giovedì 22 dicembre 2011

Un viaggio chiamato musica


Un viaggio chiamato musica. Sinonimo di vita. Che, per vicende squisitamente personali, significa anche e soprattutto speranza. Speranza di un domani intenso: come ognuno di quei giorni incollati all'album dei ricordi. Il viaggio nella seconda vita di Vincenzo Deluci continua. L'avevamo lasciato nella grave delle grotte di Castellana, diciotto mesi fa, con un progetto ardito, in bilico tra atmosfere ed elettronica, tra un paesaggio infernale e i versi della Commedia di Dante. Il trombettista fasanese era il viandante sospeso tra il buio e la luce, tra le tenebre e le promesse di un'altra chance. Ma, adesso, quel progetto si è ampliato: coinvolgendo una voce (quella della locorotondese Raffaella Piccoli, conosciuta negli ambienti teatrali per l'attività di coordinatrice di laboratori di fabulazione e animazione dei burattini) e il contrabbasso di Camillo Pace. Il Trio Viaggio, così, persegue Altre Destinazioni, uno spettacolo itinerante partito a novembre da Bisceglie e in attesa di successive tappe, concepito - come assicura lo stesso Deluci - «dalla necessità di sensibilizzare gli animi a rallentare la frenesia del quotidiano, fatto di disordine, smarrimento e frastuono».
La scelta musicale è un racconto. Un racconto di paesaggi sonori, ovvero un itinerario geografico, musicale e stilistico assieme, un'incursione nelle epoche, nei continenti, negli avvenimenti di un tempo. «Ma anche un prezioso lavoro di ricerca sonora e culturale, dove abbiamo cercato di riscoprire le nostre radici, soprattutto quelle interiori. Ovviamente, la musica è il mezzo: la musica con i suoi differenti generi, i suoi colori, le sue diverse modalità di esecuzione. Che guidano lo spirito verso la comunicare, l'unione, la trasmissione. E che ci permettono, alla fine, di relazionarci».
Il viaggio, attraverso una realtà immaginaria, conduce a universi diversi e futuri. «Lasciandoci lo spazio e il tempo per poter soppesare i valori di sempre, le storie di vita passata, le leggende e le tradizioni della nostra terra. Senza mai accomiatarsi dalla quotidianità, ma con la pretesa di misurarsi con l'epicità di racconti dimenticati, appartenenti ad un tempo in cui la musica, fatta di antiche melodie, cullava l'uomo, rendendo magiche le fiabe». Anche questa volta, la tromba modificata di Vincenzo Deluci si avvale del soccorso dell'elettronica, alla quale il compositore si sta saldamente appassionando. Elettronica, peraltro, per niente lontana dall'evoluzione artistica di Camillo Pace, uno dei primi, in Puglia, ad incidere un lavoro discografico con determinati timbri e certe sonorità. Apporto, questo, essenziale, ma propedeutico ad un itinerario musicale che non conosce barriere e confini, nè scalette: ma libero di improvvisare, tra istinto e passione.

mercoledì 16 novembre 2011

Autobiografico, introspettivo, metaforico Zahir


Un pensiero fisso, che insiste. Che occupa la mente. Un'ossessione. Che luoghi, ricordi ed esperienze vissute alimentano e rafforzano. Un tarlo che si agita nella testa. Che non sembra conoscere uscita. E che fugge solo sotto la spinta della certezza di poter porre rimedio al problema. Traducibile, in arabo, con una sola parola: zahir. Un disco graffiante, che galleggia sulle metafore, nutrendosi di un pianismo contemporaneo macchiato di world music. Undici tracce che disegnano altrettante storie, ordinate su un tragitto geografico immaginario che nasce dove sorge il sole e muore là dove il sole scompare. Un incrocio tra pianoforte e piano preparato, tra umori mediterranei e aria di casa. Con qualche incursione nell'etnica e nell'elettronica. Un'introspezione, quasi un'autobiografia in note. E' lo Zahir di Massimo Carrieri, cioè il secondo lavoro del pianista martinese, prodotto dall'etichetta Effemusic, appena collocato sul mercato discografico. Cioè, l'evoluzione del pensiero musicale di un artista che si scruta, che continua a cercarsi, che prova a decodificare orizzonti e possibilità. Le sue possibilità.
Zahir, intanto, si accoda al primo album, Seven, ormai vecchio di quattro anni. Ma, dalle caratteristiche di Seven, sostanzialmente si allontana. E non solo per le modalità con cui viene costruito. Perchè, se il primo cd è un assemblamento di sette brani (diciamo pure più rigorosi, musicalmente parlando) scritti in tempi diversi, l'opera seconda è un'idea unitaria, completamente partorita in un determinato periodo, durato nove mesi: un momento storico evidentemente anche abbastanza sentito dall'uomo, prima ancora che dall'artista. Zahir, oltre tutto, dispone di tonalità più moderne, più contaminate. Dove l'improvvisazione ruba spazio alle precedenti composizioni, più legate alla scrittura. E dove, anche questa è una novità, s'inseriscono due voci: quella di Imma Giannuzzi, salentina di Lecce, da sempre attirata dalle tonalità terragne della musica popolare (è presente in "Terraross"), e quella di Salah Addin Roberto Re David, gioiese di origine e cultore della cultura sufi (appare nella traccia "Il Silenzio Intorno"). Del resto, il disco si abbandona pure a sonorità proprie di culture differenti e, comunque, ad atmosfere lontane o spirituali.
«Nel disco - rivela l'autore - c’è una traccia, "Il Silenzio Intorno", che si chiude con un adzan, un richiamo islamico alla preghiera. E, nel finale di "Lost in Her Dance", fa il suo ingresso un rito voodoo. Infine, il concept grafico e visivo che accompagna il disco passa attraverso elementi simbolici e metafisici. Poi, il titolo stesso del disco è la sintesi di tutto un processo introspettivo: e potrei continuare così ancora per un pò. Non penso si tratti di pure casualità. Chi vorrà, potrà cogliere una serie di messaggi che esulano dal semplice ascolto di undici composizioni al pianoforte». Al pianoforte, ma - dicevamo - anche al piano preparato. «Il pianoforte - continua Massimo Carrieri - è uno strumento dalle mille risorse. L’uso di questa tecnica non fa altro che ampliare la gamma delle possibilità timbriche che lo strumento offre. A seconda del materiale utilizzato, legno, metallo o plastiche, può assumere dei caratteri che lo avvicinano ad esempio ad uno strumento a corde pizzicate o a percussione. In Zahir questa procedura mi ha aiutato a ricreare gli ambienti, i luoghi in cui raccontare determinate storie. Succede, ad esempio, che in "Lost in Her Dance", una traccia con un’impronta fortemente tribale, in alcune zone il pianoforte sembra imitare l’ostinato di tamburo africano. Ancora, ne "Il Silenzio Intorno" o nella traccia "Zahir", un leggera cordiera in metallo ci riporta in atmosfere tipicamente orientaleggianti».
Zahir, tracce di un corso tutto nuovo. «Sì, è un lavoro che nasce con la volontà di rinnovarsi, di sperimentare, di cercare nuove strade: un atteggiamento doveroso, per evitare di ripetersi. Credo che questo progetto mi abbia condotto in alcune direzioni che continuerò a perseguire in futuro: come l’uso del sound processing, un arricchimento compositivo che apre ad infinite possibilità. Anche se in Seven, il mio primo disco, ci sono comunque degli elementi che, in qualche modo, anticipano quello che poi è andato ad evolversi in Zahir». Ma, anche, il frutto di un lavoro di ricerca. «Il primo lavoro di ricerca è passato innanzi tutto attraverso me stesso. Zahir arriva a quattro anni da Seven, un arco di tempo considerevole in cui sono maturate nuove esperienze di vita e professionali che, penso, mi abbiano fatto crescere sotto diverse angolazioni. Tutto ciò, forse, è avvenuto anche in maniera inconscia, contribuendo ad arricchirmi di nuovi stimoli, nuove idee e soprattutto, nuove cose da raccontare. Tornando più propriamente al disco, in Zahir c’è stata una particolare attenzione sul tipo di suono che doveva venir fuori, un aspetto che non ho trascurato sin dal primo passo: la scelta dello strumento. Sono venuto in contatto con uno Steinway del 1917 che Nicola Farina custodisce gelosamente nel suo negozio di Ostuni. E’ stato amore a prima vista: tra tante proposte, non ho avuto dubbi. Il secondo incontro magico, invece, è stato quello con Tommy Cavalieri, un vero maestro del suono. Il suo contributo è stato determinante per il risultato finale del disco».
Un disco, tra le righe, anche autobiografico. «Basta leggere qualche titolo: "Terraross", "Father", "Under Manhattan Sky". Non è difficile capire certi collegamenti. Chi mi conosce da vicino lo sa: c’è molto di mio. Racconto cose alle quali sono legato e che mi porto dietro, nel bene e nel male. Dentro, c'è l’essenza del mio personale zahir. Ogni traccia racconta una storia che, in qualche modo, è venuta in contatto con me. Ci sono luoghi, persone, stati d’animo, sentimenti. Non riesco a pensare alla mia parte artistica completamente scollegata da quella umana: quello che vivo e che sento in prima persona è la base di partenza sulla quale costruisco tutto il resto».

