, dove emergono il sassofono di Francesco Sossio e la voce della versatile Loredana Savino, che ricordiamo coinvolta pure in altre situazioni differenti (con l'ensemble vocale Le Nuvole, ad esempio).
E' di prestigio particolarmente alto, invece, l'ospite della serata conclusiva della rassegna: Francesco De Gregori accompagna Ambrogio Sparagna e la sua Orchestra Popolare Italiana dell'Auditorium del Parco della Musica. E' uno di quei casi in cui la musica popolare si fa musica d'autore. E viceversa. Le due anime si intrecciano agili, si completano. Sparagna dirige e puntella, De Gregori (più sciolto e comunicativo di altre occasioni dal vivo) piazza qualcosa del suo repertorio, scommettendo anche sulla produzione degli anni settanta ("Ipercarmela", "Santa Lucia"), senza dimenticare il decennio successivo. Dai versi musicati di Dante si finisce così a "Terra e Acqua", "La Ragazza e la Miniera", "Sotto le Stelle del Messico a Trapanar", a "Stelutis Alpinis" (che poi è un pezzo del patrimonio popolare rivisitato e rivalutato proprio dal cantautore romano) e alla più recente "Volavola". Oltre tutto, tra un brano e l'altro, spunta anche Raffaello Simeoni, uno che sa catturare l'attenzione, che viaggia sul filo delle emozioni. Con De Gregori, è logico, arriva anche la gente e il piazzale si riempie. Ma ci piace ricordare per l'eleganza i due momenti che precedono il clou: prima il quintetto di Maria Giaquinto si perde tra composizioni pugliesi, andaluse e sarde, rimescolando le frontiere e provando anche a riproporre la versione napoletana (di Teresa De Sio) di un brano scritto dal brasiliano Lenine e quella in reatino di "Ebla", del già citato Simeoni (e, quindi, dei Novalia). Quindi, immediatamente dopo, il gruppo formato da Francesco Piepoli (la sua voce è, contemporaneamente, punto di riferimento, guida e colonna portante del progetto) spazia tra ballate tradizionali irlandesi, britanniche e qualche autore degli anni settanta come John Martin. Il marchio di fabbrica di una rassegna come Di Voce in Voce nasce proprio qui, tra queste progettualità.

Di Voce in Voce 2012
Bari, Piazzale Cristoforo Colombo

28.06.2012

Sossio Band (Francesco Sossio: voce e fiati; Loredana Savino: voce; Pasquale Barberio: fisarmonica; Tommaso Colafiglio: chitarra; Gianfilippo Direnzo: basso acustico; Michele Marrulli: tamburi a cornice; Pino Basile: percussioni) in "Muretti a Secco";

Bandadriatica (Claudio Prima: voce ed organetto; Giuseppe Spedicato: basso; Emanuele Coluccia: sassofono; Andrea Perrone: tromba; Vincent Grasso: clarinetto; Gaetano Carrozzo: trombone; Ovidio Venturoso: batteria) in "Arriva la Banda";

Raiz (voce) & Radcanto (Giuseppe De Trizio: chitarra; Fabrizio piepoli: voce, basso e loop; Adolfo Lavolpe: chitarre e bouzouki; Giovanni Chiapparino: fisarmonica; Francesco De Palma: batteria) in "Casa"


29.06.2012

Maria Giaquinto Quintet (Maria Giaquinto: voce; Giuseppe De Trizio: chitarra; Adolfo lavolpe: chitarra elettrica e basso elettrico; Giovanni Chiapparino: fisarmonica; Francesco De Palma: batteria);

Fabrizio Piepoli Quartet (Fabrizio Piepoli: voce e chitarra; Adolfo Lavolpe: chitarra elettrica; Alessandro Pipino: Nord Sage; Francesco De Palma: batteria);

Francesco De Gregori (voce) & l' Orchestra Popolare Italiana dell'Auditorium del Parco della Musica diretta da Ambrogio Sparagna

lunedì 4 giugno 2012

Quindici anni di Fasano Jazz (e dintorni)




