domenica 11 agosto 2013

Il Brasile del Locus

Il fascino del nome, quello di Jaques Morelenbaum, è molto più che sufficiente per invogliare appassionati, musicisti e un pubblico più vasto a riempire la piazza. Che, in questi giorni di estate piena, si affolla peraltro assai facilmente. Il violoncellista carioca è un cult: per aver assistito, in sala di registrazione e sul palco, gente come Tom Jobim, Caetano Veloso, Milton Nascimento, altri big della scena brasiliana, la fadista Mariza e, particolare che gli ha assicurato notorietà senza confini, pure Sakamoto. Tutte notizie, queste, che si incontrano automaticamente nelle biografie replicate della rete e nelle presentazioni che precedono il concerto. Ma che servono, se non altro, a limitare l’introduzione e a guardare oltre. E, cioè, al live del suo trio, il Cello Samba, integrato dalla performance di Paula Morelenbaum, ex corista del già citato Jobim, vocalist ancora assai ancorata alla bossa universalmente più conosciuta e, contemporaneamente, compagna di vita dello stesso Jaques. Esibizione dal vivo che, per inciso, il dieci agosto ha chiuso la nona edizione del Locus Festival di Locorotondo e, di conseguenza, anche la tregiorni dedicata dalla rassegna firmata Bass Culture alle sonorità che arrivano dal Brasile, ultima tranche di un percorso fratturatosi in tre differenti momenti. E che, prima, ha toccato il pop, il soul e le sue derivazioni (con Cody Chesnutt, Robert Glasper e Peter Cincotti) e, successivamente, il jazz più o meno contaminato (con Fresu, Ferra e i Locomotive e il trio di Joe Barbieri, di cui abbiamo già parlato in un post precedente).
Morelembaum, giunto per entrare compiutamente nei dettagli, è esattamente l’artista di qualità che ci saremmo attesi di ascoltare: asciutto, versatile, inappuntabile. Ci sono, poi, gli ingredienti per un grande concerto: spartiti ben eseguiti, arrangiamenti sicuri e talvolta ricercati, ma sempre agili, mestiere consumato e ottimi punti di appoggio, come il chitarrista Lula Galvão, brasiliense che risiede a Rio e che segue il front man da diversi anni, e il misurato batterista carioca Rafael Barata. Il trio apre con un superclassico (“Samba de uma Nota Só”), ma si avventura felicemente anche attraverso composizioni, diciamo così, meno commerciali (“Avarandado” di João Donato è un esempio). Toccando, per la cronaca, anche il repertorio di Gilberto Gil , con la più conosciuta “Eu Vim da Bahia”, e abbracciando il gusto dell’autocelebrazione (in scaletta anche un brano scritto dal violoncellista fluminense). L’ingresso sul palcoscenico di Paula Morelenbaum, di cui già ricordavamo un’esibizione difettosa a Conversano, un paio di anni fa, decurta però un po’ di originalità e atmosfera, consegnando alla serata un repertorio abbastanza convenzionale e sfruttato, sempre ben confezionato (su quello, non si discute neanche, ci mancherebbe), ma prevedibile e – purtroppo - anche previsto. E sul quale, in definitiva, preferiamo glissare. Da promettente, in sostanza, la serata si riscopre vagamente incompiuta: e il dato, sinceramente, addolora. Ma tant’è: la gente, in platea, si diverte e, evidentemente, il problema è di chi, come noi, pronuncia un altro alfabeto. Amen.
Decisamente meno ovvio e stereotipato e, dunque, più intrigante dal punto di vista della proposta (ma anche meno pubblicizzato: un vero delitto) è, invece, il live centrale della sera precedente (abbiamo, del resto, già parlato dei tre giorni dedicati al più grande paese sudamericano), in cui Bianca Gismonti e Cláudia Castelo Branco, due espressioni della giovane guardia brasiliana, interagiscono e si completano dietro due pianoforti, uno sistemato di fronte all’altro. Il Duo Gisbranco è un’ottima intuizione del Locus: sono sobrie, ma vivaci. Ed eleganti, ma senza esagerare. Le tastiere colloquiano tra loro, senza sfidarsi. E, soprattutto, il repertorio soddisfa il palato: si transita da Toninho Horta a Baden Powell (bella la versione di “Deixa”), dalle composizioni originali (“Serra do Céu” è un prodotto della collaborazione tra Cláudia Castelo Branco e Marcos Campello) a quelle di Ernesto Nazareth ed Edu Lobo (intrigante la rilettura di “Pontéio”), passando anche per “Festa do Carmo”, scritta dall’immenso Egberto Gismonti che, poi, altri non è che il padre della stessa Bianca. In tutto, tre quarti d’ora di note delicate, ma anche spesse, supportate da una scenografia lieve e dalla freschezza delle protagoniste, che a metà del cammino si alzano e si scambiano gli strumenti.
E, infine, ci sembra doveroso anche ricordare lo spazio ritagliato dal Locus alla musica di Os Argonautas, quintetto barese che, in pratica, apre la strada al concerto del Duo Gisbranco. La voce di Federica D’Agostino, le chitarre di Domenico Lopez e Giulio Vinci, il contrabbasso di Alex Mazzacane e la fisarmonica e la batteria di Giovanni Chiapparino fluttuano tra le note della musica brasiliana d’autore (ecco, ad esempio, “O Quereres” e “Os Argonautas” di Caetano Veloso e “Sinhazinha” di Guinga), di quella popolare (spunta l’antico tema di “Peixinhos do Mar”), delle composizioni originali (una bossa e due fado pensati da Giovanni Chiapparino), del fado della casa madre (e qui si emigra in Portogallo, con “Alfama” dei Madredeus e “Rosa Branca”) e della morna di Capo Verde (c’è tempo per una composizione targata Cesária Evora). Il gruppo, che assai bene si è comportato nell’ultima edizione del Multicultura Festival di Recanati, possiede l’intelligenza di progettare un repertorio lontano da quelli più scontati, concedendo momenti anche raffinati. Anche per i timbri e i colori della sua vocalist, evidentemente cresciuta e modellata attorno alla figura di Teresa Salgueiro, che talvolta ricorda (e, non a caso, Federica D’Agostino sembra più a suo agio con il portoghese del Portogallo, piuttosto che con quello parlato in Brasile). Agli Argonautas, in definitiva, non sembra mancare il gusto per la ricerca: e questo è confortante, soprattutto di questi tempi, in cui persino profili musicali più solidi e rispettati si concedono sempre più facilmente al richiamo della commercializzazione e, quindi, dell’appiattimento artistico.