Zahir (Effemusic, novembre 2011)
Massimo Carrieri (pianoforte, sinth e berimbau). Guest Imma Giannuzzi (voce) e Salah Addin Roberto Re David (voce)

sabato 12 novembre 2011

Il sogno americano di Daniela


La cattiva notizia corre sul filo virtuale della rete. Perchè, oggi, quasi tutto passa prima dai canali di internet. E corre veloce. Facebook è una lama affilata nel cuore del pomeriggio e, per chi arriva in ritardo, della sera. Una sera spesa, un po' ovunque, tra castagne e novello. Daniela è nel posto sbagliato, al momento meno opportuno. Broadway, New York. L'arteria spacca Manhattan e l'incrocio con la centoseiesima strada spezza un sogno americano. Il suv sfreccia sull'asfalto e la travolge: dettagli della prima ricostruzione del fatto. Daniela, a trentadue anni, ci lascia. La polizia a stelle e strisce fornisce pochi particolari. Quanto basta per sapere che non c'è domani. Folti riccioli rossi, sorriso gentile, voce ormai preparata al gran salto: perchè l'America, per chi naviga tra il soul e il jazz, il blues e il gospel, è sempre l'America. E New York è sempre un po' più America di altri luoghi. Da Andria, Daniela D'Ercole aveva scelto il suo cammino. Passando per i club, le piazze e i teatri di Puglia. Il primo viaggio oltre oceano, temporaneo. Poi, il rientro tra le contrade di casa nostra. Giusto per riannodare i contatti con il suo mondo di sempre. E per vagliare nuove soluzioni. Come il tango e le note d'Argentina: il progetto si era consumato in una sola data, ad Ostuni, quest'estate. Al fianco di una formazione d'archi e della fisarmonica di Giorgio Albanese. C'eravamo. E, proprio lì, Daniela faceva sapere della nuova avventura che l'attendeva. Ancora in New Jersey. Un'avventura più lunga, questa volta. E definitiva, probabilmente. La decisione era presa, ormai. Ma solo a novembre, qualche mese dopo, avremmo scoperto che l'avventura era quella finale. La jam session aspettava Daniela: appuntamento saltato. Con tutti i progetti. E con tutte le illusioni: perchè chi campa di arte, vive anche e soprattutto di illusioni. Che l'Italia, di questi tempi, non permette più a nessuno: musicisti compresi, ci mancherebbe. Bagaglio di viaggio e tante speranze: certe volte, va bene. E, allora, è meglio provare. Per non ereditare rimpianti o scrupoli. Senza sapere cosa c'è dietro l'angolo. O ai confini della centoseiesima strada: dove tutto può finire, all'improvviso. Dove scopriamo di sentirci un po' più soli. E dove la comunità musicale di Puglia elabora il suo terzo lutto, da giugno ad oggi: perchè non abbiamo dimenticato nè Pierpaolo Faggiano, nè Massimo La Zazzera. Intanto, dentro il bagaglio di Daniela, resta The Peacocks, il primo (e unico) disco registrato a suo nome, nel duemilaotto, con Ettore Carucci, Giuseppe Bassi e Marcello Nisi. Dove, tra questa e quella traccia, si respirava il profumo del musical, una delle sue passioni tra le note. Proprio quel musical nato e cresciuto a Broadway, quella strada immensa che spacca Manhattan e che, una sera di autunno, ha spezzato un sogno. Il sogno americano di Daniela.

giovedì 13 ottobre 2011

Shorter, maestro saggio


Puntuale. Fa attendere il giusto, appena dieci minuti. Ventuno e quaranta, si parte. Wayne Shorter è, consentiteci la banalità facile, l'evento musicale pugliese dell'anno. Bari in Jazz 2011, inauguratosi a giugno, chiude la parentesi lunga con quest'appendice attesa, suggestiva e di sicuro impatto: anche mediatico. Entrando definitivamente (e ufficialmente) a far parte di un immaginario circuito preferenziale, all'interno del panorama jazzistico nazionale. E, chi dice il contrario, bluffa: perchè è un dato di fatto. Inconfutabile. Ovviamente, per l'occasione, c'è una location tutta nuova: ad ottobre, sfruttare la piazza non si può. E occorre una struttura capiente: il sassofonista di Newark, settantotto anni ad agosto, richiama agilmente gli appassionati dei quattro angoli della regione e pure gli addetti ai lavori. Mai visti, del resto, tanti musicisti assieme al di qua del palcoscenico: è un evento anche per questo. L'auditorium dello Showville, settecento poltrone comode e morbide, debutta così nell'alta società delle note, vantando il suo primo sold out. Malgrado un biglietto niente affatto esagerato, ma neppure di portata popolarissima, considerati i tempi. Un biglietto che, peraltro, da solo è insufficiente a coprire il cachet degli artisti e i costi di gestione del concerto, appaltato solo grazie all'iniziativa privata degli sponsor. Giusto per capirci.
Shorter, a Bari, ci torna a qualche anno di distanza (qualcuno lo ricorderà in un'ancora non troppo lontana edizione di Notti di Stelle). E' in Europa da poco (una tappa già consumata a Londra), ma non si fermerà per molto (Reggio Emilia, Roma, Istanbul, Macedonia). Sale sul palco e attacca: nessun saluto, nessuna parola. Solo musica. E genio. Lui è il vecchio maestro saggio che coordina, offrendo input e assist. Poi, lascia fare ai compagni di viaggio (il panamense Danilo Perez al piano, John Patitucci al contrabbasso, Brian Blade alla batteria), rientrando nel cuore del live al momento giusto, inspessendo il percorso. Cliché consumato e approccio vagamente sofisticato, talvolta soft. Prima che i toni si facciano più marcati, che i colori diventino più decisi, che il volume (non solo quello sonoro) della serata si alzi. E prima che il drumming si faccia più aggressivo, che la tastiera del piano si liberi verso orizzonti musicali più vasti, che il contrabbasso si doti di energia. La prima suite ruota attorno ad un solo accordo. Quindi, il repertorio - passateci il termine - si apre. Diventando progressivamente più intenso, interpretativamente più denso. E riscuotendo, per quello che abbiamo percepito durante e anche dopo l'esibizione, maggiori consensi. Un'ora o poco più: il pubblico, allora, chiama. Per due volte. Arriveranno altrettanti bis.
Al di là del gradimento di ciascuno, appuntamenti come questi fanno storia. E, infine, è la storia (del jazz, in questo caso) che crea il pedigrée di una manifestazione di largo respiro. Che, come ricordava già questa estate il suo direttore artistico Roberto Ottaviano, non può sottrarsi dall'obbligo di prepararsi organizzativamente con almeno dodici mesi di anticipo. Potendo appoggiarsi, però, ad un budget predefinito, chiaro: che, ovviamente, semplifica tutto. Un punto, questo, su cui sarà bene confrontarsi, quanto prima. Anche con l'ente regionale, che sta sostenendo il progetto e che, parallelamente, deve fronteggiare il momento storico, imprigionato dalla politica nazionale dei tagli finanziari nei confronti della cultura. Oltre che con le aziende sponsorizzatrici e con Puglia Sounds. Problematica che, tuttavia, non impedisce all'associazione Abusuan di rivelare, sin da ora, che l'edizione duemiladodici di Bari in Jazz verrà spostata al prossimo mese di luglio (la quattrogiorni si apre il tre e si esaurisce il sei). E a noi di azzardare il nome (ufficialmente non confermato) di uno dei prossimi ospiti della kermesse, quello della pianista portoghese Maria João, affiancata dall'Orchestra Sinfonica della Provincia di Bari.

Wayne Shorter Quartet (Wayne Shorter: sassofoni; Danilo Perez: pianoforte: John Patitucci: contrabbasso; Brian Blade: batteria)
Bari in Jazz 2011
Bari, Multisala Showville

