mercoledì 20 dicembre 2006

Dischi - Forward (Ettore Carucci)

Forward: per ripetersi. E confermarsi. Ettore Carucci torna a scrivere musica. E a suonare. Il prodotto è un cd appena griffato dalla Dodicilune di Gabriele Rampino, etichetta discografica leccese che preferisce orientarsi sulle produzione di buona qualità e che, ultimamente, ha incoraggiato le idee e diffuso gli spartiti di diversi musicisti rampanti di casa nostra. Da Raffaele Casarano (con Legend) a Pierluigi Balducci (con Leggero, realizzato dal suo Small Ensemble), da Rino Arbore (con Après la Nuit) ad Andrea Sabatino (con Pure Soul, arricchito dalla presenza di Fabrizio Bosso), da Vincenzo Deluci (con la deliziosa La Rana dalla Bocca Larga, del 2003) al pianista brindisino, ma ormai emigrato a Parigi, Nicola Andrioli (il disco è Alba). Torna a incidere, Carucci: e lo fa a meno di un anno di distanza dalla pubblicazione di I Way I Like (edito da Goody Music), album che ci piacque non poco, pensato assieme al batterista Francesco Lomagistro e pubbliczzato con qualche data live nel corso dell’ultima estate. Segnale, questo, evidentemente positivo: in quanto utile a ribadire l’attuale verve creativa del pianista tarantino, da un po’ di tempo particolarmente ispirato e, soprattutto, saturo di motivazioni. Ampiamente dimostrate, ad esempio, anche nel corso di Antiphonae Jazz 2006, a Locorotondo, in una della cinque date della rassegna: dove ha supportato con brio, eleganza e puntualità il già citato Raffaele Casarano nel viaggio musicale intrapreso con gli archi del Vertere String Quartet. Forward, intanto, è un’altra storia. Scritta con amici nuovi (i pluridecorati Ben Street al basso e Adam Cruz, già sodale di Chick Corea, alla batteria) e totalmente eseguita in live session, ad aprile, in un Teatro Paisiello (a Lecce) vuoto, ma acusticamente perfetto. Il lavoro, mixato da Valerio Daniele e sponsorizzato da Jazle, che poi è uno dei contenitori jazzistici più interessanti di Puglia e parente strettissimo della Dodicilune, si divide in nove tracce, di cui solo quattro (“Autumn Leaves” di Prévert e Kosma, “Lonnie’s Lament” di John Coltrane, “Bye Bye Blackbird” di Andreson e “Dolphin Dance” di Herbie Hancock) possono fregiarsi del titolo di cover. L’impronta di Carucci, invece, si poggia sulla fresca “I Remember Monk”, sull’intima e curata (a dispetto del titolo) “Confusion”, sulla minimalista “Piano Impro#1” (peraltro seguita da “Piano Impro#2”) e, infine, sulla dolce e raffinata “My Favourite Eyes”. Dicevamo: Ettore e i suoi nuovi amici. Già visti e ascoltati, proprio a Lecce, all’interno del cartellone di Jazle, al fianco del pianista venezuelano Edward Simón. E compenenti tradizionali del trio di Danilo Perez: dunque, niente affatto sconosciuti agli appassionati del settore. Il contrabbassista newyorchese Ben Street, oltre tutto, è atteso, nel prossimo febbraio, a Terni Jazz, con il quartetto di Aaron Parks. La perizia – sua e di Cruz - all’interno del disco è peraltro evidente, pregnante. E il risultato finale è un lavoro elegante e sobrio, talvolta anche brioso (è il caso della versione di “Lonnie’s Lament”): in cui emerge la cura dei particolari che timbra il prodotto ultimo, rifinito e accattivante, mai ostico, ricco di sfumature, vario. Ingredienti che lo spingono ad occupare un posto nell’elenco dei migliori album presentati nel corso dell’anno da autori pugliesi. Il cui livello medio, detto per inciso, continua a convincere la critica e, soprattutto, gli artisti dotati di nome che arrivno da oltre confine. E che, sempre più numerosi, accettano collaborazioni più o meno impegnative. Segno inequivocabile di un movimento che si confronta, che fermenta, che cresce. Senza conoscere flessioni: questa terra può trarne orgoglio.