Quindici anni (e altrettanti cartelloni) sottintendono anche l'ingresso certificato nell'immaginario collettivo del popolo che ama e insegue la musica. E quindici edizioni di Fasano Jazz, in qualche maniera, significano parentela prossima con la tradizione. Non è neppure facile resistere e rinsaldare le fondamenta del progetto: oggi meno di ieri. Ma, alle amministrazioni comunali che si sono succedute, va dato atto e merito di aver creduto e di continuare a credere in quella che resta una delle manifestazioni più blindate della regione. E a Domenico De Mola, il suo direttore artistico, è giusto riconoscere l'ostinazione e la gelosa custodia del marchio. Nato, come suggerisce la sua ragione sociale, attorno al jazz. E, successivamente, allargatosi verso altri sapori. Soprattutto gli ultimi anni, del resto, hanno apertamente accarezzato tonalità più rockettare, abbracciando il mondo del progressive. Sfiorando, qua e là, anche il blues. Una ricetta, questa, che sembra appagare sempre più chi lavora dietro le quinte: come la programmazione del duemiladodici (Complanare Blues Band, Alex Carpani Band, Polaris Duo, Corrado Sgura Group, Fluido Rosa, Borstlap&Gatto, Area più Maria Pia De Vito), approntata in collaborazione con Le Nove Muse, conferma.
Dunque, a giugno, come ogni anno, l'estate pugliese delle note parte idealmente da questo appuntamento: dislocato, per l'occasione, tra il Portico delle Teresiane, il Cinetatro Kennedy e il Teatro Sociale. Dove, per la terza serata (le date, complessivamente, sono sei), sale sul palco Boris Savoldelli, acrobata vocale che fluttua tra il funky e il rock, il jazz e il pop. Seguito, più tardi, dal trobonista barese Gianluca Petrella e dal pianista Giovanni Guidi, coppia attinta dalla New Generation di Enrico Rava e sostanzialmente inattesa (la situazione, di fatto, sostituisce l'esibizione inizialmente prevista dell'indisposto Paolo Fresu e di Daniele Di Bonaventura). Savoldelli, peraltro, da Fasano Jazz ci è già passato, nel 2009. E, armandosi di canto e loop, si perde in una miriade di giochi vocali, dedicandosi alla propria passione: la sperimentazione. Niente basi preregistrate: solo il supporto di un duplicatore di suoni e talento. Con cui ci si può ironizzare anche sopra: «Avrei voluto fare musica con una vera e propria orchestra, ma il mio conto in banca l'ha sconsigliato. E così ho deciso di fare tutto da solo».
Il vocalist di Pisogne, in realtà, ci mette un po' di tutto. «Vengo definito un cantante di jazz, un'etichetta che mi onora molto. Ma, se per jazz si intende l'accezione più classica, non lo sono». In scaletta, tra un pezzo e un altro, spunta anche un tributo a Monk: ma non c'è spazio per gli standard (e la scelta, se ci consentite, è giusta). «Del resto, cerco di allontanarmi il più possibile da quello che è già stato eseguito e proposto da altri: soprattutto, per una forma di rispetto». Mezz'ora dispendiosa, vorticosa. Ma Savoldelli, in fine di serata, tornerà a cantare: affiancando in una suite di tre brani (più il bis) Petrella e Guidi. Che si inseriscono perfettamente nell'atmosfera della serata: perchè anche qui si ricorre massicciamente alla sperimentazione. Pianoforte e trombone si corteggiano, rincorrendosi in un gioco di ammiccamenti: ora sottili, ora scorbutici, ora più intimi. E, come accade in casi come questo, l'improvvisazione si ritaglia uno spazio tutto proprio, ampio: finendo con il modellare il live. Dove si scherza abbastanza. E si suona: molto.

Boris Savoldelli (voce e loop)

Giovanni Guidi (pianoforte) & Gianluca Petrella (trombone)