domenica 9 ottobre 2011

Il canto e la narrazione


Piacevoli abitudini. Ad ottobre, ormai ogni anno, Di Voce in Voce atterra puntuale sulla programmazione musicale barese. Senza mai smarrire il dono della sensibilità, nè il gusto per la ricerca o per l'introspezione di certe note di confine. La rassegna, ideata dall'associazione Radicanto e coordinata da uno dei suoi fondatori, Giuseppe De Trizio, fluttua da tre stagioni tra cantautorale, popolare ed etnica, intrecciando parole delicate, versi, tonalità speziate, musica del mondo e profumi terragni.
Bastano quattro giorni, per un puzzle incisivo e ben shakerato. Di giovedì, si parte con il trio Sas Thaj Nas (Marinella De Palma: voce, tastiere e santur; Francesco De Palma: voce e percussioni; Fabrizio Piepoli: voce, santur, chitarre e tastiera), supportato dal guest Adolfo La Volpe (mandolino e basso). Tra versi, favole e canti tratti dalla leggenda islandese, dal patrimonio rom, yiddish, sefardita e persiano e dalle tradizioni musicali irlandesi o mediterranee, Era o Non Era è un progetto che sorvola il tempo, alimentandosi anche di una dose decisa di elettronica, ma planando leggero. Tutto ruota attorno alla voce di Marinella De Palma e Fabrizio Piepoli, che modulano il concerto, scandendo il ritmo e avvolgendo il repertorio. «Del resto - interviene Giuseppe De Trizio - questa terza edizione è volutamente dedicata alla centralità del canto, alla voce e ai suoi rivoli. Quindi, canzoni e racconti si fondono e si compensano in un viaggio sonoro e geografico per vari luoghi. La voce canta e, soprattutto, narra, offrendo al prodotto finale una capacità evocativa più profonda. Peraltro, la dimensione del racconto è un aspetto particolare della world music, che poi ispira da sempre i Radicanto o formazioni come il Sas Thaj Nas, che dei Radicanto può essere considerata una costola. Non solo: tutto questo rientra a pieno titolo nel concetto di contaminazione, a cui siamo particolarmente legati».
Concetto, questo, che non sfugge neppure ai Tabulè, ritrovatisi dal vivo ad otto anni di distanza dal primo e, al momento, unico lavoro discografico, Marie Merci, uscito con l'etichetta della Compagnia delle Nuove Indye. Claudio Prima (voce e organetto), lo stesso Giuseppe De Trizio (mandolino e chitarra) e ancora Fabrizio Piepoli (voce e chitarre) s'ispirano a uno dei piatti classici del medioriente (il tabuleh, appunto, ovvero l'insalata di cous cous) per preparare una convergenza di stili ed esperienze che, però, possiedono una base ben definita. Come, ad esempio, il piacere della scoperta, la coltivazione delle emozioni e l'esigenza di abbattere certe barriere culturali. Anche quelle di casa nostra, perchè no: riuscendo a mettere assieme, sullo stesso palco, le due anime del trio, quella barese e quella salentina.
Altro repertorio, invece, di venerdì: Matteo Marolla e una delle icone della canzone folk italiana, Lucilla Galeazzi, colorano due set distinti che si raggomitolano attorno alle radici del canto. O, come sottolinea De Trizio, due interpreti che riscoprono la particolarità del dna musicale della penisola. Marolla dedica la sua ora di live al conterraneo Matteo Salvatore, cantore di un tempo perduto e autore di estrazione contadina, legato ai temi dell'emigrazione, della fame, della dignità. «Ho scoperto Marolla a Silvi Marina, nel corso di un'altra rassegna, nel duemilauno. Matteo mi piace perchè rende vive e, soprattutto, autonome le creazioni di Salvatore». «Io - aggiunge lo stesso Marolla - ho respirato gli stessi profumi di Salvatore: arrivo da San Severo, a pochi chilometri da Apricena. Ma guardo le cose da un punto di vista diverso, perchè espressione di un'epoca differente. Tuttavia, sono rimasto semèpre affascinato dal suo modo di raccontare con poche immagini un intero mondo». Un mondo di proverbi, di marginali, di braccianti e caporali, di personaggi di paese, di miseria e disgrazie. E di storie qualunque, di ogni giorno.
Lucilla Galeazzi, sùbito dopo, condivide con il chitarrista palermitano Davide Polizzotto un'idea indovinata: all'interno dell'Auditorium della Vallisa suonare in acustico si può e l'occasione va colta. Il progetto (Ancora Bella Ciao) è asciutto, molto discorsivo. Quasi didattico. E condensa quarant'anni di canzone folk, riscoperta in Italia nel dopoguerra e, soprattutto, sull'onda delle polemiche nate nel corso del Festival dei Due Mondi di Spoleto, anno millenovecentosessantaquattro. «Grazie al quale - rivela la vocalist ternana - riuscii ad avvicinare questa nuova espressione di protesta. Scoprendo un universo di cui in pochi, io compresa, erano a conoscenza. E che poi è diventato parte integrante della mia vita e la mia professione. Altrimenti relegata a contenitore di pochi motivi popolari della mia terra».
Due concerti al giorno. Anche di sabato. Casa Rosada è un trio che rivisita la tradizione meridionale italiana, attraccando però versi altri porti (il Portogallo, ad esempio), senza però rinunciare a proprie composizioni. Puntando sulla melodia, su arangiamenti golosi e sull'energia di favole quiete. Maria Giaquinto, leader del gruppo, racconta storie che inseguono il mare, «gli echi delle onde che segnano il nostro viaggio e le maree che, talvolta, cambiano il paesaggio. Quelle maree che sono una chiara, selvaggia chiamata». Poi, però, si scende anche sulla terraferma, in certi luoghi del sud, città di santi appesi ai muri e di bestemmie al cielo. Immediatamente dopo, Pino De Vittorio. L'atmosfera è da Compagnia di Nuovo Canto Popolare, eredità di una lunga collaborazione con Roberto De Simone. Voce, chitarra battente ed eleganza naturale, l'artista jonico ripercorre con teatralità consumata alcune tappe della tradizione pugliese, indugiando molto sul Gargano e affacciandosi sul Salento. Quindi, passando anche per gli stornelli di Leporano e sconfinando brevemente in Lucania (Bernalda). Esibizione dai toni intimi, come lui stesso suggerisce, ma profondi. Intanto, la voce riempie lo spazio, accentra: dirigendo la musica, dettando la linea del concerto.
Ai Radicanto, formazione padrona di casa, tocca infine la domenica. Il live di chiusura della kermesse si riassume nella presentazione di Bellavia (edizioni III Millennio, aprile 2011), settimo ed ultimo lavoro del quintetto, dalle tonalità decisamente più pop, rispetto agli album precedenti e tuttavia rispettoso del tragitto artistico di una formazione che, ancora una volta, ha saputo attingere (dallo stesso Di Vittorio, oppure da Enzo Delre), ma pure creare soluzioni di ottimo cantautorato. Prima, però, palcoscenico per Aronne Dell'Oro, folksinger trentacinquenne che scende da Milano, ma temprato da solide frequentazioni nella musica popolare di casa nostra. Che rimane patrimonio da coltivare e incoraggiare. Innervandolo, magari, di stimoli e venature nuove: che, poi, è l'obiettivo di rassegne come Di Voce in Voce. Da quest'anno, per la cronaca, costretta allo sbigliettamento (prezzi onestissimi, peraltro). «I fondi per la cultura - confessa Giuseppe De Trizio - diminuiscono sempre più: e, allora, è necessario che la gente cominci ad abituarsi all'idea di entrare a pagamento anche dove, in passato, non era richiesto». Così va l'Italia.

Sas Thaj Nas (Marinella De Palma: voce, tastiere e santur; Francesco De Palma: voce e percussioni; Fabrizio Piepoli: voce, santur, chitarre e tastiera) in "Era o Non Era", guest Adolfo La Volpe (bouzouki e basso)

Tabulè (Claudio Prima: voce e organetto; Giuseppe De Trizio: mandolino e chitarra classica; Fabrizio Piepoli: voce e chitarre) in "Marie Merci"

06.10.2011


Matteo Marolla (voce e chitarra classica) in "La Strada e le Stagioni"

Lucilla Galeazzi (voce e chitarra classica) & Davide Polizzotto (chitarra classica e chitarra battente) in "Ancora Bella Ciao"

07.10.2011


Casa Rosada (Maria Giaquinto: voce e tamburello; Giuseppe De Trizio: chitarra classica; Adolfo la Volpe: chitarra portoghese) in "Maree"

Pino De Vittorio (voce, chitarra classica e chitarra battente) in "Tarantelle del Rimorso"

08.10.2011


Aronne Dell'Oro (voce e chitarra acustica) in "Canto d'Amore"

Radicanto (Maria Giaquinto: voce; Giuseppe De Trizio: chitarra classica; Fabrizio Piepoli: voce e basso elettrico; Adolfo La Volpe: chitarra elettrica; Francesco De Palma: percussioni) in "Bellavia"

09.10.2011

Di Voce in Voce
Bari, Auditorium Diocesano Vallisa

venerdì 12 agosto 2011

Sparagna, il suono di una civiltà


Il legame con la Puglia, fa capire, è sempre molto saldo. E non potrebbe essere altrimenti. Facile, con tutto quello che è intercorso tra lui, menestrello di note inossidabili e di umori antichi, e una regione stretta tra il mare e un certo retaggio del passato, le sue tradizioni e la civiltà contadina: che pulsa ancora molto forte, malgrado l’indifferenza di tanti. Il rapporto è solido: al di là della Notte della Taranta, l’evento che ha scollinato i confini della territorialità, approdando nei circuiti più vasti (e anche più anonimi, talvolta) della world music. Quella Notte della Taranta di cui, per tre stagioni, è stato stratega, caudillo, ispiratore, coordinatore, uomo immagine, parafulmini. Dopo e prima di altri. La passione per la Puglia è intatta, fa sapere. Quasi viscerale. Non ne dubitiamo. Ed è anche per questo che Ambrogio Sparagna, pontino di Maranola, in queste contrade ci torna abbastanza spesso. E, da quel che immaginiamo, anche volentieri.
A Gioia, nel podere antistante l’antica (e premiata) Distilleria Cassano, esempio positivo (e riconvertito ad uso e consumo delle arti) di archeologia industriale, l’organettista più conosciuto della penisola in ambito popolare si è concentrato sul palco de I Suoni della Murgia, fortunata rassegna che, da tempo, si frantuma anche altrove (Gravina, Altamura, Terlizzi) e che rappresenta uno dei migliori contenitori estivi pugliesi, per longevità e qualità media delle proposte. Grazie, soprattutto, all’impegno degli Uaragniaun, storico gruppo di ricerca e di rivisitazione degli spartiti che mettono assieme tonalità terragne e consapevolezza di un’eredità culturale più densa di quanto siamo orientati a pensare. Nel penultimo degli appuntamenti in programma (prima del live conclusivo degli stessi Uaragniaun, si sono alternati anche Orchextra Terrestre, il Soffio dell’Otre di Nico Berardi, Rocco De Rosa, Sossio Banda, Jazzabanna, la Paranza di Marcello Colasurdo, Ventanas, Kalascima, Mario Salvi e Raffaele Inserra), Sparagna è arrivato con tre compagni di viaggio (Valentina Ferraiuolo alla voce e al tamburello, Cristiano Califano alla chitarra e il fondatore dei Novalia Raffaello Simeoni alla voce e ai flauti), a serata ampiamente inoltrata. Chiudendo, di fatto, una kermesse che ha voluto riunire il gusto per la sagra, per la tavola, per la produzione – non solo alimentaria – locale e per lo spettacolo più generalista (una selezione di concorrenti di Miss Italia).
Il concerto è stringato nei tempi (un’ora più il bis), ma intenso. Vive di un bagaglio proprio, senza entrare in casa di altri, cioè senza replicare stucchevolmente cose già viste e sentite. Ovvero, senza la presunzione di aggraziarsi la platea con incursioni facili nel patrimonio musicale locale. Mantenendosi nei binari della canzone popolare d’autore, con un taglio sobrio e concreto. E accortocciandosi a quei punti di riferimento che l’artista laziale ritiene imprescindibili: «La mia musica parla di storia e tradizioni secolari. E chi vive in Puglia sa quanto queste tradizioni siano fortemente legate alla cultura contadina: peraltro, lo stesso il Festival della Taranta che ho avuto l’onore e il piacere di accompagnare da vicino, fa proprio di questa cultura contadina il suo perno e il centro della propria produzione. Io e il mio gruppo cantiamo le radici. E le radici sono il canto che ci riporta indietro nel tempo. Radici forti, come quella dell’ulivo, che è un simbolo della vostra terra. E siamo qui a cantare nonostante il disordine che ci circonda. Cercando un mondo più sereno dove, magari, la musica possa creare quel senso di comunione e armonia di cui avvertiamo l’esigenza». Anche l’utopia, del resto, è un sentimento profondamente popolare.