Forward (Dodicilune, 2006)

Ettore Carucci Trio (Ettore Carucci: pianoforte; Ben Street: contrabbasso; Adam Cruz: batteria)

(pubblicato sul sito www.levignepiene.com)

venerdì 15 dicembre 2006

Sapori forti di Lucania

L’impegno sociale, le battaglie, la quotidianità dei cafoni, la questione meridionale, le terre amare, il destino dei dimenticati, la schiavitù contadina. Il poeta neorealista e il sindaco di provincia: Rocco Scotellaro, ieri. I versi e la figura, il pensiero e il messaggio, umano, ancor prima che politico: Rocco Scotellaro, oggi. Tra gli spartiti appassionati dell’Antonio Dambrosio Ensemble e l’omaggio – a cinquantatre anni esatti dalla scomparsa dello scrittore di Tricarico – di Antiphonae Jazz 2006. Tra le note di un progetto ormai rodato (perché inaugurato in estate) e il respiro ampio di un concerto scandito da rabbie antiche e dolori inevasi. Quello che chiude la serie, rimadando all’anno che verrà. Il quinto e ultimo di una rassegna sopravvisuta anche (e, a questo punto, diremmo soprattutto) per chiarire un concetto: non è necessario rincorrere, sempre e comunque, nomi e cognomi pregiati per sostenere il cartellone. Perché costruire una programmazione convincente con i musicisti di questo angolo d’Italia si può. Puntando sulle idee, innanzi tutto. E incoraggiandole. Anche se qualcuno non se n’è accorto. O ha finto di farlo. Rocco Scotellaro e il suo bagaglio di testimonianze. Alcune delle quali ripercorse dalle voci narranti di Francesco Tammacco e Matilde Bonaccia. E, dietro, un quartetto d’archi (Giuseppe e Vito Amatulli, Domenico Mastro e Vanessa Castellano, ovvero la musica nobile), due fiati (Achille Succi e Nicola Piovani, puntuali e asciutti), un contrabbasso e un piano (Camillo Pace più Pasquale Mega, cioè l’anima jazzistica), un polistrumentista (Pino Basile, cioè la faccia popolare della formazione) e un elemento di raccordo (Antonio Dambrosio alla batteria e alla direzione, oltre che alla composizione). L’ottavo percorso di «Antiphonae», dunque, si esaurisce così, fortificando l’intuizione che l’ha innervato sin dal primo momento: quella di viaggiare attorno al jazz, corteggiandolo e perforandolo, lambendolo e strisciandolo. Contaminandolo e arricchendolo. Senza mai abbandonarlo definitivamente. Si esaurisce, sì, ma lasciando un sapore buono. Con un live sempre pronto ad allargarsi verso umori diversi, sempre pronto ad aprirsi a sonorità persino distanti tra loro. E altrettanto abile a riguadagnare i binari jazzistici, proprio quando sembrano essersi dissolti (il ruolo specifico di Mega e Pace, del resto, è proprio quello). Concerto sempre fluido, tuttavia: e non inganni la presenza di due voci recitanti o la matrice poetica della serata. Fluido e vario, mai stantio o imbavagliato. Spesso di sapore forte, come la terra di Lucania. E di collocazione (e, magari, anche lettura) non semplicissima, è vero: perché ora un po’ austero e ora immediato, perché talvolta dolce e talvolta spigoloso. E, in certi passaggi, persino nervoso, ma sempre lucido, digeribile. E, ci è parso di capire, anche intriso di cuore: particolare che non dispiace, nemmeno ai meno romantici. Come non dispiace l’ormai imminente pubblicazione di un cd («Sempre Nuova è l’Alba») che insegue i passi di un progetto di parole e musiche disposte a combinarsi ordinatamente, diligentemente. Ma con il vigore proprio delle genti lucane, quelle delle pagine di Scotellaro, scomparso troppo presto. Con il vigore e la robustezza della «turba dei pezzenti, quelli che strappano ai padroni». Quella gente di quella patria, dove l’erba trema.

Antonio Dambrosio Ensemble (Antonio Dambrosio: batteria e percussioni; Pasquale Mega: pianoforte; Achille Succi: clarinetto e sax alto; Nicola Pisani : sax alto; Camillo Pace: contrabbasso; Giuseppe Amatulli: violino; Vanessa Castellano: violino; Domenico Mastro: viola; Vito Amatulli: violoncello; Pino Basile: tamburi a cornice e cupa cupa)
Locorotondo (BA), Auditorium Comunale
Antiphonae Jazz 2006