Fasano (BR), Teatro Sociale
Fasano Jazz 2012

mercoledì 30 maggio 2012

La luna e il sole di Stefano Clemente


Quello dell'Apulia Jazz Ensemble, ammettiamolo, è marchio che attira. Sarà per quella miscela di campanilismo e di romanticismo musicale che lo sospinge e che intriga. Soprattutto se questa formazione, appena progettata e lanciata da Stefano Clemente, chitarrista pugliese che arriva dal rock e affinatosi fuori dai confini regionali, lascia incrociare ottimi nomi di questa terra (ampiamente spendibili pure sul mercato nazionale) e giovani rampanti di casa nostra. E, in particolare, se, sulla strada, spunta pure un disco: perchè, di solito, malgrado l'ormai sempre più agevole (e, talvolta, anonimo) passaggio per le sale di registrazione, le produzioni discografiche finiscono per dignificare un tragitto, per sdoganare definitivamente il progetto, per raggiungere più facillmente la base. Cioè, chi ascolta. Cioè, il pubblico che si avvicina alle situazioni dal vivo.
Allora, la notizia, innanzi tutto: il disco si chiama The Moon and the Sun: ed è, appunto, a nome di Clemente. A cui l'Apulia Jazz Ensemble ha assicurato supporto, note, tonalità e colori. E, per la cronaca, licenziato dall'etichetta Ultra Sound Records, il lavoro è uscito proprio in coincidenza alla sua presentazione ufficiale, a Conversano, all'interno della Casa delle Arti, un centro polivalente che sta percorrendo con discreta frequenza il sentiero dei live. Dieci tracce e un guest di prestigio come Flavio Boltro, trombettista che si contende con Fresu e Bosso il podio del solista più amato della penisola: The Moon and the Sun è, come sostiene lo stesso Clemente, l'ideale evoluzione della precedente registrazione in studio, Desiderata, lanciata da Dodicilune l'anno scorso. Ma è, soprattutto, un album stimolato da forti fermenti improvvisativi. Che la presenza dei sassofoni di Gaetano Partipilo e Raffaele Casarano, del pianista Davide Santorsola, del contrabbassista Luca Alemanno e del batterista Mimmo Campanale, sotto un certo aspetto, legittima. Anche se, in realtà, nell'esecuzione dal vivo viene a mancare Boltro, ma anche Raffaele Casarano, mentre Santorsola si fa surrogare da Simone Graziano, un fiorentino giovane e convincente che, dalle sue parti, è attualmente assorbito da una collaborazione con il sassofonista Mirko Guerrini.
Non sappiamo, ovviamente, se l'Apulia Jazz Ensemble possiede un futuro definito. Se, cioè, il progetto si ramificherà con la stessa filosofia che l'ha in qualche modo partorito. Oppure se l'esperimento si rivelerà fine a se stesso, buono a immagazzinare esperienze personali e nulla più: perchè di casi come questi il nostro universo musicale è ricco. Però, l'idea ci sembra suggestiva, seppur tutt'altro che originale. E, comunque, merita un approfondimento, qualche attimo di attenzione o, almeno, un po' di curiosità. Che la situazione dal vivo sazia in un'ora e tre quarti di buona struttura melodica, di jazz moderno (ma non freddo) e di angoli pregni di buone atmosfere, imprezosite dal sax e dai frequenti assoli di un calibratissimo Partipilo. Dispiacciono, magari, i larghi vuoti in platea: il live (arricchito dal video realizzato da Giuseppe Rosato) avrebbe guadagnato ancora qualcos'altro, con una più efficace divulgazione mediatica. Ma la consapevolezza di doversi confrontarsi con troppi ostacoli servirà, chissà, ad attutire la delusione. Sicuramente, però, è un buon lavoro, ben assemblato. E dalle dinamiche dispendiose, in alcuni frangenti. Non ci sono, cioè, idee rivoluzionarie, ma un buon tessuto sonoro, un'interessante matrice compositiva, un gusto dichiarato per le contrapposizioni e un interplay largamente soddisfacente. E, se il disco ripercorre buona parte dei passi dell'esibizione dal vivo, si fa ascoltare volentieri. Un dettaglio che non fa mai male.

Stefano Clemente (chitarra) & Apulia Jazz Ensemble (Gaetano Partipilo: sassofoni; Simone Graziano: pianoforte; Luca Alemanno: contrabbasso; Mimmo Campanale: batteria) in "The Moon and the Sun"
Conversano (BA), Casa delle Arti