Locus Festival 2013
Locorotondo (BA), piazza Aldo Moro

martedì 6 agosto 2013

Il pericolo dell'omogeneizzazione

Ci avventuriamo in un argomento delicato, sfiorando l'impopolarità. Lo sappiamo bene. E rischiando di calpestare le certezze di tanti, di intralciare certe convinzioni che si arrampicano veloci, di indispettire una corrente di pensiero, secondo cui suonare e fare musica è la stessa materia, di inimicarci qualche manager dello spettacolo globale, di offendere le pur sempre meritorie operazioni di quanti organizzano eventi dal vivo, di pungere quanti preferiscono accontentarsi o, più semplicemente, chi è disposto ad applaudire sempre tutto, perchè tutto va bene. Purchè la piazza sia animata e purchè un concerto sia la colonna sonora della serata, in sottofondo, tra un drink e lo struscio. Scendiamo su un terreno sdrucciolo, di questo siamo perfettamente convinti. E confidiamo di non essere fraintesi troppo. Consapevoli di una realtà che ci inquieta non poco: il movimento musicale si sta concedendo, sempre più spesso e sempre più chiaramente, ad una massificazione preoccupante. Spettacolarizzazione, infiacchimento della progettualità, commistione selvaggia: in sintesi, la questione è qui. Dove la logica è costretta dall'urgenza, dalla necessità incontrollata di dover offrire, a qualunque costo, la novità e la diversificazione della proposta. Anche quando non è il caso e non sussistono i presupposti. Ci sembra davvero di assistere impotenti ad una rincorsa affrettata verso la nazionalpopolarizzazione. Che non miete vittime solo nella musica leggera o nel pop, come una volta. Ma che, invece, si sta impossessando pure di altre aree geografiche della musica. Come il jazz, ad esempio. Prendiamo quest'estate un po' affaticata. E soffermiamoci su un paio di rassegne di richiamo: il Locus Festival di Locorotondo e Pjazza Palmieri a Monopoli. Ben organizzate e gratificate dalla presenza di pubblico. Nonchè meritoriamente alimentate da nomi e cognomi artisticamente pesanti. E, particolare da non dimenticare, completamente gratuite: grazie, anche e soprattutto, al sostegno concreto dell'amministrazione pubblica. Due pilastri della programmazione di luglio ed agosto dell'area più centrale della Puglia. A cui, al di là di ogni analisi, spettano il consenso e la gratitudine della gente e degli addetti ai lavori: oggi, più di ieri, è tremendamente arduo proporre qualcosa e questo non lo dimentichiamo. Tanto per essere chiari. Sia il Locus che Pjazza Palmieri, per entrare nello specifico, ad un giorno di distanza l'uno dall'altro, regalano due differenti tributi alla genialità di Chet Baker, del quale ricorre il venticinquesimo anno dalla tragica scomparsa. A Locorotondo, il cantautore (e chitarrista) Joe Barbieri si allea con la tromba del beneventano Luca Aquino, una delle figure emergenti del jazz italiano di impronta più moderna, e con il calibrato pianoforte di Antonio Fresa. Ventiquattr'ore dopo, a Monopoli, l'attore Enzo De Caro, vecchio compagno di avventura di Massimo Troisi e Lello Arena, coinvolge in un reading-concerto il chitarrista napoletano Antonio Onorato, il contrabbassista Domenico Adria, il batterista Mario De Paola e il pianista Piero De Asmundis. L'idea (condivisa) è assolutamente apprezzabile. Il tema è stimolante. E il materiale non manca. Eppure, è proprio dentro i progetti che qualcosa non ci convince. La sensazione è che si voglia stanare e conseguire il consenso facile. Sino a tradire il concetto di tributo e il jazz stesso.
Dunque: Joe Barbieri è bravo. E lo dimostra anche sul palco. E' un cantautore elegante, dai toni confidenziali. Chitarra e voce, da soli, fanno persino charme. Del suo mondo, quella della canzone, conosce i tempi e le dinamiche. Ma le dinamiche, i tempi e i colori del jazz sono diversi. Il progetto, fondamentalmente, è suo. E lo modella attorno alle proprie esigenze. Finendo, così, per costringere in un angolo la tromba di Aquino: che, invece, dovrebbe essere il punto nevralgico dell'esibizione (e chi conosce la storia di Chet, non si chiederà neppure il perchè). Quella stessa tromba che, infatti, lievita appena Barbieri si assenta per pochi minuti. Il live, tecnicamente parlando, è ben suonato: ma rimane piatto, un po' floscio. E non decolla mai del tutto. Dall'altra parte, il reading di De Caro, che saccheggia alcune pagine scritte dallo stesso Baker, dopo aver riportato un intervento di Paolo Fresu, requisisce gran parte dello spazio, lasciando al trio molto accompagnamento e qualche angolo di luce (e ci può persino stare, considerate le premesse). Musicalmente parlando, da diverse angolazioni, questo concerto sembra più convincente del precedente. Manca, però, proprio la tromba: che la breath-guitar (il cui suono ricorda vagamente quello dello strumento a fiato) di Onorato non può surrogare impunemente. Malgrado lo stesso progetto nasca dichiaratamente con questi ingredienti: perchè, racconta lo stesso De Caro, nessun trombettista ha voluto azzardare il paragone con Chet. Difficile, allora, capacitarsi di questa irrefrenabile impellenza di tributare Baker: pur senza possedere i requisiti essenziali.
Due esempi tra le decine che ci vengono in mente. Gli ultimi, in ordine cronologico, a queste latitudini. Ma nessun protocollo d'accusa. Soltanto, un elemento di riflessione in più. Perchè, in tempi in cui gli inviti musicali promettono tanto e, di contro, si perdono nel gran mare della categoria dei riempitivi, sarebbe bene cominciare a interrogarsi. E a selezionare. Non è, del resto, la capillare fruibilità della musica che potrà salvare il movimento musicale: i più distratti passano, mordono e fuggono. Senza lasciare traccia. E senza che la musica lasci qualcosa a loro. E non è l'omogeneizzazione culturale la risposta alla crisi: quella, anzi, arreca solo danni. E non solo alla musica.