Ambrogio Sparagna (voce e organetti), Valentina Ferraiuolo (voce e tamburello), Raffaello Simeoni (voce e flauti) & Cristiano Califano (chitarra)
Gioia del Colle (BA), ex Distilleria Cassano
I Suoni della Murgia 2011

martedì 2 agosto 2011

Paula Morelenbaum e quella bossa di sempre


L’ultima volta passò dal Jazle di Lecce, otto anni addietro. Accompagnando Paulo e Daniel, discendenti diretti della dinastia Jobim. Ma Paula Morelenbaum, in Puglia, alla fine ci è tornata: questa volta da band leader, a Conversano, in una piazza Battisti decisamente popolata. Portandosi dietro il suo gruppo, che peraltro non riesce mai ad impossessarsi pienamente del palcoscenico: il misuratissimo David Milman al piano e alla tastiera, Lancaster Lopes al basso e Rick De La Torre, un gaúcho dal nome spagnolo, alla batteria. E costituendo, al pari della voce nera di Mario Biondi, la proposta più suggestiva dell’intera estate conversanese. La vocalist carioca, primo ospite della rassegna Autori (targata per il terzo anno di seguito dall’associazione Insolisuoni) e di A Corte d'Estate, il contenitore coordinato dall’amministrazione comunale, è anche la chiave che apre una trilogia dal tema “Il Samba Balla col Tango“ (prossimamente, il palco sarà affidato prima a Carlot-ta e poi alle note sudamericane di Mangalavite e Girotto e alla verve recitativa di Peppe Servillo). Ma resta, soprattutto, un nome di rilievo assoluto nel proprio Paese: se non altro, per aver interpretato e accompagnato per diverso tempo Tom Jobim.
Regina Paula Martins, quarantanovenne, meglio conosciuta con il cognome ereditato dal marito Jacques Morelenbaum, uno dei monumenti della musica brasiliana degli ultimi vent’anni (il violoncellista ha interagito con gente come Buarque, Veloso e Sakamoto e gode di stima incondizionata, nell’ambiente) arriva in Italia per presentare Telecoteco, il suo ultimo lavoro discografico che si muove tra samba-canção e funky, scolpito da testi molto leggeri e da atmosfere decisamente lounge, ben diverse dal calore della bossa che, poi, le ha regalato in passato visibilità e popolarità. L’approccio al concerto, del resto, sembra cavalcare il momento musicale che sta animando il Brasile, ultimamente assai attratto da arrangiamenti un po’ freddi e anche dalla corsa alla rivisitazione di vecchi successi (è il caso di "O Samba e o Tango", un motivo lanciato da Carmen Miranda prima della metà del secolo scorso e recentemente riscoperto da Caestano Veloso, oppure di "Tomara", un testo che Vinicius De Moraes lasciò cantare a Marília Medalha negli anni settanta, oppure di un samba enredo degli anni quaranta). Ben presto, però, il live scivola su binari più morbidi e classici, ma anche in un repertorio che cerca ostinatamente consensi, vantando più facilità di comprensione e digestione.
Così, una versione senza troppa identità di "Manhã de Carnaval" precede la più convincente e raffinata "Tarde em Itapoã" e una sequenza di brani ("Águas de Março", "Você e Eu", "Mas Que Nada", "Canto de Ossanha", "O Nosso Amor", "Ela E’ Carioca", "Água de Beber") francamente didascalici. Detto tra noi, ci saremmo aspettati qualcosa in più, cioè qualcosa di diverso, di meno prevedibile, di meno ovvio. Non il solito compitino, ecco. Magari, altri titoli come le meno sfruttate "Samba de Orly" e "Luar e Madrugada", una composizione del giovane Jobim. Così come ci saremmo aspettati una Morelenbaum più coinvolgente e più coinvolta. Diremmo, quasi, più convinta. O, se preferite, più penetrante. Ma tant’è: alla gente basta e avanza, come testimonia la soddisfazione in platea. Avranno ragione loro, evidentemente. Anche se, a noi, resta un senso vago di incompiutezza, di delusione. Ma anche la reatà di un’esibizione che sembra appositamente confezionata per il pubblico italiano. O, peggio ancora, per un pubblico un po’ distratto, che si accontenta di una scaletta ricca di luoghi comuni.

Paula Morelenbaum (voce), David Milman (pianoforte e tastiera), Lancaster Lopes (basso) & Rick De La Torre (batteria)
Conversano (BA), piazza Cesare Battisti
Autori – A Corte d’Estate 2011

lunedì 1 agosto 2011

Fusioni, colori, fantasia


«Il mio immaginario è fatto di suoni, figure e colori che si fondono in atmosfere e ambienti fantasiosi, creando un sound elettro-acustico coinvolgente e intenso e che vive di contemporaneità». Marco Tamburini e la sua ultima creazione, Contemporaneo Immaginario. Il trombettista romagnolo riassume, in poche righe di copertina, l’idea e il lavoro maturati da due distinte formazioni musicali nel corso di una concertazione ponderosa e, probabilmente, anche viscerale. Da cui, proprio a giugno, è venuto fuori un album dalle tonalità moderne e, in alcuni casi, persino aggressive. Licenziato, per la cronaca, da Note Sonanti, l’etichetta martinese di fresca costituzione voluta da Pasquale Mega, alla sua seconda pubblicazione.
Contemporaneo Immaginario, distributo da Egea, è l’unione di due universi paralleli che, alla fine, convergono: quello della band di Tamburini (la Trhee Lower Colours: con lui, Stefano Onorati al pianoforte e Stefano Paolini alla batteria) e quello del più cameristico Vertere, quartetto d’archi pugliese. Sotto il segno dell’elettronica, che timbra decisamente il disco, già presentato ufficialmente nella data unica dell’ultimo Alberobello Jazz, la rassegna di Alberto Maiale e Barbara Cupertino, e – il tredici luglio – nella cornice di Umbria Jazz 2011, a Perugia. «Grazie all´elettronica, al lavoro di composizione, arrangiamento e soprattutto di improvvisazione – spiega ancora Tamburini sulle note a margine del cd - la musica cullerà l´ascoltatore in un viaggio esplorativo attraverso territori sconosciuti e l´aria sarà l´ideale mezzo di trasporto». Parole che grondano di trasporto e, innanzi tutto, di cieca fiducia nelle proprie possibilità. Oltre che nella critica degli appassionati e degli addetti ai lavori.
Al primo ascolto, del resto, Contemporaneo Immaginario può persino sembrare sfrontato, di ostico impatto, tagliente. Dal vivo, poi, certe atmosfere un po’ nordiche possono anche spaventare i meno navigati o i jazzofli più romantici. Ma questa raccolta di dieci tracce ("Il Mercato delle Spezie", "Nebbie", "Arabesque", "Contemporaneo Immaginario", "Oltre l’Orizzonte", "Blue Elettrico", "Il Suono del Vento", "Albe", "Medina" e, infine, "Knives Out", l’unico brano non originale) racconta di quanto scrittura e improvvisazione possano interagire, convivere e segnare il cammino. E quanto i punti di riferimento musicali di ogni singolo protagonista e di ciascuna formazione possano intrecciarsi e tracciare un tappeto di coesistenze suggestive.
Registrato ad ottobre del 2010 nel bolognese, il lavoro può essere considerato una delle pietre miliari della produzione di Tamburini: «Il fatto è che, passando attraverso il jazz afroamericano, mi sono lasciato conquistare da quello di matrice europea e, dunque, dall’esigenza di cercare nuovi stimoli nell’elettronica, di perseguire piani sonori diversi e una certa gamma di colori, nel solco della contemporaneità. Poi, però, sono un musicista di formazione classica e mi intrigano molto gli archi». E’ così che nasce Contemporaneo Immaginario, un gioco tra il dinamismo moderno del trio di base e l’identità acustica dei Vertere, un quartetto (Giuseppe Amatulli e Rita Paglionico ai violini, Domenico Mastro alla viola e Giovanna Buccarella al violoncello) che, dopo aver proficuamente collaborato con Javier Girotto o Daniele Di Bonaventura, insiste a voler confrontarsi su terreni differenti e solo apparentemente lontani. Certificando, così, di aver orami individuato il proprio percorso. E il saldo, al momento, è positivo.