martedì 29 maggio 2012

Rangel e Bosso, due vecchie conoscenze




Márcio Rangel non dimentica la Puglia. E, spesso, si fa rivedere. Il mancino di Mossoró e la sua chitarra capovolta sono ospiti ormai abituali dei club di casa nostra. All'Engine di Martina, peraltro, il ragazzo si è già esibito, un paio di stagioni addietro. Questa volta, però, la compagnia è diversa. Anzi, è diverso l'altro cinquanta per cento dell'evento. La serata, cioè, è a doppia trazione: e il nome che lo accompagna è di quelli che, da solo, garantisce il sold out, sempre. Fabrizio Bosso non necessita di presentazioni e neppure di frasi gonfie di retorica. E poi, a questo punto, lo conoscono proprio tutti. Jazzisti e non. Non solo perchè tra lo Jonio e l'Adriatico ci ha anche vissuto, per un po'. Non solo perchè, da queste contrade, ci passa sempre più spesso, con progetti e artisti diversi (Sergio Cammariere, Barbara Casini, Irio De Paula, orchestre sinfoniche varie, Luciano Biondini e qualcun altro di cui ci stiamo sicuramente dimenticando), oppure affiancando gente come Gaetano Partipilo, uno degli enfant prodige di questa terra. Ma anche e soprattutto perchè la televisione e, in particolare, il palcoscenico di Sanremo (dove, proprio ultimamente, è tornato ad esibirsi) restano un veicolo promozionale che non teme concorrenza alcuna.
Duo insolito, magari: ma ormai rodato da tanti live sparpagliati ovunque, per la penisola. E forgiatosi attorno alle note della musica popolare brasiliana che Márcio Rangel Jales De Miranda ha importato, senza dimenticare di concedersi spazi per la produzione propria. Il repertorio, appunto, è una miscela di composizioni originali dell'artista nordestino, assolutamente a proprio agio quando può eseguire se stesso, liberando la sua possente impronta musicale, e di standard notissimi al grande pubblico (che, indubbiamente, finiscono per limitare e stringere la sua verve). L'approccio al live fluttua tra xaxado e samba, due ritmi diversi che riescono, però, a sottolineare la versalità interpretativa del chitarrista, ormai adottato dall'Italia e, specificamente, dalla Toscana, dove risiede da un po' di anni. Due pezzi senza accompagnamento e, quindi, sale sul palco Bosso, solido sulla propria arroganza tecnica, talvolta irridente nella sua accademia. Lo spirito latino di "Triste", di "Só Danço Samba" e di altri titoli si incrocia così con fraseggi be bop, oppure con dinamiche blues, lasciando terreno aperto agli istinti che sorgono sul momento ai protagonisti. Ma, lo ripetiamo, i passaggi più alti e più intensi scorrono sulle note di pezzi come "Jogada de Bola" (un omaggio di Márcio Rangel a Mané Garrincha, leggenda in dribbling del Botafogo e della Seleção), "Dois Amores" («Due amori: per la vita e per la musica», chiosa con sorriso impertinente il brasiliano) e, soprattutto, "Arena", un tributo alla Spagna e ai suoi chitarristi. Certo, lo sappiamo: il pubblico preferisce sempre ascoltare quello che già conosce e in tanti, ne siamo consapevoli, non concorderanno : però, la nostra opinione è questa e tanto basta.
Il concerto si esaurisce, dunque, nella leggerezza di una parata nel mezzo della platea: un trucco antico, ma sempre gradito da chi ascolta e assiste, per salutarsi e - soprattutto - per chiudere la terza rassegna del club martinese pilotato da Michele Lillo e Roberto Liuzzi, che anche quest'anno ha voluto coniugare esperienze e stili musicali differenti tra loro. Con la promessa di riprovarci anche dopo l'estate: che, di per sè, non è un fatto per nulla scontato, di questi tempi. In cui, pure a queste latitudini, parecchi gestori sono costretti a chiudere le porte alla musica dal vivo, per meri motivi economici. Quelli che dettano le condizioni e, sempre più spesso, le agende.

Márcio Rangel (chitarra) & Fabrizio Bosso (tromba)
Martina Franca (TA), Engine Club