sabato 3 agosto 2013

Experimenta, sei set tra stili e tendenze

Experimenta, per la natura del progetto stesso e per tradizione, ma anche per convinzione, esplora, sonda. E, molto spesso, naviga oltre la musica di maggior consumo, varcando i recinti delle note più scontate. Muovendosi tra stili e tendenze, senza ingabbiarsi tra le etichette. Percorrendo l'arte delle sette note (o dodici, fate voi) da un punto cardinale all'altro. E preoccupandosi di sposare la ricerca di nuovi aromi con una base artistica qualitativamente solida, i profili squisitamenti musicali di ogni singola performance con la sete di spettacolo che tanto - più della musica nuda - attira e coinvolge il pubblico. Soprattutto quello che circola nelle sere d'estate. La rassegna, ormai storica, di Gianluigi Trevisi non promette di stupire: ma, questo sì, cerca continuamente nuovi percorsi. O, quanto meno, variazioni sul tema. Riuscendoci, generalmente. Accostando a determinate scelte, talvolta, anche qualche buon nome della scena nazionale e internazionale: che viene dal jazz o dalla world music, dall'etnica o dalla popolare, dal pop o dal rock. E offrendo puntualmente, anno dopo anno (sono quindici, contandoli dall'inizio del viaggio), un prodotto credibile e sufficientemente genuino, molte volte intrigante, saporito per diversi palati. Al di là delle piazze o delle amministrazioni locali che ospitano la manifestazione, sbocciata ad Alberobello (e lì cullata per tredici stagioni) e, quindi, trasferita lo scorso anno a Polignano.
Experimenta, anche nel duemilatredici, non delude. Consegnando sei differenti situazioni musicali in tre giorni, tutte rigorosamente condizionate dall'originalità. Prima tocca alle sonorità popolari dei Rondeau de Fauvel, tre donne (voce, liuto ed arpa) e due uomini (piva, batteria e basso elettrico) che attingono parecchio dal repertorio tradizonale celtico, ma anche e soprattutto da quello medievale, rivisitati con l'apporto di strumenti più vicini ai giorni nostri e dell'elettronica, che si fa penetrante solo in prossimità della conclusione del live. Il gruppo, non tragga in inganno il nome, arriva da Vicenza e trascina con sè una miscela di suoni già concettualmente sperimentata da altri, in passato, ma equilibrata e facilmente sostenibile. Più rustico e di maggiore impatto, anche visivo (i protagonisti sono balticamente piazzati e si muovono molto, pure bruscamente), è il secondo set della prima serata, affidato alle cinque cornamuse, ai due tamburi, alla batteria etnica e ad un parente del contrabbasso degli Auli, formazione che arriva dalla Lettonia proponendo canti, danze e rituali di quelle terre, ma anche composizioni contemporanee riarrangiate. Energia a parte, colpisce l'amalgama cromatico degli strumenti portanti, cioè le cornamuse, versatili e plastiche.
Al secondo appuntamento si gira pagina. Ecco, allora, un progetto in esclusiva nazionale, quello degli Amine & Hamza Trio, due fratelli tunisini (all'oud e al qanun) e uno svizzero (al violino). Le tonalità terragne del Mahgreb si muovono, anche in questo caso, attraverso diverse composizioni contemporanee, ricche di timbri, ma assistite da una forte impronta della tradizione (e l'oud e il qanun, in questo, aiutano non poco) e dall'influenza di altre culture musicali mediterranee. A seguire, poi, il quartetto dell'emergente contrabbassista romana Caterina Palazzi, trentunenne con un passato remoto rockeggiante (con lei, sul palco, Maurizio Chiavaro alla batteria, Piero Delle Monache al sassofono e Giacomo Ancillotto alla chitarra elettrica). Il jazz dell'ensemble è fortemente venato di rock, che entra ed esce dagli spartiti, e spesso spruzzato di elettronica. Gli incipit, solitamente invasivi, precedono stati di tranquillità assoluta. Ad ogni accelerazione, corrisponde la stasi totale e il repertorio alterna tinte forti a sonorità più soft. Sudoku Killer, il disco recentemente licenziato dal gruppo, poggia le fondamenta, del resto, sugli enigmi matematici giapponesi e sulla reazione del cervello umano di fronte ad ognuno di essi.
La terza ed ultima serata, infine, è un'altra storia ancora. Anzi, due. Quello dei Cinedelika è un progetto interamente dedicato alle colonne sonore (di Morricone, Rota, Umiliani, Dalla, Piccioni, Carlos, Micalizzi e altri), un percorso ultimamente battuto da diverse formazioni italiane. Il quartetto abruzzese (Matteo Di Battista alle chitarre, Fabio D'Onofrio alle tastiere, Michelangelo Brandimarte al contrabbasso e Luca Di Battista alle percussioni) seleziona e riarrangia brani di successo, sconfinando in diverse correnti musicali. Mentre, dal proiettore, sgorga un montaggio di diversi fotogrammi. Infine, tre attori (Giorgio Tirabassi, il barese Paolo Sassanelli e Luciano Scarpa) si scoprono musicisti e, rispettivamente, imbracciano chitarra solista, chitarra ritmica e contrabbasso, facendosi accompagnare da Luca Giacomelli (altra chitarra solista) e Alessandro Golino (al violino). Ne esce un divertito e anche ironico omaggio a Django Rinhardt e alle sonorità manouche, ma anche una produzione leggera e, al contempo, impegnata. Che, di fatto, suggella la predisposizone di Experimenta ad abbracciare le anime diverse della musica del Duemila. Quell'epoca in cui, lo ripetiamo ancora una volta, non esiste più niente da inventare. Ma dove, però, c'è ancora spazio per guardare ed ascoltare da angolature sempre differenti.

01/02/03.08.2013
Polignano a Mare (BA), Piazza San Benedetto
Experimenta 2013

venerdì 2 agosto 2013

Ma adeguarsi tocca a tutti

E' il momento di parlarne. O, almeno, è il momento che qualcuno lo faccia. Pur riconoscendo, sin da ora e per sempre, il merito di voler e saper rischiare a quanti - e, oggi, in Puglia, sono pochi - continuano a consumare tempo, energie e - in certi casi - anche risorse personali nell'organizzazione di eventi musicali rigorosamente dal vivo. E, magari, pure di buona (oppure ottima) qualità. Che non è cosa da poco: garantiamo. Dunque: l'epoca nostra è quella che è. Insicura, zoppicante. I concerti costano (cachet, Siae, agibilità, service, vitto, alloggio, varie ed eventuali). Gli artisti, come tutti, annaspano e non concedono troppi sconti sul prezzo: a meno che il livello qualitativo non scada: e, allora, è un altro discorso. Il pubblico circola di meno e, ad ogni modo, pensa tre o quattro volte, prima di spendere, se c'è da spendere. E, comunque sia, si è un po' troppo colpevolmente abituato alle situazioni di secondo e terz'ordine. Preferendo i richiami delle situazioni  facili e un po' nazionalpopolari: dimenticando che la musica e lo spettacolo viaggiano su binari paralleli. Che, talvolta, possono pure confluire: molto difficilmente, però. Infine, i gestori dei club e dei locali, ma anche gli organizzatori di professione e pure gli amministratori locali soffrono il momento (congiunturale, si dice adesso) e, di conseguenza, propongono poco. Molto meno di una volta. Persino tra lo Jonio e l'Adriatico. Anche se questo angolo di Italia resta enclave felice: altrove, non esiste la stessa quantità di offerta musicale che si incontra per le piazze e per le location - pubbliche e private - delle sei province pugliesi. In inverno e in estate. Dicevamo: il fenomeno, ultimamente, si è lentamente affievolito. In due parole, quantitativamente parlando, non si suona come in passato. Ce ne siamo accorti nel duemiladodici. E il duemilatredici avvalora certe sensazioni. In pratica, diversi contenitori interessanti, rassegne anche robuste e molte programmazioni cittadine sono velocemente evaporate nella recessione. Eppure, qualcosa resiste. Rimane sul campo. Ecco il problema, però: chi organizza non presta attenzione (o bada poco) al calendario. Cioè: nel raggio di pochi chilometri, il meglio viene concentrato nel fine di ogni settimana. Possibilmente della seconda metà di luglio e nella prima parte di agosto. Prima del week-end, invece, poche proposte. E, a fronte di un giugno assai povero (Fasano Jazz e Bari in Jazz a parte) e di una prima decade di luglio decisamente anonima, tutto si accavalla nelle stesse ore. Prendiamo il caso di sabato e domenica scorsi: ecco a Ceglie l'Open Jazz Festival, Aperti per Ferie a Francavilla Fon tana, ma anche il Locus di Locorotondo. Senza dimenticare altri eventi in contemporanea: tutti nello stesso comprensorio. Oppure, soffermiamoci su quello che accadrà tra oggi e dopodomani: ancora Locus Festival a Locorotondo, poi Experimenta a Polignano, Voce dal Ponte a Monopoli, Dirockato Fest ancora a Monopoli, Pjazza Palmieri sempre a Monopoli, Arte Franca a Martina (Beat Onto Jazz e il Locomotive Festival di Sogliano Cavour sono territorialmente più lontani come Orsara Jazz e, allora, ci può stare). E, probabilmente, dimentichiamo qualche altra cosa. Ovviamente, sono solo due esempi: succede così anche in altri comprensori pugliesi, lo sappiamo. Basta cercare nella rete, informarsi. Vero: il centro dell'estate è questo. E chi organizza vuole scansare sorprese: e intascare il sold out garantito. Del resto, a casa ci rimangono in pochi. E la Puglia è grande. Dunque, c'è spazio per chiunque. Anche in pochi chilometri di asfalto. Ma, così, il movimento musicale pugliese ne esce alla lunga infiacchito, svilito. E si nega la possibilità di soddisfare gli appassionati sprovvisti del dono dell'ubiquità. Che, invece, andrebbero incoraggiati e premiati: solo per il fatto che, in fondo, sono il motore che permette all'ingranaggio di muoversi. Soprattutto quando le belle giornate si esauriscono, la folla si riduce e, perciò, serve la militanza storica. In sintesi: sta circolando poca musica di spessore vero. Se, poi, le poche offerte di autentica qualità si sovrappongono, finiamo per raccontare della sconfitta di tutti. O, se non altro, di chi organizza e di chi ascolta. Eppure, conosciamo in anticipo molti cartelloni: e formulare una programmazione ad incastro non è affatto impossibile. Anzi, sarebbe saggio. Basterebbe un minimo di buona volontà, di managerialità, di buon senso. E di umiltà, se ci permettete. Perchè l'impressione è che, sotto, non sgomitino pressapochismo o sciatteria. No, c'è altro. Ci preoccupa di più il pericolo che arriva dalla presunzione. Cioè: quello che organizzo io è meglio di quanto possano fare altri. Che si adeguino. Invece, adeguarsi tocca a tutti, nessuno escluso.   