Contemporaneo Immaginario (Note Sonanti, giugno 2011)
Three Lower Colours (Marco Tamburini: tromba ed elettronica; Stefano Onorati: pianoforte ed elettronica; Stefano paolini: batteria ed eletronica) & Vertere String Quartet (Giuseppe Amatulli: violino; Rita Paglionico: violino; Domenico Mastro: viola; Giovanna Buccarella: violoncello)

sabato 30 luglio 2011

Le canzoni immortali di Different Moods


«Different Moods è un contributo tutto nostro alla canzone italiana degli anni cinquanta, sessanta e dei primi anni del decennio successivo. Quella che, a distanza di quarant’anni e anche di più, continua a brillare di luce propria. E che viene eseguita e ricordata. Non solo dagli interpetri dei giorni nostri, ma anche e soprattutto dalla gente comune». Non è solo uno slogan, magari pure pubblicitario: perché, del resto, i dischi vengono incisi per essere distribuiti. E, quindi, per guadagnarsi uno spazio nella considerazione di chi ama la musica o, più in generale, degli appassionati (e nient’altro, vi assicuriamo: il mercato discografico, oggi, premia soltanto i big. Mentre i meno noti assistono, galleggiando nell’ ordinaria quotidianità). No, Beppe Delre è uno che ci crede davvero. E, peraltro, la canzone è il suo mondo, la sua ambizione, la sua passione, il proprio destino. Che non passerà, ovviamente, attraverso un disco – Different Moods, appunto – articolato al fianco di Vince Abbracciante, Camillo Pace e Fabio Accardi, ma che però si nutre anche di lavori come questo album. Album che, alla fine, racconta un po’ del suo percorso musicale.
L’idea di raccogliere le tracce di Different Moods - The Italian Songbook n. 1 (evidentemente, arriverà almeno un'altra pubblicazione, in un prossimo futuro) nasce un po’ alla volta. Prima, l’incontro (ormai antico) con Vince Abracciante si consolida in diverse situazioni live. Voce e fisarmonica, così. Inseguendo i testi di alcune firme di pregio come Modugno, Tenco, Endrigo o dal repertorio di Mina o di Don Backy. Poi, in sala d’incisione si aggiunge il contrabbasso di Pace e la batteria di Accardi. «Senza la nostra storia non siamo niente» certifica il crooner di Mola. «Ma questo lavoro non è solo una collezione di cover. Abbiamo inserito, per esempio, anche un testo scritto da me su uno spartito esclusivamente strumentale del francese Richard Galliano, forse il punto di riferimento più importante della carriera artistica di Vince Abbracciante. Il pezzo si chiama “Viaggio”. Ma non potevamo non soffermarci su determinati brani che amo particolarmente, come “Canzone per Te” di Sergio Endrigo o “Guarda Che Luna” di Buscaglione: un brano, questo, che dal punto di vista letterario, è il mio preferito. Non abbiamo, comunque, voluto obbligarci a reinterpetrare solo testi scontati, cioè conosciutissimi al grande pubblico. Dal bagaglio personale di Mina, infatti, abbiamo estratto “L’Ultima Occasione” e “Noi Due”, che non rientrano nel gruppo delle canzoni più famose lanciate dall’artista cremonese. Anzi, diciamo pure che sono state a lungo snobbate dalla critica e dagli stessi interpreti».
Una scelta, diciamo così, coraggiosa è pure “Fino all’Ultimo Momento” del livornese Piero Ciampi, un poeta scomodo che non ha mai guadagnato molte colonne sui giornali e una visibilità diffusa. La cover più recente, in ordine di tempo, è invece “Ritornando a Casa”, di Fabio Concato. Ovviamente, un buon lavoro di riarrangiamento offre al cd, uscito proprio in questi giorni con l’etichetta Bumps e presentato ufficialmente ad Ostuni, nel Chiostro di Palazzo Comunale, una dignità propria e un’identità che non insegue cocciutamente le versioni originali. Com’è giusto che sia: soprattutto in quest’universo di cover band che è diventata la musica dal vivo di questo millennio.

Different Moods (Bumps Record, luglio 2011)
Beppe Delre (voce), Vince Abbracciante (fisarmonica e fender rhodes), Camillo Pace (contrabbasso) & Fabio Accardi (batteria)

lunedì 25 luglio 2011

Il Mediterraneo di Echoes


Capire il progetto Echoes è un’operazione che passa anche spigolando attraverso le inclinazioni e le esperienze personali di ciascun protagonista della formazione. Adolfo La Volpe, ad esempio: il chitarrista, uno dei più eclettici della sua generazione, è da sempre profondamente legato al filone colto della musica etnica e, più in generale, a certe tonalità più speziate che si affacciano in un universo senza confini. Un universo che attinge in ogni contrada e in ogni porto, ad oriente ed occidente. Oppure Vittorio Gallo, di estrazione più jazzistica, temprato da collaborazioni suggestive, che ama spesso misurarsi con partiture free o al di fuori di certi schemi prestabiliti, dedicandosi a commistioni anche ardite, comunque gravide di una variegata gamma di soluzioni artistiche. Servendosi, perchè no, di strumenti a fiato assemblati in maniera assolutamente artigianale e singolari. Oltre a quelli più tradizionali: da suonare, magari, due per volta, allo stesso momento. Oppure, ancora, Vito Laforgia, un contrabbassista che arriva da repertori decisamente jazzistici, ma anche da un ambito musicale più classico e che ora si ritrova a ricucire le diverse anime del gruppo. E, infine, il percussiosta Francesco De Palma, segnato da un percorso che pianta le radici in un humus dichiaratamente più popolare, come può facilmente testimoniare un curriculum che tiene conto della militanza nei Radicanto, giusto per fare nomi.
Ma, per capire il progetto Echoes, è pure necessario soffermarsi sulla composizione di un gruppo pronto ad allargarsi con la complicità di un paio di ospiti: perchè l’esibizione, talvolta, è una combinazione di note e disponibilità. Altrui (location, budget) e proprie (una data che si sovrappone oppure no ad altre, di differenti gruppi: perchè ognuno coltiva altre situazioni e si adatta in residenze diverse). E, così, se ad Alberobello (la settimana prima) il quartetto si presenta più asciutto e anche meno legato dai vincoli delle sinergie, a Noci – all’interno del Chiostro di San Domenico – si aggiungono il sassofonista (e, da un anno, anche flautista) Fabrizio Scarafile e il pianista Francesco Fornarelli (nota di servizio: da non confondere con Kekko). L’Echoes Special Six, con un solo pomeriggio di prove, si concede così qualche sonorità più marcata e più jazzistica, mettendo da parte, probabilmente, qualche atmosfera consegnata al pubblico nell’occasione precedente. Il prodotto, tuttavia, continua a nutrirsi ugualmente di una forte vivacità interpretativa, partendo dalla base di una composizione solida, strutturata, spessa. Sfumature (visto che ci siamo, approfondiamo: più delicate e intense con il quartetto), intrecci sonori e proposte coraggiose convivono in bilico tra stili vicini e lontani, guardando con interesse all’intero vaso comunicante del Mediterraneo, che ospita culture e patrimoni artistici popolari e sofisticati assieme.
Alla produzione originale (un paio di brani, "Sincopatia" e "Il Passo del Geco", sono composizioni di Vito Laforgia) si affiancano testimonianze della tradizione sufi o di quella yiddish, ma anche riproposizioni di spartiti firmati da Abdullah Ibrahim, John Zorn o persino da Arcangelo Corelli ("Sarabanda", pezzo del settecento, è appositamente rivisitato per i giorni nostri). Il differente cammino dei due sassofoni, poi, non intralcia nè Gallo, nè Scarafile (in Italia per un po’, prima di rientrare a Madrid e di proseguire il tour sudamericano al fianco di Jorge Drexler Prada, uno dei cognomi importanti della musica uruguayana), nè il progetto comune, che si alimenta di umori e ricerca, di improvvisazioni e rigore. Come nella migliore tradizione della musica di nicchia che arricchisce da un po’ di anni questa terra di Puglia.