sabato 26 maggio 2012

La strada nuova di Davide Berardi



Le prime e neppure lontane esperienze, sul filo della musica popolare, gli servono ancora. Perchè, di fatto, non ha mai tranciato definitivamente ogni contatto con quell'universo terragno e verace di versi e accordi. Perchè le radici (artistiche, ma non solo quelle) sono una condizione naturale, da cui è disagevole allontanarsi. E poi perchè i chilometri condivisi prima con i Cantinaria e, successivamente, con gli Appia Folk Ensemble e, perchè no, anche quelli con gli Elfolk sono un patrimonio personale spesso e denso, cioè indelebile. Ma Davide Berardi, oggi, rincorre le strofe più variegate, gli umori e i sapori più affettati della canzone d'autore. Di altrui produzione (è passato per la rivisitazione dell'opera di istituzioni autentiche quali De Andrè, Gaber e Modugno), ma anche assolutamente originale. Giocando, magari, sempre sul confine immaginario che separa quello che è stato (i vecchi progetti che lo hanno formato e incoraggiato) da quello che sarà (il suo nuovo itinerario musicale). Perchè ad attenderlo dietro la curva c'è la strada del cantautorato: questo è chiaro, ormai.
Il ragazzo, martinese di origine e crispianese di adozione, si è peraltro affinato, con il tempo. Dotandosi di coordinate. Scegliendo il proprio corso. Provando a metterci sempre di più del proprio. A concedersi il piacere di scrivere, di creare. L'album Cantinaria (2008) fu, del resto, un primo passo ricognitivo: ancora in bilico tra la popolare e la cantautorale, in verità. Che, però, già lasciava immaginare l'evoluzione di un chitarrista che si accompagna con la voce. Ma Chi Si Accontenta Muore, appena prodotto da Corte dei Miracoli, licenziato dall'etichetta Free-D Music e sostenuto da Puglia Sounds, è a tutti gli effetti il primo disco marchiato dal nuovo indirizzo artistico. E che ovviamente si allontana, nello spirito e nei contenuti, da Balla Ancora, una raccolta di brani della tradizione selezionati nel 2011, rigorosamente live, che costituiscono un vero e prorpio diario di viaggio intrapreso con gli Appia Folk. Un rigurgito della vita precedente, ecco.
Chi Si Accontenta Muore, dieci tracce che verranno peraltro presentate ufficialmente, per la prima volta, in un live organizzato alla Masseria Sant'Elia, nelle campagne comprese tra Martina e Locorotondo, è un lavoro che mescola un po' di ballate, qualche testo di vasto respiro e anche tre pezzi, diciamo così, parzialmente dialettali. E' il caso di "Mia Terra", un viaggio in treno sulla strada del ritorno, destinazione sud, di "L'Amore di Lunetta" e, infine, di una storia di cafoni fuorilegge come "Lu Brigante", frutto di un'idea probabilmente già abbastanza sfruttata dalla musica italiana che insegue la tradizione, ma ugualmente godibile e snella. Sullo sfondo, qua e là, varia umanità, storie di vincenti e perdenti e, infine, un omaggio al Brasile: "Copo e Cristal" ("Bicchiere e Cristallo"), che l'autore confessa di amare profondamente, è un testo che naviga tra l'italiano e il portoghese e che racconta di un sogno vero, perfettamente aderente alla realtà personale di Davide Berardi. Assistito, in sala di incisione, dal chitarrista Antonello D'Urso (che cura anche gli arrangiamenti con Vince Pastano), dal bassista Mino Indraccolo, dal fisarmonicista Giancarlo Pagliara (pure al piano, per l'occasione), da Bruno Galeone  (fisarmonica), da Francesco Ferrara (ai fiati) e dal batterista Francesco D'Amicis. In soccorso dei quali, peraltro, spuntano le incursioni di Eugenio Bennato, Roy Paci, Mario Rosini, Camillo Pace e Fabrizio Luca.
Davide (che, sarà utile sottolinearlo, vanta pure qualche esperienza teatrale: con Raffaele Zanframundo in Mondo G, un tributo a Gaber, con il fratello Gianfranco Berardi in Io Provo a Volare, un testo che si accompagna ai classici di Modugno, e con Rita Greco in Io Cammino) cerca una postura, una collocazione tutta sua. Rifacendosi ai miti del suo nuovo mondo. Rubacchiando idealmente (non è un reato) qualche tonalità (o, semplicemente, qualche timbro) a Faber e a altre figure di primo livello, se non ci siamo sbagliati. Quella che esce, comunque, è una manciata di composizioni sufficientemente ispirate, intelligenti. Come, ad esempio, "Cinque Minuti", "Senza Dire Niente", "Il Filo", "Cento e Mille", la divertita "Addio del Celibe" o la stessa "Ninnarella". Concepito tra la Puglia e l'Emilia, Chi Si Accontenta Muore sembra però un disco già maturo. Che incuriosisce anche per quel titolo ironico, che tanto ironico - in fondo - non è. «Accontentandosi sempre, si rischia di perdere la soglia minima garantita», chiosa l'autore. «In un momento in cui il Paese è sull'orlo del burrone, peraltro. Anzi: accontentandosi sempre, si rischia di morire prima del tempo». Già. Meglio pretendere, allora. Da se stessi, per cominciare.