mercoledì 31 luglio 2013

Note tra i fotogrammi

Note tra i fotogrammi. Perchè, questa volta, si parte da un film. Just Friends, per essere precisi. Pellicola del millenovecentonovantatre, girato e prodotto in Belgio e ambientato ad Anversa, sulla scena jazzistica di fine anni cinquanta. Doppiato in italiano ed arivato anche a queste latitudini, persino gratificato da un festival di prestigio, ma scomparso dal mercato cinematografico e dimenticato presto. Adesso praticamente introvabile, eppure gelosamente custodito da Mike Zonno, contrabbassista e, diremmo anche, nuovo mecenate della musica fatta in Puglia, nonchè ideatore di Jazz al Cinema, contenitore estivo - al secondo anno di programmazione - ospitato all'arena del Multisala Vignola di Polignano. Ecco, appunto, Jazz al Cinema: cioè, un progetto interessante, discretamente originale, anche stimolante. E, supponiamo, pure di prospettiva. In quanto, attorno alle pellicole più o meno celebrate, decorate o sconosciute, italiane o di importazione, si potrebbe persino cominciare a rifletterci concretamente sopra, provando a costruire attorno qualche progetto ben strutturato che possa aprire nuovi spazi per i musicisti di casa nostra, sempre più spesso preoccupati di esplorare strade nuove e di attirare l'attenziuone del pubblico. Magari, è un'idea come un'altra, destrutturando e riarrangiando (e non solo replicando o contestualizzando) vecchie e nuove colonne sonore, antiche e recenti musiche da film.
Il primo passo, intanto, è fatto. Anzi, il secondo. Perchè, già lo scorso anno, la rassegna ottenne ottimo riscontro, overo una platea affollata. Malgrado il biglietto da pagare. E anche l'edizione duemilatredici, dislocata in tre diversi mercoledì di luglio, non ha affatto deluso, da questo punto di vista. «Un particolare - confessa Michele Zonno - che mi rende orgoglioso. E' difficile realizzare manifestazioni come queste, presentate nello stesso periodo in cui, anche a pochissimi chilometri da Polignano, il jazz è somministrato gratuitamente». Dunque, tre appuntamenti: il primo affidato alle tonalità psichedeliche e vintage dei Bumps (Antonio Di Lorenzo alla batteria e alle percussioni, Davide Penta ai bassi e Vince Abbracciante alle tastiere e alla fisarmonica), raggiunti sul palco dal sassofono di Fabrizio Scarafile (in scaletta, la rielaborazione della colonna sonora del bertolucciano Ultimo Tango a Parigi, firmata Gato Barbieri). Il secondo al gruppo guidato dal trombettista Mino Lacirignola e dallo stesso Zonno (Villy Calabrese al piano, Max Monno alla chitarra, Beppe Brizzi alla batteria, più la voce di Luciana Scotti), misuratisi attorno alla figura di Louis Armstrong. E il terzo ad un quintetto assolutamente inedito: Felice Mezzina al sassofono, Nico Marziliano al piano, Vito Di Modugno al basso (talvolta, l'hammondista barese torna allo strumento di un tempo), Mimmo Campanale alla batteria e Serena Brancale, voce giovane ormai sbarcata nell'universo del cantautorato (è il suo momento, che immaginiamo sfrutterà bene: le credenziali ci sono tutte).
Quintetto inedito, certo, ma ben calibrato. Appoggiatosi sull'esperienza della ritmica, sugli assoli di Mezzina, sugli arrangiamenti di Marziliano e sulla freschezza e la facilità di interpretazione di una vocalist che arriva dal blues e dal soul. Just Friends, ovviamente, è un progetto che si nutre degli spartiti inseriti nell'omonimo film diretto da Marc-Henri Wajnberg: due composizioni originali del belga Michel Herr ("Bass Boom" e "Song for Lucy", una ballad trascritta da Nico Marziliano) e diversi standard (tra cui "Perdido" di Juan Tizol, "You Go to My Head" di Fred Coots, "Bésame Mucho" di Consuelo Velásquez e "Just Friends" di John Klenner, una delle storiche incisioni del sassofonista nordamericano Archie Shepp, a cui è sottodedicato, in definitiva, il live). Anche i classici (e i superclassici), però, sono trattati con personalità e sobrietà creativa, senza banalità sonore. Diventando versioni delicate, ma intense. Ed estrapolate da una pellicola divertente in cui Shepp, artista di punta dell'avanguardia jazzistica, ha voluto rendere omaggio ai padri della tradizione musicale statunitense. Giusto per ricordare da dove il jazz arriva. E prima di sapere dove ci porterà.

Felice Mezzina (sassofono), Nico Marziliano (piano), Vito Di Modugno (basso), Mimmo Campanale (batteria) & Serena Brancale (voce) in "Just Friend"
Polignano a Mare (BA), Arena del Multisala Vignola
Jazz al Cinema 2013

(foto Rosaria Zonno)