Echoes Special Six (Adolfo La Volpe: chitarra e oud; Vito Laforgia: contrabbasso; Francesco De Palma: percussioni; Vittorio Gallo: sax tenore e sax soprano; Fabrizio Scarafile: sax tenore e flauto; Francesco Fornarelli: piano)
Noci (BA), Chiostro della Chiesa di San Domenico

giovedì 7 luglio 2011

Marco Bardoscia, il sognatore


Il sognatore non pianta paletti. E non possiede patria certa. Gira per il proprio regno immaginario e gode. Di se stesso, del suo idealismo e dei suoi sogni, appunto. Creandosi, a propria misura, un recinto un po’ vintage, démodé. E piazzando ai confini del suo mondo una barriera e una dogana: così, se qualcuno vorrà entrare, dovrà chiedere permesso. Esibendo visto e carta d’identità. E un altro bagaglio di sogni, da aggiungere a quelli che già circolano nella repubblica di nuvole. Sogni, oppure illusioni: fate voi. Perchè nessun’epoca e nessun personaggio hanno mai separato i due concetti: che, da sempre si accavallano, sorpassandosi e combinandosi.
Il sognatore, quasi sempre, è un artista. Del suono, dell’immagine o della parola. Forse, perchè l’interventista non conosce il tempo di riflettere. O quello di piegarsi ad una logica lontana dalla produzione di beni tangibili. Finendo per ignorare (e, di questi tempi ce ne rendiamo particolarmente conto, per ostacolare) l’arte, quindi la cultura. Ogni musicista, poi, è un sognatore, a suo modo. Perchè non sa (o non ha capito) che il mondo si arruffiana con i vincitori: che, quasi sempre, non sognano. Distruggendo, anzi, i sogni altrui. Ma, invece di redimersi, spesso il musicista insiste. Sprezzante, autolesionista. Maledetto. Almeno sino a quando non scala le vette della passione popolare: entrando a pieno diritto nel cuore dell’ingranaggio, nel vortice del sistema che lo plagia e lo annienta. Ma sono cose, queste, che accadono talvolta. E solo a pochi.
Anche Marco Bardoscia, come molti artisti della nota, è un sognatore. Anche di più: e non solo per quel ciuffo ribelle che lo allontana dalla necessità di apparire allineato e coperto. O per quell’aria vagamente strafottente che si trascina da sempre e che, peraltro, prova ad occultare la sua natura di ragazzo sincero e per bene, ma libero da orpelli mentali e genuinamente calato nella propria realtà. Perchè, per chi non lo conosce, Marco Bardoscia da Copertino è davvero così: e non ci fa. Lui, sì, è un sognatore verace. Nella quotidianità, ancora prima che nella musica. E ci tiene a ribadirlo: con la sua seconda raccolta di brani, appena licenziati dall’etichetta My Favorite. The Dreamer (Il Sognatore, appunto) segue di qualche anno la sua opera prima, Opening, e contiene dieci tracce, nove delle quali rigorosamente originali (“Ninna Nanna per la Piccola Sara", “Rêve au Petit Sablon", “Hallelujah per il Mondo", “31.12.2009", “Chica y Nano", “Jet", “Preludio al Sorgere del Sole", “Il Sorgere del Sole" e “Impro") e una rivisitazione di uno spartito firmato da Ned Washington e Victor Young, “Stella by Starlight").
Il contrabbassista salentino, al di là dei sogni e dei loro effetti sulla vita di ogni giorno, conferma ancora una volta la sua caratura creativa, maturata dalla ormai lunga militanza in diverse formazioni jazzistiche di impronta moderna, dalle frequentazioni importanti (uno per tutti, Paolo Fresu) e dalla doppia residenza (si divide tra il Salento e Bruxelles), lasciandosi accompagnare dagli amici di sempre (da Raffaele Casarano a Fabio Accardi, da Alberto Parmegiani a William Negro, da Giorgio Distante a Carla Casarano, da Gianluca Ria a Luca Aquino) e da Fernando Bardoscia, vocalist di famiglia. Il disco, che il Locomotive Festival di Sogliano Cavour avrà il piacere di presentare ufficialmente ad inizio di agosto, coniuga ascoltabilità ed effetti mixati al computer, semplicità e mancanza di riguardo per la rigidità degli schemi. Anche gli assoli non grondano di virtuosismo, puntando piuttosto ad un’efficacia di fondo, cioè alla fruibilità. Un lavoro, in definitiva, di istinti freschi e idee duttili. Che non vuole arrampicarsi su chissà cosa. Da ascoltare, senza affannarsi. Il prodotto di un sognatore che vuole continuare a crescere.

The Dreamer (My Favourite, giugno 2011)
Marco Bardoscia (contrabbasso ed effetti), Raffaele Casarano (sax alto, sax soprano ed effetti), Luca Aquino (tromba ed effetti), Giorgio Distante (tromba e computer), Gianluca Ria (trombone), William Negro (pianoforte), Alberto Parmegiani (chitarra), Fabio Accardi (batteria), Carla Casarano (voce), Fernando Bardoscia (voce)

sabato 2 luglio 2011

Il calcio di Servillo, Girotto e Mangalavite


Il pallone come metafora di quotidianità, di vita vissuta, orologio del tempo di tutti, testimone di un epoca comune, sinonimo di ostinazione, fantasia, debolezza, fatica, coraggio e sogno; dramma e commedia, eccitazione collettiva e solitudine individuale. Il pallone che infiamma la platea e i suoi teatranti, azzerando le rotte degli oceani. Il pallone di un Sudamerica epico e di un’Italia che lo rincorre. Il fútbol di Maradona: quello dell’Argentina di Natalio Luís Mangalavite e di Javier Girotto e quello della Napoli di Peppe Servillo, casertano con le radici divise a metà. Ma anche quello dell’Uruguay di Obdulio Varela, il generale di quella squadra che scippò il Mundial al Brasile di Ademir e di Zizinho, che poi diventò il Brasile di Barbosa, colpevole massimo del disastro del Maracanã. Il calcio e le sue magie. Quello di una volta. Quello delle maglie dall’uno all’undici. Delle divise senza sponsor. Ancora incontaminato dalle pay per view e dalla corsa sfrenata verso il consumismo, verso la modernità cieca. Il calcio che detta la sua musica.
Tre artisti, tre sensibilità. Tutti assieme, per avventurarsi nella festa e nell’emozione di una manciata di spicchi di cuoio cuciti, con un cuore di ossigeno puro. Servillo, Mangalavite e Girotto girano da un po': e il loro progetto (Fútbol, appunto) mistura pagine di letteratura contemporanea (quella di Osvaldo Soriano, per esempio, ma pure quella di Juan Cáceres), note, abilità scenica e improvvisazioni. Diventando il pretesto per allargare l’orizzonte alla piccole storie di ogni giorno, alla storie di chiunque. Non solo intrecci calcistici, dunque. Ma, sempre e comunque, fotografie di passione, armate di temperamento. L’ora di spettacolo, inserito nel cartellone della Notte Bianca 2011, la quinta edizione all’ombra del barocco di Lecce, si concede così la possibilità di presentare, per esempio, anche una versione in italiano della celebratissima “Insensatez“, una rivisitazione di un ipotetico incontro tra Liz Taylor e Richard Burton dietro le quinte e una miscela insondabile e sottile di jazz e canzone d’autore. Ritornando, infine, alla base. Al pallone. Persino al pallone dei giorni nostri, che pure – talvolta – riesce a ricavarsi degli spunti di tenera teatralità, di sincera innocenza. Come lo sfogo di Trapattoni nella conferenza stampa mitizzata dai media, ai tempi del Bayern. Punto di partenza che Servillo utilizza per disegnare il ritratto privato di un uomo qualunque, compresso dalle sue problematiche, dai propri conflitti privati. Perchè il calcio, quando non è arte, è vita.
Di sponda, certo, gioca anche il clima. Se quasi ovunque diluvia, in Salento si può circolare liberamente. Qualche nuvola incombe, ma non assale. E la brezza, a metà percorso, sostuisce l’umidità della sera. La programmazione si esaurisce al momento previsto, non prima, abbondantemente dopo le quattro: in tempo per assaporare l’alba che avanza. Chiude il sempre più istrionico (e politicamente incazzato: ce n’è per tutti) Cesare Dell’Anna con i suoi Opa Cupa, vestiti di sonorità molto meno balcaniche di un tempo, ma ugualmente immediate (la farfisa di Mauro Tre, del resto, conferisce alle sonorità della band venature differenti). E, in precedenza, per gli angoli del centro storico di Lecce si dividono i palchi jazzisti, rockettari, tangueros e pizzicati, mentre l’atrio di Palazzo dei Celestini ospita coro e orchestra. L’ultimo pensiero, poi, è per la Bandadriatica di Claudio Prima e per la canzone popolare di protesta dei Kalascima, in piazza Sant’Oronzo. Popolatissima sino alla fine delle musiche e della danze, ma anche oltre. Perchè è questa la forza intrinseca di una Notte Bianca organizzata con cura e con buon gusto artistico. Per la quinta estate di seguito, malgrado il momento di forte depressione delle politiche culturali, come puntualizza lo stesso Servillo, a fine esibizione. Vero. E proprio nel momento in cui altre realtà italiane, assolutamente di rilievo, hanno fermato la macchina organizzativa della propria Notte Bianca. Ricordiamocene. Glissando, ma non troppo, sulla sentenza del tifoso Servillo: «Maradona è meglio ’e Pelé». Falso. Non glielo consentiamo.