Chi Si Accontenta Muore (Free-D Music, maggio 2012)
Davide Berardi (voce e chitarra), Antonello D'Urso (chitarra), Vince Pastano (chitarra), Mino Indraccolo (bassi), Giancarlo Pagliara (fisarmonica e piano), Bruno Galeone (fisarmonica), Francesco Ferrara (fiati) & Francesco D'Amicis (batteria e percussioni). Guest Eugenio Bennato (chitarra), Roy Paci (tromba), Mario Rosini (piano), Camillo Pace (contrabbasso) e Fabrizio Luca

domenica 29 aprile 2012

Note Sonanti, la collana si allarga

Nostalgie de l'Avenir. Note di Stefano Maurizi, pianista cresciuto all'ombra di Luca Flores che si è avvicinato al circuito jazzistico parigino e che, proprio nella capitale francese, lo scorso novembre, ha registrato in studio l'intero lavoro discografico, appena licenziato da Note Sonanti, l'etichetta martinese di Pasquale Mega. La cui collana, così, si allarga velocemente (è il quinto titolo, collezionato nel breve spazio di quattordici mesi). Il disco (otto tracce, sette originali e una, "Avec le Temps", firmata da Léo Ferré e arrangiata da David Venitucci) spiega il fermento che, attualmente, influenza la scena artistica di Parigi ed è idealmente dedicato alla musica di Arvo Pärt: carico di atmosfere spirituali, tra tonalità etniche e linguaggi più jazzistici coinvolge pure il già citato fisarmonicista David Venitucci, il batterista Antoine Banville e il pugliese Mauro Gargano, che lungo la Senna ha modellato il suo percorso artistico, maturando le esperienze utili a fortificarne il talento. Quello stesso Mauro Gargano che, peraltro, aveva firmato la precedente e recentissima produzione di Note Sonanti, Mo' Avast Band, una raccolta di dieci composizioni interpretate in compagnia del sempre più interessante Francesco Bearzatti (al sax tenore e al clarinetto), di Stéphane Mercier (al sax alto) e di Fabrice Moreau (batteria). Accanto ai quali spunta, in due tracce, l'apporto del pianista Bruno Angelini.
«Mo' Avast - spiega nelle note di copertina il contrabbassista barese - è una formula che ho gridato spesso, in passato, e che mi ha dato la forza di partire, fare, creare, cambiare molte cose della mia vita e anche in me stesso e nella mia musica. Una esclamazione idiomatica della mia terra che può servire quanco la realtà ci annoia, ci aggredisce o ci costringe in qualche schema. Ma Mo' Avast è, per me, un'urgenza espressiva fortemente artistica, un canto libero, è l'amore per la musica, l'antidoto alla prevedibilità. In questo disco, ho cercato de salvaguardare la freschezza e la spontaneità, anche a costo di cadere in qualche imprecisione formale». «Il lavoro di Mauro - confessa invece Pasquale Mega - mi ha attratto moltissimo, sin dalla prima volta che l'ho ascoltato. Credo che sia uno degli album più intriganti che abbia ascoltato, ultimamente. E ritengo che aderisca perfettamente alla linea editoriale dell'etichetta: la ricerca della qualità, del resto, ha ispirato sin dall'inizio questa mia nuova avventura all'interno del panorama jazzistico».
Linea, vale ricordarlo, inaugurata con Ettore Fioravanti e il suo Le Vie del Pane e del Fuoco, proseguita con l'incontro tra il trio del trombettista Marco Tamburini del Vertere String Quartet (ne abbiamo già parlato diffusamente) e incalzata da Iguazú, dove i fiati di Javier Girotto hanno incrociato la fisarmonica di Luciano Biondini (in questo caso, al cd si è aggiunto pure un dvd registrato dal vivo in Ucraina).