lunedì 22 luglio 2013

Ozionà, il vecchio cantautorato che resiste

Probabilmente, in qualche angolo della nostra quotidianità edulcorata, globalizzata e anche un po' impalpabile, la canzone d'autore - quella di una volta, impegnata e gravida di concetti, magari datati e ampiamente metabolizzati, ma non per questo inutili o dannosi - resiste ancora. Eppure, la scarsa densità di contenuti incasellati tra gli spartiti ci aveva ultimamente preoccupati: siamo sinceri. E all'invasione incondizinata del pop dichiaratamente superficiale (non solo nel panorama cantautorale, ma praticamente ovunque, jazz compreso), ci stavamo ormai tristemente e lentamente abituando. Invece, qua e là, l'energia delle parole continua ottusamente e orgogliosamente a sgomitare: forse, per semplice istinto di sopravvivenza. O per una mera questione di ribellione: all'omologazione, innanzi tutto. O, forse, perchè non siamo tutti uguali e non sviluppiamo tutti gli stessi pensieri. Fortunatamente. Ecco, sì: quella canzone socialmente utile di un tempo - diciamo pure quella che abbiamo ereditato dai Lolli, dai De Andrè, dai Guccini, dai Fossati - e che abbiamo perso, anche per difetto di talento di chi è arrivato dopo, per la strada dell'uniformazione non è ancora del tutto evaporata. E combatte stoicamente. E' un dato oggettivo, di cui tenere conto. Ed è bastato dedicare settancinque minuti ad uno degli appuntamenti organizzati (in quest'estate sin qui mediamente povera e musicalmente un po' grigia) dall'amministrazione comunale di Polignano, per continuare a sperare.
Sul palco allestito in piazza San Benedetto, un vecchio ragazzo dal passato colorato di rock e illusioni: Fernando Grande, universalmente conosciuto anche con lo pseudonimo di Ozionà, chitarrista ormai stagionato e polemista rinvigorito dallo scorrere delle stagioni e delle avventure, più o meno all'inizio del nuovo millennio si è inventato un secondo percorso musicale. Cioè, un cammino più maturo e più intrigante, contenitore di differenti esperienze personali ed espressione di motivazioni evidentemente ancora cristalline. Che ci è piaciuto non poco, non lo nascondiamo: lasciandoci, anzi, positivamente sorpresi. Anche per quella freschezza del progetto che ha saputo miscelare melodia (gli arrangiamenti nascondono una certa impronta rockeggiante, ma ammiccano saggiamente alla musica popolare e alla world music, passando per la magia del teatro-canzone) e testi (pensati e poi scritti con consumato mestiere). Percorso, sia detto chiaramente, al quale l'autore monopolitano non è arrivato per caso: ma lavorando nell'ombra per anni interi. Sino a regalarsi tre album: Sia Quel Che Sia (2000), Magie di un Vento (2002, presentato anche sul palcoscenico di Zelig da Annamaria Barbera) e il più recente Tela di Ragno (dieci tracce edite nel 2007). Disco, quest'ultimo, niente affatto innovativo (nessuno può inventarsi più nulla, ci mancherebbe), ma di spessore eccellente. Dove convivono i temi più cari alla canzone d'autore più verace: la libertà, la dignità, la giustizia, la coscienza, l'uomo, la morte. La vita reale, quella di tutti i giorni. Di tutti noi.
Ozionà, che alla canzone d'autore arriva gradualmente (a proposito: il festival Voci dal Ponte che, da diversi anni, organizza non senza qualche difficoltà finisce per incidere profondamente sulle sue scelte artistiche: non ce l'ha confidato, ma di questo siamo sicuri), riesce a confezionare uno spettacolo accattivante, che scorre sereno, malgrado la natura - diciamo pure ostica - dei contenuti. L'apporto calibrato dell'elemento squisitamente musicale, dunque, diventa assolutamente imprescindibile: la chitarra e la batteria dello stesso Fernando Grande, il basso di Tonio Napolitano, il sassofono di Giovanni Longo e la fisarmonica di Francesco Giancola stemperano con puntualità l'impatto dei testi e annientano sul nascere tutte le possibili frizioni che possono allearsi nel corso di un ascolto impegnativo e, perciò, anche pericoloso (la gente diffida sempre più dell'impegno e del politicamente corretto). Oso – Un Viaggio nella Coscienza dell’Uomo è un lavoro, se vogliamo, multimediale (cioè preceduto da un cortometraggio proiettato prima del live e che, tra l'altro, ci ricorda un'amara verità: la giustizia è come una tela di ragno, che intrappola gli insetti più piccoli, facendo passare i più grandi) e, di contro, non è un progetto che proprio chiunque può masticare troppo allegramente, ma possiede la grazia di non spaventare, di non intimorire. E il risultato, riteniamo, è tutt'altro che indifferente. Anche se, alla fine, in platea viene a mancare il pubblico delle occasioni più popolari, quello più affezionato al passeggio di Polignano o alle esibizioni di una cover band qualsiasi. Ma, in fondo, non è un problema grosso: pochi (non pochissimi, intendiamoci), ma buoni. Cioè attenti. E sufficientemente silenziosi. Davanti alla gradinata di piazza San Benedetto non accadeva da secoli.

Ozionà (voce, chitarra, batteria etnica e percussioni), Tonio Napolitano (basso), Giovanni Longo (sassofono) & Francesco Giancola (fisarmonica) in "Oso - Un Viaggio nella Coscienza dell'Uomo"
Polignano a Mare (BA), Piazza San Benedetto
Inside the Blue 2013

(foto Michele Pezzolla)

venerdì 19 aprile 2013

Far Libe, yiddish con stile

I colori del canto e il garbo del pianoforte. La cultura yiddish e la voce sicura di Giovanna Carone, che coltiva un passato vissuto sulla sponda delle note barocche, e la buona educazione musicale di Mirko Signorile, sempre più versatile e orientato verso accordi e scenari diversi da quelli squisitamente jazzistici che pure continua proficuamente a frequentare tra un progetto e l'altro. Il desiderio di ripercorrere un certo tragitto già calpestato (il precedente si chiama Betam Soul, la prima produzione realizzata in sinergia, anno duemiladieci) e il vezzo di voler accostare al progetto di partenza nuove emozioni, nuove suggestioni. Far Libe ("Per Amore" è la traduzione) è un disco di quindici brani, quasi tutti espressamente coniati per l'occasione dallo stesso Mirko Signorile (allo spartito) e nei testi da Luca Basso, paroliere e voce ufficiale dei Fabularasa, da Giovanna Carone e da Marisa Romano, una vera e propria autorità, in ambito yiddish, ma popolarmente conosciuta con lo pseudonimo di Marishe. Tracce che, peraltro, traggono linfa e giovamento dai canti della tradizione e, talvolta, anche dall'elaborazione di composizioni della metà del secolo scorso (il singolo "Far Libe", ad esempio, poggia la propria scrittura sul tema di un compositore russo, Dmitri Kabalevskij). Oppure (è il caso di "Chanson d'Amour") dal bagaglio musicale di Fauré, opportunamente ritoccato. Mentre Wiegala si presenta sotto la forma di una ninnananna e il godibilissimo "Ver Vet Blaybn" non è altro che un testo aggiunto ad un pezzo esclusivamente strumentale ("Tra Luci e Stelle") firmato da Mirko Signorile e inserito in Clessidra, album a proprio nome di qualche inverno fa.
Firmato dall'etichetta Digressione Music, realizzato in studio nel maggio del duemiladodici e presentato ufficialmente a Bari non troppo tempo addietro, dopo una decina di repliche il lavoro transita dal palcoscenico di Art 'n Jazz, contenitore itinerante (tra Polignano, Rutigliano, Conversano e Mola, per la precisione) artisticamente diretto da un altro pianista, Donatello Dattoma, che ha voluto riunire nella sua seconda edizione la mostra pittorica di Vito Savino, una presentazione (del volume C-Minor Complex, omaggio di Marco Di Battista a Lennie Tristano), visite guidate al polo museale di Conversano e, innanzi tutto, performance live di artisti di diversa estrazione (Nicola Tariello e gli Organik 3, Cinzia Eramo e Gianni Lenoci, il quartetto di Emanuele Cisi e Giuseppe Delre, che prossimamente proporrà dal vivo il suo ultimo cd, di cui abbiamo avuto occasione di parlare recentemente su queste stesse colonne). Le sale della Pinacoteca Finoglio di Conversano, così, diventano un punto di passaggio appropriato («e un luogo degno, dal punto di vista artistico», sottolinea Pasquale Sibilla, leader del locale assessorato alle Politiche Culturali) per accogliere una raccolta di composizioni dal taglio decisamente sobrio ed elegante.
Far Libe si muove tra l'idioma yiddish, l'italiano (rappresentato, appunto, dalla vena poetica di Luca Basso), il francese, l'inglese e lo spagnolo dei sefarditi, mescolando momenti di vera e propria letteratura in musica a storie dal sapore vagamente fiabesco. «Il nostro primo lavoro - certifica Giovanna Carone - offriva probabilmente meno spazio alla nostra lingua, puntando più corposamente sulla cultura yiddish, da cui sgorga il progetto». E Far Libe, sotto questo punto di vista, cerca allora di allargare l'orizzonte, apparendo al primo ascolto un prodotto sicuramente più maturo e rodato di Betam Soul. Puntando sulla delicatezza e anche su un rapporto più diretto e intimo con l'ascoltatore. E provando, soprattutto, a coniugare tradizione e modernità, musica popolare e contemporanea. Con molto stile.