Peppe Servillo (voce), Natalio Luís Mangalavite (pianoforte e voce) & Javier Girotto(sax soprano, sax tenore e flauto) in “Fútbol“
Lecce, via Umberto I
Notte Bianca 2011

mercoledì 22 giugno 2011

Pierpaolo non insiste più


We Insist. Noi insistiamo. Due vocaboli, un concetto. Forte, denso e preciso. Con un obiettivo e un bersaglio: ampiamente dichiarati. Che profumava tanto di resistenza. Resistenza culturale. E resistenza umana, più in generale. Resistenza a certe logiche logorate dalle convenienze, anche politiche. Prima ancora che a logiche di natura artistica. O a certe logiche di cartellone: attorno al quale si alimentano piccole e grandi rivalità. Soprattutto d’estate. Resistenza un po’ piccata. Ma di sostanza. Perché, al di là dei gusti popolari e alle esigenze delle piccole o grandi folle, c’è sempre qualcuno che si batte a favore della qualità: che, tuttavia, resta un accessorio astratto, un attributo soggettivo. Perchè c’è sempre qualcuno che, in fondo ad una stanza, si batte a favore della progettualità: cioè, è un dettaglio più oggettivo. E perché esiste differenza tra progettualità ed estemporaneità.
We Insist. Era la sfida, l’ultima sfida, appena l’anno scorso, di Pierpaolo Faggiano, cegliese, innamorato del jazz, giornalista pubblicista, collaboratore della Gazzetta del Mezzogiorno, ma anche animatore culturale. E ideatore del Ceglie Open Jazz Festival, un contenitore di buone idee al di fuori delle strade più convenzionali: un contenitore, per la verità, un po’ osteggiato da abitudini e consuetudini e, perciò, spazzato troppo presto da venti contrari. Quel Ceglie Open Jazz Festival da cui, orgogliasamente, era sorto proprio We Insist: un tentativo di resistenza non armata, creato sull'onda dalle esperienze musicali e con la complicità delle amicizie di lungo corso. Una ribellione a certi sentieri quasi obbligati, una maniera di continuare il cammino, un certo percorso. Pur affrontando difficoltà ancora peggiori: nessuna sovvenzione pubblica, una location decentrata, un’organizzazione forzatamente asciugata da qualsiasi orpello.
Quarantacinque settimane fa, We Insist durò il sogno di una notte. E neppure l’affluenza (ridotta) della gente gratificò il lavoro e le speranze di Pierpaolo, persona sensibile e anche abbastanza infastidita dalle avversità del quotidiano: come tanti. Precario in un mondo di precari: come molti. Negli affetti e nel lavoro. Ma, appunto, assai più sensibile di chi, su colonne come queste, continua a dettare il proprio pensiero, a spendere le proprie parole. E a spremere la propria angolatura delle cose. Fregandosene ancora di chi vive o sopravvive meglio: e che esibisce, magari, minori qualità. Pierpaolo, invece, no. Non ha ammortizzato le amarezze. La sua sensibilità, alla fine, non glielo ha permesso. E ci ha lasciati, volontariamente, in una calda sera di giugno, a quarantun anni. Appena compiuti. Sovraccaricandoci, contemporaneamente, di dubbi (su quel che avremmo voluto essere, tutti, e su quello che saremo) e rimpianti (di quello che avrebbe dovuto essere). E pure di qualche ricordo. Come la passione per la qualità, per il jazz e per l’organizzazione di eventi. Come il Ceglie Open Jazz Festival e We Insist, appendice seminascosta di un progetto interrotto. Qualcun altro, magari, adesso insisterà anche per lui. Pierpaolo ci ha provato, ma senza allontanarsi troppo. Si è fermato prima. Arrendendosi in anticipo sui tempi. Piegandosi, come direbbe chi parla e scrive bene, alle logiche del sistema. Intuendo, forse, che insistere è inutile, oggi. Oppure sbagliando ogni previsione, corroso da presagi malvagi. La seconda ipotesi, però, è ancora quella che preferiamo, malgrado tutto. Che ci garantisce ancora speranza e nuovo carburante. We Insist, noi insistiamo: anche per lui, che non se l’è sentita. Contraddicendo un po’ anche se stesso, è vero. E dichiarandosi sconfitto in una partita che racconta la sconfitta di tutti. Ciao, Pierpaolo. E buon viaggio.

domenica 19 giugno 2011

In piazza con Sinatra e Porter


Lo confessiamo: diffidiamo (e non poco) delle big band. Non perchè ne disconosciamo il contributo enorme offerto al jazz del novecento, al processo di divulgazione della musica nelle fasce più popolari dei cinque continenti e a una corposa quantità di artisti: cresciuti e fortificati da esperienze di palco e di prove, migliorati da incontri e collaborazioni, cullati dall’interazione che solo un lavoro di gruppo può assicurare. E neppure perché sottovalutiamo lo spessore degno della gavetta: e sì, in quanto, molte volte, big band significa arrampicarsi su un mondo che si apre. Ci delude, semmai, quella brutta abitudine di sacrificare le big band e il loro bagaglio culturale ai concetti del mero diversivo da piazza, al riempitivo che fa audience, alla facilità di espressione che ammazza la qualità per acaparrarsi un consenso più facile, più immediato. Almeno in Italia. Big band, da noi, da troppo tempo, significa standard duplicati da sempre (e sempre gli stessi), spettacoli annacquati e commerciali, buoni a garantirsi il cachet, arrangiamenti sbrigativi o pressapochisti che provano a catturare un pubblico eterogeneo e, dunque, non troppo esigente. Senza, in realtà, dare nulla. E, quindi, causa di live senz’anima, senza garbo, stucchevoli.
Anche per questo, con una dose robusta di prevenzione e un po’ di scetticismo, nutrivamo alcuni dubbi sulla data monopolitana della Lucanian Jazz Project, che oggi è – più semplicemente – la Ljp Big Band diretta da Dino Plasmati. Formazione di evidente matrice lucana (oltre al direttore, la larga maggioranza dei protagonisti arriva dalla Basilicata) che, invece, ci ha piacevolmente smentiti. Lasciandoci soddisfatti. Sia per il repertorio (certo, qualche tributo alla larga platea c’era, come gli immancabili brani resi immortali da Liza Minnelli: indovinate quali), talvolta popolare, ma non esageratamente populistico, che per il confezionamento di una serata aperta a chiunque, nella piazza principale del borgo adriatico. Confezionamento che ha tenuto conto di un linguaggio fortunatamente non troppo confidenziale con la gente, malgrado un paio di disattenzioni (la professionalità, che non va confusa con la vanità o lo snobismo, paga sempre, in termini di qualità), e di arrangiamenti sempre eleganti, mai banali, jazzisticamente corretti. Per un momento di musica e non di spettacolo leggero: chi conosce la differenza capirà, chi non la conosce non riuscirà mai a distinguere. E, allora, diventa inutile spiegare.
La Ljp Big Band, ensemble nato nel duemilasette, matura con il sound carico dei suoi fiati (ci piace sottolineare, a proposito, gli assoli di un sempre più convincente Claudio Chiarelli, che poi è con il pianista Antonio Nisi e il trombettista Marco Lorusso uno dei tre pugliesi della formazione) e si insinua con il drumming deciso della batteria di Vito Plasmati, passandro attraverso un basso (Franco Fossanova) e il piano elettrico del già citato Nisi (esatto, piano elettrico: lo sforzo dell’organizzazione dell’evento non ha saputo o potuto garantire un pianoforte, seppur verticale. Peccato). Ospitando, infine, la voce del crooner molese Beppe Delre che, ormai stabilmente, lavora con la band spostandosi tra Frank Sinatra (e, ovviamente, i suoi successi, anche quelli un po’ meno conosciuti) e Cole Porter, il suo preferito. In definitiva, un tentativo (riuscito) di riconciliazione tra l’universo delle grandi orchestre e le piazze di provincia. «Peraltro, la salvaguardia di una certa linea musicale era e resta il nostro obiettivo principale». Dino Plasmati, chitarrista materano prestato alla direzione, avalla la sensazione. «Non a caso, molta attenzione è stata rivolta agli arrangiamenti: alcuni dei quali sono stati rielaborati dalla Ljp Big Band, mentre per molti titoli abbiamo acquistato quelli originali, ovvero quelli utilizzati dalle grandi big band statunitensi». La differenza, quando c’è, si vede. E si sente.

Beppe Delre (voce) & la LJP Big Band (Claudio Chiarelli: sax alto; Michele Munno: sax alto; Enzo Appella: sax alto; Angelo Bianchi: sax tenore; Raffaele Amato: trombone; Francesco Tritto: trombone; Eustachio Rondinone: corno francese; Pino Ciannella: tromba; Marco Lorusso: tromba; Marco Sinno: tromba; Emanuele Lamacchia: tromba; Antonio Nisi: piano; Franco Fossanova: basso; Vito Plasmati: batteria) diretta da Dino Plasmati in "Around Sinatra"
Monopoli (BA), piazza Vittorio Emanuele