(pubblicato sul sito www.levignepiene.com)

domenica 3 dicembre 2006

O Rei do Bandolim

Taranto, talvolta, si risveglia da un torpore atavico e dilagante. E diventa la casa di un evento. Segno che la speranza va coltivata, sempre e comunque. E chi cerca live importanti, per l’occasione, deve ringraziare l’intuizione e l’offerta del Ramblas, un musiclub che si è ripromesso di organizzare anche qualche appuntamento di spessore specifico, utile a riscaldare le serate d’inverno. O, più segnatamente, Gianluca Guastella, che – supportato dal lavoro di Antonio Esperti - ha voluto sul palco di via Regina Margherita Hamilton de Hollanda, brasiliano di Rio traslocato giovanissimo a Brasília, re incontrastato del nuovo “choro”, stile musicale antecedente la bossa nova e a metà strada tra il dotto e il popolare, ed erede designato di Jacob do Bandolim. Che, dello “choro”, è stato interprete pregiato e anche punto di riferimento unanimemente riconosciuto per decenni. L’artista è un artista vero. E precocissimo: a cinque anni comincia a suonare il bandolim, che poi è il mandolino utilizzato in Brasile per proporre lo “choro”. Un mandolino che si accorda come un violino e che cambia la vita al ragazzo. Precoce anche a formare un gruppo musicale (un duo, il «Dois de Ouro», con il fratello, a undici anni) e a guadagnare titoli e ingaggi. Basta sentirlo, per capire il perché. E bastano pochi secondi, per scoprirne la tecnica altissima e la capacità forte di comunicazione. Per catturare la grande quantità di note e di suoni distribuiti con sette corde, squillanti e assolutamente autonome. Tanto da rendersi sufficienti senza accompagnamento. Perché, al «Ramblas», Hamilton de Hollanda si esibisce da solo. E, ovviamente, in acustico. Perché quel bandolim può fidarsi esclusivamente di se stesso, senza temere. E riempire la platea, plagiandola. L’artista è un artista geniale. Che, a trent’anni, usa lo strumento come potrebbe usare un’orchestra. Assicurando forma, corpo, sfumature. Il bandolim rincorre e si fa rincorrere, diventa incalzante, dirige ed esegue, è ritmo e passione, è il mezzo ed è il fine ultimo. Ed è anche percussione, quando serve: cassa armonica naturale, pronta a rispondere alle mani che battono sul legno, con sapienza. Il concerto è serrato, vivido, vissuto. E si sviluppa ben oltre i confini dello “choro”. Pescando avidamente nel contenitore infinito e variegato della MPB, la musica popolare brasiliana: “Samba do Avião”, ad esempio, è uno dei classici di Tom Jobim; “Feitiço da Vila” è una delle canzoni più intriganti dell’antico Noel Rosa; “Beatriz” è una delle saltuarie e felicissime produzioni a quattro mani di Chico Buarque de Hollanda e Edu Lobo; “Disparada” è musica sanguigna firmata da Geraldo Vandré, autore che Italia non dice nulla, ma che nel Brasile dei militari e della dittatura si è ritagliato un’angolo di notorietà, molte torture fisiche e irreparabili guai personali. Non solo: Hamilton cerca stimoli nell’Argentina di Astor Piazzolla, con la versione di “Adiós Nonino”, e nel repertorio di Andrea Morriconi, con “Tema d’Amore”. Solidificando quel processo di apertura del proprio cammino artistico, che l’ha condotto (e lo sta tuttora conducendo) a collaborazioni differenti: ultima, ma solo cronologicamente, quella con Hermeto Pascoal. Che, del ragazzo con il bandolim, racconta: «E’ un musicista nato con una dote: tutto è facile, per lui. E, anche se viene dalla scuola di Jacob do Bandolim, va al di là dei confini della musica tradizionale, proponendo un rinnovamento dello “choro”». Particolari, questi, che peraltro non cancellano il valore simbolico del prologo del live, cioè l’esibizione di Federico Di Viesto e Giovanni De Palma, chitarristi e – soprattutto - mandolinisti di San Vito dei Normanni, più saldamente ancorati al concetto di musica dichiaratamente popolare, forte e saporosa come la terra di Puglia. Protagonisti più oscuri, virtuosi di provincia: orgogliosi di quel “Conte di Lussemburgo” che, nell’ottocento, era considerata la serenata più efficace. Memorie storiche di polke e romanze che sopravvivono ancora, testimonianze di resistente cultura contadina. Lontane dallo “choro” e dalle sue evoluzioni: eppure così accattivanti. Testimonianze irriducibili, con una propria storia, poggiata in un altro continente: ma, se ci pensate bene, più vicina all’altra di quanto possa apparire.