venerdì 9 marzo 2012

Kusminac, quando le note corrono più del nome


Nome e origini sono spudoratamente serbe. Ma l'artista e il prodotto musicale dichiaratamente italiani. Italianissimi. Goran Kuzminac arriva (molto giovane) da Zemun, ma si forma tra il Trentino e il Veneto, passando anche per le contrade d'Austria. E, abbastanza presto, decide di tentare la strada del cantautorato, malgrado la laurea in medicina: gli anni settanta e il profumo del piombo stanno scivolando via e la decade nuova non promette molto di buono. Però, le parole non mancano. E la verve intellettuale riesce ancora a germogliare, tra le Alpi e il Mediterraneo. Molto più di oggi. Il ragazzo di allora, che oggi è un cinquantanovenne brillante, si affaccia alle prime sfide televisive, nei mangianastri, nelle frequenze radio di un Paese già debilitato dalla storia, ma ancora sostanzialmente credibile. Il cognome, tuttavia, è ostico. E le sue canzoni non sono politicizzate. Ballate placide, intrise di illusioni e fotografie di diffusa tenerezza, talvolta. La sua notorietà cresce, ma non deborda. Non è De Gregori, non è De Andrè. E neppure Dalla. Con il quale, pure, collabora. Prestandosi, peraltro, ad interagire con Ivan Graziani ed Angelo Branduardi, per rischiare un altro paio di figure di peso. Resta, allora, l'autore di nicchia che è: una condizione che, adesso, non sembra neanche disturbarlo. Consapevole com'è della realtà («Quanti di voi mi conoscono»?).
Eppure, anche nel live di Fragagnano, qualche sua creazione ricorda qualcosa, al pubblico più largo. Arrivano, come spesso accade, prima le note. E poi le generalità di chi le ha messe assieme. Cioè, un signore arguto che tiene bene il palco, con cortesia, ma senza formalità. Il tono è di quelli colloquiali, stretti, sinceri. E anche l'atmosfera che si addensa attorno è quella giusta. Merito, anche, dell'Osteria Quattro Venti che, tra un momento e l'altro dedicato tradizionalmente al jazz, trova lo spazio per il cantautorato di emozioni. Che di questi tempi, in Italia, possiede meno angoli di una volta, schiacciato com'è da cover band, programmazioni dozzinali e recessione galoppante. Pure il format della serata, del resto, contribuisce. Chitarra (pizzicata, con il metodo fingerpicking) e voce: Kuzminac, preceduto da una breve esibizione del cantautore tarantino Leo Tenneriello, sembra uno di quei folksinger di quattro decenni addietro. Dagli accordi, sfilano studenti di Amburgo, bionde francesi, facce che si incontrano sul Mississippi, racconti semplici, un po' di goliardia, ricordi e vecchi successi. Sì, perchè spartiti come "Tempo" e "Stasera l'Aria E' Fresca" custodiscono ancora una propria dignitosissima collocazione nel panorama della canzone italiana.
«"Tempo" - racconta lui - è un testo nato per gioco o per caso, nel 1981. Non lo scrissi perchè finisse in un disco: era, in realtà, un omaggio personale ad una donna. Che piacque e che poi, con il passare dei mesi, io stesso ho imparato ad apprezzare di più. Scoprendo che non era poi così male come credevo in un primo momento. Era e resta una canzone piena di vita, divertente». Trentacinque anni di carriera. E non sentirli, si dice in casi come questo. Venati di ironia. «Sono passato direttamente dallo status di giovane promessa a quello di cantautore storico. Mi manca, però, il passaggio centrale, quello dell'autore ricco e famoso. Ma sono un idealista, non c'è nessuna major che mi protegge e mi spinge. E, se conoscono le mie canzoni e non il sottoscritto, non è un problema». Tra i ritagli di piccole quotidianità e incontri indelebili, spunta persino l'anima reggae e un omaggio a Graziani. Ma pure un tributo alla sua gente, ai musicisti di ieri, di ora, di sempre. «"Mercanti di Niente" è una canzone - spiega - che ci ricorda quanto le emozioni abitino nell'arte, quindi anche nella musica, ovvero nel lavoro e nel travaglio di chi la crea». Già. Ma raccontare questa storia si fa sempre più difficile. Nei piani alti, nel frattempo, le porte si chiudono.