Giovanna Carone (voce) & Mirko Signorile (pianoforte) in "Far Libe"
Conversano (BA), Pinacoteca "Finoglio"
Art 'n Jazz 2013

giovedì 18 aprile 2013

Improvvisando con Evan

Gianni Lenoci è docente e compositore di frontiera, se ci passate il termine. Frontiera tra sperimentazione e creazione, tra ricerca e panorami arditi, ecco. E' coraggioso e anche tenace, il pianista monopolitano: nel perseguire la propria strada. E nel difendere le proprie scelte artistiche. E non ama troppo la musica scontata: quella, cioè, già ascoltata e riascoltata. E, magari, appena riletta, riconfezionata. Ha scelto un percorso diverso, tempo fa. Unendo la passione allo studio, la lettura un po' visionaria all'insegnamento, l'improvvisazione allo spirito indomabile del free jazz. Frullando tutto e scommettendo ciecamente sull'utilità (e sul mistero intrigante) dei laboratori musicali: che dettano i tempi della sua agenda, ne influenzano la quotidianità e che, soprattutto, si lasciano attrarre dall'avida curiosità del musicista impavido.
«Improvvisando, l'artista si presenta com'è. E' nudo. E può appoggiarsi esclusivamente su se stesso, sulle proprie qualità, sulla propria sensibilità, su quello che possiede dentro». Parole calcolate, ma pesanti. Spese per raccontare la sua musica, ma anche e soprattutto per parlare della propria esperienza. Il palcoscenico è quello delle tre serate modellate attorno al sassofono di Evan Parker, sessantanovenne inglese di Bristol a cui è legato lo sviluppo del free europeo, assemblate nel Chiostro delle Clarisse di Noci, sotto il controllo di una joint venture composta dalla locale amministrazione comunale, da Massimo Felici (un musicista di estrazione classica avvicinatosi progressivamente a questo tipo di spartiti e presidente dell'Associazione Euterpe), dallo stesso Lenoci e dal nocese Vittorino Curci, strana figura di musico, poeta e politico a cui è legato il ricordo - particolarmente nostalgico - dell'Europa Jazz Festival, eclissatosi troppo presto e da ormai troppi anni.
Evan Parker, certo, è il front man di un'operazione che si colloca apertamente al di fuori degli schemi più collaudati. E attorno a lui si articola l'intero cartellone. La prima sera, ad esempio, si propone da solo, per tre quarti d'ora («Con uno strumento monodico come il sassofono - sottolinea Lenoci -. Eppure, regalando ugualmente una gran quantità di note»). Il giorno successivo, invece, si fa raggiungere dal pianoforte di Lenoci. E successivamente, in un teorico secondo set, da un altro sassofono (quello di Vittorino Curci) e dalle percussioni di Marcello Magliocchi («Gente - aggiunge il responsabile della cattedra jazzistica del Conservatorio di Monopoli - con cui condivido progetti e coopero da oltre vent'anni»). Quindi, nell'appuntamento conclusivo, il gruppo si allarga, diventando un settetto, grazie all'inserimento del chitarrista Pablo Montagne, del contrabbassista Pasquale Gadaleta e di un terzo fiato, Vittorio Gallo («Miei allievi - precisa Lenoci - da sempre direttamente coinvolti nei miei progetti musicali»). Listen to Evan è assieme tributo e officina edificata sul campo. E dietro, ovviamente, insiste un lavoro sinergico, profondo. «Improvvisare, da solo, significa confrontarsi direttamente con le note, senza poter bluffare. In una situazione di quartetto, però, l'improvvisazione esige un potente interplay tra i protagonisti. Mentre quella del settetto è una vera e propria sfida. Ma, al di là di tutto, ritengo che, per un musicista, l'improvvisazione sia assolutamente stimolante, oltre che un sintomo di innovazione. Soprattutto in un momento storico come questo: in cui tanta musica è la replica di se stessa». E in cui, evidentemente, c'è ancora qualcuno che non si rassegna all'omogeneizzazione della musica. Sognando, magari, la riscoperta di quell'Europa Jazz Festival che, proprio a Noci, ha dato voce anche e soprattutto a certe angolature jazzistiche. E chissà se Listen to Evan non rappresenti, da questo punto di vista, un segnale concreto.

Evan Parker (sassofono)
15.04.2013

Evan Parker (sassofono), Vittorino Curci (sassofono), Gianni Lenoci (pianoforte ed effetti) & Marcello Magliocchi (batteria e percussioni)
16.04.2013

Evan Parker (sassofono) & Il Tempo Sospeso (Vittorino Curci: sassofono; Vittorio Gallo: fiati; Gianni Lenoci: pianoforte ed effetti; Pablo Montagne: chitarra elettrica; Pasquale Gadaleta: contrabbasso; Marcello Magliocchi: batteria e percussioni)
17.04.2013