Hamilton de Hollanda (bandolim)
Taranto, Ramblas Musiclub
Non So(u)l Jazz

(pubblicato sul sito www.levignepiene.com)

venerdì 1 dicembre 2006

Il momento di Casarano

Dicono che è il suo momento. Che cresce velocemente, che può affrontare il domani. Ed è vero. Raffaele Casarano, intanto, sgomita e amplia il suo orizzonte. Sì, è il suo momento: inaugurato, la primavera passata, con «Legend», album fresco e godibile partorito dalla collaborazione con il contrabbassista Marco Bardoscia, il pianista Ettore Carucci e il batterista Alessandro Napolitano (cioè i Locomotive) e rifinito con l’apporto blasonato di Paolo Fresu e dell’Orchestra del Conservatorio “Tito Schipa” di Lecce: particolari inequivocabili che custodiscono intenzioni solide e rampanti. E proseguito con la direzione artistica (di più: con l’ideazione e la successiva organizzazione) del Locomotive Jazz Festival, happening concentratosi in estate a Sogliano Cavour, pieno Salento, dove Raffaele Casarano – cresciuto nel solco della passione per Charlie Parker - gioca in casa. A cui neppure la pioggia (due giorni sui tre di programmazione) ha voluto sottrarre il velo di soddisfazione e orgoglio. Il suo momento è questo: perché il ragazzo sta attirando attenzioni e critiche molto più che confortanti. Perché il suo nome circola e decolla. Perché di lui, e non solo in Puglia, si comincia a parlare, con parole serie e buone. Perché i progetti, lentamente, si moltiplicano: nuovo (e più o meno imminente) lavoro discografico a parte, ovviamente con gli stessi compagni di percorso, stuzzica la stoica ricerca di un’evoluzione artistica, che non si accontenta di esplorare sentieri iperbattuti e sicuri. Prendete il live di Locorotondo, inglobato nel cartellone di Antiphonae 2006, rassegna intelligente e frizzante, ma anche un tantino snobbata dal pubblico e, soprattutto, dagli operatori dell’informazione (sotto questo aspetto, il salto di provincia – da quella di Taranto a quella di Bari – non ha pagato: gli antichi partner mediatici non sono stati sostituiti). Sul palco dell’Auditorium Comunale i Locomotive hanno incontrato il Vertere String Quartet, gruppo di impostazione classica (due violini, una viola, un violoncello) che, da tempo, gravita attorno al mondo della contaminazione attenta (ovvero discreta, ponderata) e delle modalità jazzistiche rivedute e corrette: come l’ormai robusta e datata collaborazione con Javier Girotto conferma. Casarano, Locomotive e Vertere: mondi apparentemente lontani, ma immediatamente vicini. Per un concerto che ha ribadito le potenzialità del sassofonista salentino e del suo gruppo e che ha convinto Giuseppe Amatulli e soci (i Vertere, appunto) a insistere. Tanto che il progetto (la prossima data è fissata al Ramblas Musiclub di Taranto, il 9 dicembre prossimo; gli altri appuntamenti vanno definiti) si svilupperà. Un concerto equilibrato e ben assemblato che, contemporaneamente, ha voluto ripercorrere qualche passo di Legend, la prima fatica discografica a proprio nome di Casarano (ad esempio, con la versione di “O Que Será”: un angolo di Brasile non guasta mai), anticipare quel che verrà (“Waltz for Nina”, scritto da Marco Bardoscia, entrerà di diritto nel prossimo cd), omaggiare amici importanti (l’apertura è un tributo a Javier Girotto, autore di “La Poesia”), salutare le radici popolari della musica pugliese (con “Lu Rusciu de Lu Mare”, arrangiata dal galatinese Simone Borgia), sfruttare la musica per dediche familiari (ecco, allora, “I Love My Life”) e tuffarsi nel blues più accattivante (bella la versione di “No Money”). E che, soprattutto, ha saputo avvicinare le due anime salite sul palcoscenico, proponendo – è meglio ricordarlo – artisti pugliesi. Centrando l’obiettivo di partenza: senza timore alcuno di smentita.

Raffaele Casarano (sassofono), Locomotive (Ettore Carucci: pianoforte; Marco Bardoscia: contrabbasso; Alessandro Napolitano: batteria) & Vertere String Quartet (Giuseppe Amatulli: violino; Ida Ninni: violino; Giuseppe Grassi: violoncello; Domenico Mastro: viola)
Locorotondo (BA), Auditorium Comunale
Antiphonae Jazz 2006

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)