Goran Kusminac (voce e chitarra)
Fragagnano (TA), Osteria Quattro Venti

giovedì 1 marzo 2012

Il nuovo tango di Puglia


Il tango, quello della tradizione, è sempre dentro. Ma, ormai, davanti si spalanca una strada diversa. Artisticamente più attraente. Che, intanto, sempre dal tango parte. Ma che, in realtà, risponde anche e soprattutto ad una necessità di rinnovamento, di rivisatazione, di composizione, di ramificazione: in altre situazioni stilistiche. Che, peraltro, arricchiscono, completano. Offrendo un orizzonte più ampio. Il nuovo percorso del Nuevo Tango Ensemble, già ufficialmente inaugurato con Tango Mediterraneo, è irrobustito da D'Impulso, il cd licenziato nell'estate del duemilaundici dall'etichetta tedesca Jazzhaus Records che Gianni Iorio (da Foggia, al bandoneón), Pierluigi Balducci (da Corato al basso) e Pasquale Stafano (da Stornarella, è il pianista) hanno presentato al pubblico dell'Associazione Amici della Musica "Orazio Fiume" di Monopoli. Assistiti, peraltro, da un guest di fama e pregio come il clarinettista Gabriele Mirabassi e dal batterista napoletano Pierluigi Villani.
D'Impulso è un progetto che, dicevamo, affiora dal tango: approdando al jazz e anche alla musica popolare, attraverso un disegno improvvisativo interessante e, innanzi tutto, in coda ad un impegno compositivo che lascia parecchio spazio al profilo melodico. Particolare che, in situazioni di questo tipo, non dimentica mai di catturare la platea. E', cioè, un bel disco che sfocia in un concerto puntellato di emozioni, di vibrazioni, di buon gusto, di eleganza naturale. Certo: chi, magari, attendeva i profumi immortali dei classici si è ritrovato un po' spiazzato: anche perchè la formazione nasce (nel millenovecentonovantanove) rielaborando e riarrangiando titoli più o meno unanimemente conosciuti. Spiazzato: ma non per questo deluso, immaginiamo. Perchè, così, ha finito per imbattersi in un repertorio solido, fresco, gravido di buone intuizioni e di ottime intenzioni. Proprio perchè il Nuevo Tango Ensemble punta, giustamente e segnatamente, sulla qualità dello spartito. Sdoganando, nella serata monopolitana, appena due brani non originali: "El Choclo" e la piazzollana "Oblívion", ovvero il bis che chiude il live consumatosi all'Auditorium di Canale 7.
«Il futuro del quartetto è la produzione originale. Questo è il cammino che i miei amici volevano intraprendere, da tempo: l'hanno fatto, già dal duemilaotto, con il lavoro precedente. E hanno fatto bene, ritengo. Perchè possiedono sensibilità, idee, talento»: Mirabassi, tra la consueta frequentazione dei palcoscenici della penisola e una full immersion in Sud America, benedice la scelta. «Alla quale sono felice di aver offerto il mio contributo. Solo esterno, nel caso di D'Impulso, perchè presto il mio modo di fare musica esclusivamente nelle esecuzioni dal vivo. In questo disco, infatti, non ci sono (nel precedente album, invece, sì. Mentre questa volta, in studio, l'ospite è altrettanto accattivante: Javier Girotto, ndr). Al di là di questo, i loro meriti sono cristallini: se non altro, perchè ad un certo punto hanno intuito che era il momento di saltare l'ostacolo, di fare da soli, di rischiare qualcosa in più. Di darsi delle coordinate diverse. Del resto, mi trovo spesso in Argentina, dove suono con alcuni artisti locali. E lì il nuovo tango è un'abitudine consolidata. Certo, per la gente d'oltre oceano è più semplice: vivono a stretto contatto con il tango, da sempre. E questo genere fa parte della loro cultura, del loro dna musicale. Ma è bene che, anche da noi, si cominci a ragionare in questo senso».

Nuevo Tango Ensemble (Gianni Iorio: bandoneón; Pasquale Stafano: pianoforte; Pierluigi Balducci: basso). Guest Gabriele Mirabassi (clarinetto) e Pierluigi Villani (batteria)
Monopoli (BA), Auditorium di Canale 7
Stagione Concertistica 2011/2012 dell'Associazione "Amici della Musica Orazio Fiume"