Noci (BA), Chiostro delle Clarisse
Listen to Evan

giovedì 14 febbraio 2013

Blue from Heaven, musica da sognare

«C'è musica che fa godere, musica che fa ballare e c'è musica che fa sognare. E, d'altra parte, la caratteristica di far chiudere gli occhi all'ascoltatore e di consentirgli di andare altrove con la mente, di fargli vivere persino vite mai vissute, trasferendolo in mondi lontani dal qui e ora, è una delle tante funzioni della musica». Pierluigi Balducci è autore attento ai particolari, ai dettagli. Interpreta (e scrive) note non convenzionali, puntando sulle suggestioni. Consapevole com'è che l'ascolto è cosa seria. E non solo un argomento commerciale. Possiede, poi un background solido. E solidi principi: anche al di fuori dell'universo delle sette note. Non gli manca neppure il vocabolario per esprimersi. E, anche al primo incontro, vicino o lontano dal palcoscenico, offre l'impressione di quello che, in realtà, è: un musicista che guarda anche oltre il proprio orizzonte, oltre la musica.
Blue from Heaven è il suo secondo disco da leader. Pubblicato dall'etichetta leccese Dodicilune, circola dal trenta novembre e riunisce otto situazioni: tutte originali, fatta eccezione per "Unrequired" di Brad Meldhau e "Our Spanish Love Song" di Charlie Haden. «Completando la composizione dei brani, mi rendevo conto che il lavoro, con il quartetto assemblato, avrebbe avuto una cifra molto visionaria e evocativa. Per questo ho scelto come titolo dell'intero album quello di una singola traccia, "Blue from Heaven", che da solo esprime meglio questa caratteristica del disco. Il che, ovviamente, non significa che manchi la componente ritmica». Il bassista pugliese (coratino, per essere precisi) si era peraltro affezionato al tango, ultimamente. Anzi, al nuovo tango: condiviso con un gruppo ormai ben definito che si nutre di una propria storia, di un proprio percorso e di collaborazioni pregiate. Ma non si è mai dimenticato delle sonorità più jazzistiche, con cui si è formato, si è evoluto e ha convissuto a lungo.
«Questo disco nasce per una formazione più consueta, più standard: la presenza di batteria, sax soprano e piano dà al quartetto una connotazione più canonica, rispetto alle mie precedenti formazioni, da considerare più cameristiche, prive di batteria e supportate da strumenti poco frequenti nel jazz, quali la fisarmonica e il violino. Nello stesso tempo, era mio desiderio misurarmi, all'insegna della continuità, con il mio consueto approccio compositivo, che da sempre privilegia un equilibrio più europeo tra scrittura e improvvisazione e che mi porta spesso a concepire composizioni di ampio respiro, nelle quali gli spazi scritti e o arrangiati e le sezioni improvvisate abbiano pari dignità e si asservano entrambe alla composizione. Potrei dire che in Blue from Heaven ho avuto modo di applicare ad un organico molto più tradizionale la mia idea della composizione jazz, sperimentata a lungo su organici atipici. E sono soddisfatto del risultato. Risultato che non sarebbe ovviamente mai arrivato, se non avessi avuto il supporto, concreto e morale, della Dodicilune e del progetto Puglia Sounds, che ha contribuito in parte alla promozione del cd».
Visionario, sì. Ma anche di largo respiro. Blue from Heaven prova ad accostare le atmosfere andaluse di "The Light of Seville" a quelle ormai lontane di "Fin de Siècle" e a quelle più romantiche di "The Sky over Skye". Mentre "L'Equilibrista", in un certo modo preceduta dalle note di "Introduction", è una ballad ben riuscita. E "Life in Three Sketches" è, come dice il titolo stesso, una composizione che si divide in tre diversi momenti tematici. Tracce in cui i suoi compagni di spartito offrono un contributo denso, decisivo. «Ho voluto coinvolgere nel quartetto - spiega Balducci - due musicisti che hanno avuto una grande influenza sulla mia formazione e che ho sempre considerato dei maestri indiscussi. Il fatto che la cosa sia andata in porto e che, tra pochi mesi, porterò la stessa formazione in concerto, costituisce per me un'immensa gratificazione».
I nomi, del resto, sottintendono un curriculum niente male. «Paul McCandless, storico co-leader degli Oregon che, da giovane, ho divorato, ha un approccio armonico all'improvvisazione molto simile al mio, un'eleganza timbrica come pochi e una cantabilità che nasce dalla sua grande consapevolezza armonica. Lo sento davvero come un padre, musicalmente parlando. Inoltre, suonando l'oboe, in alcuni brani conferisce al lavoro una connotazione timbrica molto vicina al mondo classico, cosa che a me è davvero molto congeniale e vicina. Chi, peraltro, ha ascoltato il mio precedente lavoro, Stupor Mundi, sa bene quanto la tradizione classica sia viva e presente in me. John Taylor, poi, è considerato uno dei maestri indiscussi del piano jazz in Europa: è una personalità aperta e unica, un gigante di cui è quasi superfluo parlare. La sensibilità con cui ha approcciato le mie composizioni, peraltro, è stata per me commovente. L'organico, quindi, si completa con un batterista e un percussionista dalla personalità straordinaria, fuori dal comune: Michele Rabbia, che nel quartetto interpreta un ruolo certamente più tradizionale rispetto a quello è solito fare, ad esempio, con Stefano Battaglia. In questo progetto, infatti, Michele suona essenzialmente la batteria, forte del suo gran bel tiro e di una spiritualità tutta sua».

Blue from Heaven (Dodicilune, novembre 2012)
Pierluigi Balducci (basso), John Taylor (pianoforte), Paul McCandless (fiati) & Michele Rabbia (batteria e percussioni)

venerdì 1 febbraio 2013

Il ritorno di Accardi, tra sospiri e sussurri

Arcoiris è l'opera prima: pensata, studiata e perfezionata negli anni. Partorita tra la Francia e l'Italia. Un'idea di partenza, diventata disco lentamente. Whispers, invece, è la continuazione di un progetto. La sintesi di un processo, intimo e creativo, del musicista ormai rientrato stabilmente dentro i confini nazionali. Una produzione, di sicuro, più rapida. Ma, non per questo, meno curata. O più sbrigativa. E una postproduzione più esigente. Il nuovo album di Fabio Accardi, batterista che ama anche la scrittura musicale, parte tuttavia dalla certezza di un'etichetta discografica: la sua. Mordente Records, del resto, nacque anche per l'esigenza di individuare un'etichetta su misura: in corrispondenza, praticamente, di quel primo cd che faticava a trovare una casa confortevole.
Whispers, peraltro, è un disco ancora giovanissimo, perchè commercializzato lo scorso 29 novembre e presentato ufficialmente quasi un mese dopo, sul palcoscenico del Teatro Forma di Bari. Dove, assieme all'autore, si è ritrovata la gente che lo ha assistito in sala di registrazione, quella dell'Officina Musicale di Giuseppe Mariani, a Castellana Grotte: Gaetano Partipilo (al sax), Vince Abbracciante (alla fisarmonica e al Wurlitzer), Mirko Signorile (al pianoforte), Giorgio Vendola (al contrabbasso), le vocalist Luisiana Lorusso e Serena Fortebraccio e la voce recitante dell'italoargentina Sarita Schena. Ai quali va aggiunta la presenza del foggiano Antonio Tosques, scelto nell'occasione a rappresentare la chitarra di Nando Di Modugno.
Prodotta da Gianfranco Bolena e da Rossella Giancaspero (sue sono, a proposito, le parole di "Writer Song", l'ultima traccia che si fonde con "Táctica y Estrategía" di Mario Benedetti), la seconda fatica a proprio nome di Accardi si divide in otto brani: dei quali altri quattro ("Whispers in an Autumn Rain", "Les Amours Secrèts", "Zaiana" e "Frevolidia") sono pezzi originali. A fronte, peraltro, di tre rivisitazioni: quella della dejohnettiana "Silver Hollow", di "Bodas de Sangue" (firmata dal brasiliano Marcos Valle) e di "Lília", composizione di un'altra grande figura del panorama musicale verdeoro, Milton Nascimento: a conferma dell'antica e incondizionata passione del batterista barese nei confonti delle note che arrivano dal Sudamerica. Una passione che, peraltro, si intuisce pure nella già citata "Frevolidia": il frevo è un ritmo tipico delle regioni nordestine di quel Paese.
Niente, cioè, nasce per caso. Whispers, ad esempio, in inglese significa sospiri. «Ma anche "sussurri" - aggiunge Fabio Accardi -. E' un vocabolo che rimada alla prima traccia presente nel disco, che poi indica la direzione all'intero lavoro». E che, quindi, un po' lo rappresenta. «"Whispers in a Autumn Rain" è una composizione dolce, melodicamente molto chiara e limpida. Così come l'intero lavoro è molto delicato: penso anche a brani come "Silver Hollow" e "Bodas". Ed è un brano scritto all'inizio di una relazione, mentre "Winter Song", che chiude l'album, è la fine della storia. Diciamo pure che sono questi i punti di riferimento dell'intero cd: ed è da qui che sono partito, prima di scrivere gli altri e aggiungere delle cover che reputo vicine al mood del disco: non solo dal punto di vista emotivo, ma anche da quello estestico e squisitamente sonoro. In mezzo, poi, ci sono altre suggestioni, altre esperienze: è il caso di "Zaiana" e "Les Amours Secrèts", scritti ad agosto».
Le suggestioni, ovvero il vero filo conduttore tra Arcoiris e Whispers. «Certo. In entrambi gli album c'è la stessa esigenza di tradurre in suoni determinate emozioni. Poi, Arcoiris conserva dieci anni del mio personale vissuto. E Whispers, che possiede un sound meno articolato e meno arrangiato della pubblicazione precedente, soltanto tre. Però, in questo cd l'aspetto melodico esce più nitidamente. Mentre in Arcoiris la melodia si distribuiva su più linee, che spesso e volentieri si intracciavano e sovrapponevano. Non solo: nel mio primo prodotto discografico gli spartiti sono pensati per un settetto, a parte un paio di brani. Questa volta, invece, ho scritto per vari ensemble: passando dal quartetto al settetto. Ancora: allora, gli strumenti fondamentali erano il flauto e il vibrafono, che caratterizzavano un suono molto forte e particolare. Ora, il ruolo della fisarmonica e la novità delle voci, usata in tutte le sue modalità, cioè dal vocalizzo di "Silver Hollow" e "Lília" al recitato e al cantato di "Winter Song", offrono differenti colori. In comune, piuttosto, c'è la forte influenza della musica brasiliana, che si manifesta in Arcoiris nel suoni del flauto e nelle melodie e, in Whispers, nel ritmo di "Frevolidia" e, ovviamente, nella presenza di due cover. Oppure in certi input cinematografici».
Suggestioni, dicevamo. Ed emozioni, certo. Ma anche esperienza. «Vero. Scrivere Whispers è stato piu agevole, proprio grazie all'esperienza maturata nel tempo. Arcoiris era il mio primo disco e la mia musica era più difficile nell'esecuzione; anche se è stato regisitrato in tre giorni, seguiti dai due di missaggio. Questo cd, di contro, pur essendo stato concepito nell'arco di un tempo più limitato, si appoggia su una post produzione più curata e su molte sovraincisioni».

Whispers (Mordente Records, novembre 2012)
Fabio Accardi (batteria), Mirko Signorile (pianoforte), Nando Di Modugno (citarra), Giorgio Vendola (contrabbasso), Camillo Pace (contrabbasso), Vince Abbracciante (fisarmonica e Wurlitzer). Guests Gaetano Partipilo (sassofoni), Luisiana Lorusso (voce), Serena Fortebraccio (voce) e Sarita Schena (voce recitante)

sabato 26 gennaio 2013

Curve nella memoria

Quando il gusto del racconto si confonde con il canto e le note della tradizione e qualche piccola scoperta lacera la patina di banalità che ci ingabbia o, peggio ancora, scalfisce le ipocrisie del nostro tempo, significa che abbiamo ancora ottimi maestri da ascoltare. E Moni Ovadia è uno di questi. E poi il suo mondo, in bilico tra storia e culture differenti, nella complessità che lo caratterizza, diventa persino di facile approccio, di agevole lettura. Per tutti: o tranne, forse, per chi si industria nel non intendere. Perchè arrampicarsi sullo specchio dell'intolleranza e dell'opportunismo è una delle discipline più praticate del secondo e del terzo millennio.
Sangue turco, discendenza ebraica, bulgaro all'anagrafe, residenza italiana: Ovadia, del resto, ne può raccontare parecchie. Fluttuando tra la storia e le storie, tra i culti e la cultura della memoria. Ripercorrendo trasversalmente gli ultimi ottant'anni di quotidianità. Presentandosi sul palco del Teatro il Saltimbanco di Santeramo, praticamente in coincidenza con la Giornata della Memoria, nella prima delle quattro serate inserite nel circuito griffato Teatro Pubblico Pugliese (il tour passa da Mesagne, Martina e si esaurisce a Gioia del Colle). E viaggiando, come sempre fa, attraverso le vicende che, nel tempo, hanno saputo involvere i processi di aggregazione (e, spesso, anche di pace) tra i popoli.
E di gente, infatti, Ovadia parla. Con l'ironia di sempre, ma anche con la forza della logica negata. «Quello degli ebrei della diaspora, degli yiddish, e quello dei sinti o dei rom sono popoli d'Europa in tutto e per tutto. Con la propria identità, la propria lingua, le proprie tradizioni, la propria letteratura. Ma senza territorio e frontiere, senza polizia e democrazia. Due popoli insultati, calunniati, segregati e, talvolta, massacrati. Che hanno vissuto in prima persona l'altrui progetto del proprio annientamento. Popoli che ci hanno lasciato musica, racconti e riflessioni. E dal destino comune, almeno per duemila anni. Perchè, sùbito dopo la Seconda Guerra Mondiale, qualcosa è cambiato, sepur lentamente: gli ebrei sono entrati nel salotto buono, quello dei vincitori, proprio mentre nasceva lo stato ebraico. I rom, invece, sono rimasti fuori dal contesto».
Dalle parole dello scrittore austriaco Joseph Roth alle danze che hanno influenzato la musica del novecento il passo è breve. E il quintetto che accompagna Ovadia (due clarinettisti italiani, il napoletano Ennio D'Alessandro e il romano Paolo Rocca, e tre rom) imbastisce la sua trama, dettata dall'agilità del cymbalon di Marian Serban, dalle tre corde percussive del contrabbasso di Marin Tanasache e dal dinamismo sonoro della fisarmonica di Albert Florian Mihai. «Quella zingara è una cultura al di fuori della routine. I rom festeggiano la vita, proprio mentre gli occidentali la rincorrono, schiavi della loro quotidianità e persino delle parole. Essere rom è avere il senso primario della vita. Molti di noi lo ignorano, nella miopia dell'universo che ci circonda, ma i sinthi si sono espressi egregiamente in ogni ambito. La loro musica, ad esempio, ha influenzato Brahms. Le danze ungheresi, che poi sono danze rom, nascono così. Ma anche il jazz: Django Reinhardt ha creato il gipsy. E la stessa musica popolare russa ha attinto da loro. E, se vogliamo parlare di musica leggera, ricordo un pezzo reso popolare dalla francese Mirelle Mathieu, ma di estrazione zingara».
Dalla Russia alla Francia, per sbarcare infine in Grecia: Moni Ovadia si avventura anche nel sirtaki. «Il meticciato produce grandi emozioni musicali. E la canzone popolare greca sa celebrare il buon bere, in pieno stile zingaresco. Del resto, qualcuno diceva: "Polvere eri e polvere ritornerai. Ma, tra una polvere e un'altra, una buona bottiglia non può fare male" ». Senza dribblare i drammi dell'ipocrisia («Guardiamo solo alcuni aspetti, abituandoci ai concetti della consuetudine. Oppure a quello che ci è comodo guardare»). Il viaggio tra la musica e i pensieri completa la seconda ora, il quintetto scende in platea e invade il foyer, regalando altri quindici minuti di note. La Memoria non è solo olocausto: parola di Moni Ovadia, parola di ebreo. «I campi di concentramento hanno ucciso sei milioni di yiddish, lo so bene. Gli altri sei, però, erano portatori di handycap, antifascisti e oppositori del nazismo, soldati ammutinati, omosessuali, prostitute e anche rom e sinti. Dobbiamo ricordare tutti: se no, la memoria diventa falsa coscienza».

Moni Ovadia (voce narrante e canto) in "Senza Confini - Ebrei e Zingari", con Paolo Rocca (clarinetto), Ennio D'Alessandro (clarinetto), Albert Florian Mihai (fisarmonica), Marian Serban (cymbalon) e Marin Tanasache (contrabbasso)
Santeramo in Colle (BA), Teatro Il Saltimbanco
Stagione Teatrale 2012/2013 del Teatro Pubblico Pugliese