sabato 4 giugno 2011

Bari in Jazz, una residenza per cominciare


Il quartetto nordico di Tomasz Stanko, James Taylor, Bojan Z e la reunion coordinata da Mauro Gargano, i Blues Breakers Renewed, il quintetto di Sylwester Ostrowsky e Piotr Wojtasik, Cuong Vu e l’Apulian Orchestra, Anthony Joseph, il trio di Blake Allison Drake, la Cosmic Band di Gianluca Petrella: il cartellone duemilaundici di Bari in Jazz offre il meglio che la ricerca last minute del suo direttore artistico Roberto Ottaviano è riuscita a selezionare. La kermesse targata Abusuan (quindici concerti in quattro date, dal ventotto giugno al due luglio) è già vicina. Come sempre, dislocata in diverse location (il Teatro Piccinni, piazza del Ferrarese e l’Auditorium della Vallisa) e, come sempre, aperta anche ad espressioni autenticamente pugliesi quali i Camillorè (gruppo che, peraltro, si allontana dai canoni del jazz), l’Hocus Pocus Quartet di Gianni Lenoci, il quartetto di Rino Arbore, la band di Dario Skepisi, la Reunion Platz di Michele Giuliani e la tribù di Raffaele Casarano, che propone Argento, la sua ultima fatica discografica.
La settima edizione del festival, però, propone altri due episodi fuori programma. Uno, quello di chiusura, è assolutamente pregiato: il tredici ottobre si esibisce Wayne Shorter, leggenda vivente che, in Puglia, costituisce uno degli appuntamenti musicali più attesi dell’intero anno. L’altro, invece, è l’antipasto che lo stesso Ottaviano si è ritagliato per sé e per un plotone di amici (il contrabbassista Giorgio Vendola e il trio olandese dei Boi Akih) nella chiesa di Santa Teresa dei Maschi. Greencard (è questo il nome del progetto) è, innanzi tutto, il prodotto sgrezzato di una reunion, il frutto più immediato della residenza incoraggiata da Puglia Sounds, che affianca nel lavoro quotidiano di Bari in Jazz 2011 il Centro Abusuan, e dell’ambasciata dei Paesi Bassi in Italia, in collaborazione con il programma Dutch Italian Music Exchange e il Performing Art Fund. Lavoro che, prossimamente, la formazione presenterà nei festival di Amsterdam, Rotterdam ed Utrecht. E che, nello specifico, si incarica di riassumere l’incontro tra il patrimonio musicale di terre lontane (le Molucche, suolo d’origine della voce del gruppo, Monica Akihary), gli umori e i sapori della musica etnica e, infine, la storia del jazz di matrice europea, oggi particolarmente attirato dalla contaminazione e stimolato da una sete di modernità travolgente.
Dalla commistione, peraltro, esce un concerto dai contorni cameristici, non eccessivamente terragno, dove vocalizzazioni e scat offrono la sponda a un lavoro delicato e ad un sound di gradevole raffinatezza, che viaggia attraverso molteplici linguaggi, sfiorando talvolta anche il free jazz. Monica Akirahy possiede molta tecnica, voce plastica e modulata. Gli oggetti sonori di Sandip Bhattachraya sussurrano, ma offrono densità. La chitarra di Niels Brouwer si muove tra mille atmosfere, trasformandosi spesso in strumento di percussione. I sassofoni di Roberto Ottaviano, artista dalle intuizioni argute (non ricordiamo un solo progetto fallito), entrano nel tessuto del live con robustezza e il contrabbasso dosato di Giorgio Vendola unisce le varie anime della formazione. «Tutto nasce – fa sapere Ottaviano – da uno scambio di registrazioni: Monica e il suo gruppo hanno avuto la possibilità di ascoltare Pinturas, un recente lavoro realizzato a mio nome, e noi abbiamo valutato i loro primi due album. E, infine, ci siamo incontrati due giorni prima di esibirci, provando proprio all’interno di Santa Teresa dei Maschi. Del resto, è da tempo che cercavamo di confezionare una residenza come questa: che, di fatto, è l’esperienza d’esordio».
Il resto, dicevamo, sta per arrivare. In coda alle solite difficoltà di percorso e tra qualche venatura polemica. «Questa – puntualizza lo stesso Ottaviano – è un’avventura nata alle piscine comunali, sette anni fa. Da allora, si sono sviluppate situazioni differenti, con le quali il festival è cresciuto, nonostante i tempi difficili che la cultura e, quindi, anche la musica hanno dovuto affrontare. Ritengo, tuttavia, che gli sforzi e l’attenzione verso questa idea non debbano attenuarsi. Anzi. Bari in Jazz non può più essere considerato come il frutto dell’impegno di un’associazione culturale come Abusuan, che si avvale dell’affiancamento di alcune istituzioni e di uno sponsor importante. La progettualità, invece, necessita di nuove risorse, più robuste. Parlo per quel che mi riguarda: un direttore artistico di una manifestazione di livello non può limitarsi a concentrare le proprie energie sui last minute, né preoccuparsi di sforare il budget di mille euro. Un festival non può e non deve accontentarsi su situazioni di ripiego, ma nutrirsi di una propria identità, anno dopo anno. Arricchendosi, se possibile, di momenti di incontro che valorizzino i concerti e che seguano i suggerimenti che arrivano dal resto del Paese e pure dall’estero. Lavorando, cioè, in anticipo con i tempi: dunque, con un budget prestabilito e solido». Limpido, inequivocabile. Ma, oggi, persino utopistico.

Roberto Ottaviano (sax soprano e sopranino), Giorgio Vendola (contrabbasso) & Boi Akih (Monica Akihary: voce; Niels Brouwer: chitarra; Sandip Bhattachraya: percussioni) in “Greencard”
Bari, Chiesa di Santa Teresa dei Maschi
Bari in Jazz 2011

venerdì 3 giugno 2011

L'Escargot, tra nostalgie e piccole allegrie


Organetti, fisarmonica, violino, banjo e chitarre, flauti, tamburello e varia bigiotteria della musica: cornamusa e sansula compresi. L’Escargot è un quartetto quasi colto, con le radici ben salde nel passato. Di una cultura che solo la musica popolare riesce a suggerire. E popolare nei sentimenti, che solo certa musica sospesa nel tempo riesce a modellare. Quella dell’Escargot è musica nascosta che, all’improvviso, deborda. Impressa nella memoria collettiva, ma tirata fuori da anfratti dimenticati e soffitte polverose. Come certe cartoline invecchiate dagli anni, ingiallite. Melodia e armonia: tutto ruota attorno a questi due postulati. Ma c’è anche il buon gusto. Il gruppo, peraltro, è rodato. Massimo La Zazzera, Alessandro Pipino, Adolfo La Volpe e Stefania Ladisa cooperano da molto: rubando qua e là (in Francia, per la precisione) e, soprattutto, percorrendo la strada della brillantezza compositiva.
Il progetto è una bella idea che fluttua tra nostalgie e piccole allegrie, dove il sound gronda da un sapere antico che si nutre di stimoli nuovi. Perfettamente valorizzato, poi, dal largo che si apre tra il castello, il mare e il centro storico di Monopoli e dalla serata dolcemente fresca di un giugno appena sbocciato. Concerto speziato: quasi intimo, prima che la platea si affolli, a lavori già in corso. E che si snoda attraverso il primo (e, al momento, unico) lavoro discografico licenziato della formazione, Corri. Ultimamente ristampato, tra l’altro: notizia di servizio sottolineata, del resto, con orgoglio. Ma che guarda, contemporaneamente, al secondo album, in via di definizione. Il primo titolo in scaletta sa di manifesto programmatico: “La Vecchia Singer”, spiega Adolfo La Volpe, è il simbolo di un passato e di un’Italia ormai lontana che, forse, bisognerebbe riscoprire. O recuperare. “In Cammino”, invece, è la colonna sonora di un documentario girato recentemente da Claudia Cassandro – e già in circolazione - sul quartetto, oltre che un jingle passato per i canali Mediaset.
Del primo cd fanno parte anche “Magida”, “Corri” e la più conosciuta “Norma”, composizione di Massimo La Zazzera (ex Radicanto, Kiltartan, Ensemble Calixtinus e Ziringaglia, tra gli altri) ispirata ad una burattinaia. “Loubov”, invece, è uno dei tre omaggi particolarmente sentiti al francese Stéphane Delicq (gli altri sono “Les Amities” ed “Estrellas”), mentre “Burbero” è una mazurka che farà parte del secondo disco. Lavolpe firma “Mauve”, Stefania Ladisa “Falce di Luna”, Alessandro Pipino – che poi è anche il tastierista dei Radiodervish - “Valle dei Treni Interi” (avete letto bene, il titolo è proprio quello). Infine, “Les Valcerves” è un tributo ad un altro autore francese, il fisarmonicista Marc Perrone. Il risultato finale è un live lieve, ma intenso. Ben strutturato, ben confezionato. Di largo consumo, senza perdere di qualità. Per una scelta, quella di Biolfish 2011, azzeccatissima. Che fa bene al movimento musicale di questa terra, che ha sempre qualcosa da dire e da dare. Anche se certe date passano inosservate. Nel migliore dei casi, trasversali. Ma l’incapacità di pubblicizzare o di sostenere determinati appuntamenti è, probabilmente, una delle condanne della Puglia: ci siamo abituati.

(foto Pasquale Raimondo)

L’Escargot (Massimo La Zazzera: flauti, cornamusa, tamburello, chitarra, percussioni; Alessandro Pipino: organetto diatonico e fisarmonica; Stefania Ladisa: violino; Adolfo La Volpe: chitarre e banjo)
Monopoli (BA), Largo Castello di Carlo V
Biolfish 2011

giovedì 2 giugno 2011

Il cinema secondo i Bumps


C’erano i Tàngheri, un tempo. A bagnarsi d’ironia tra il tango e il jazz e, più tardi, pure tra molte venature rock. Talvolta, cavalcando (e schernendo) i luoghi comuni che si mescolano alle note. Con il loro corredo di live per gli angoli della Puglia e di dischi pubblicati (tre: due dei quali condivisi con Marc Ribot, chitarrista legato - tra gli altri - a Tom Waits). Un giorno, però, Antonio Di Lorenzo, Davide Penta e Vince Abbracciante decidono di reinventarsi. Meglio ancora, di dedicarsi ad un percorso nuovo, diverso. Cambia, prima di tutto, il nome del gruppo. Non più Tàngheri, ma The Bumps. Non più tango, non più jazz. Ma più tonalità anni settanta, più elettricità, accordi d’assalto. E niente più fisarmonica, ad esempio. Vince Abbracciante approfondisce la conoscenza con l’hammond, il rhodes e il farfisa. Resta, sul fondo, un’anima rockettara che si fonde con i ricordi di una volta e con quello che viene in mente, lì per lì. Il disegno diventa un frullatore di stili e di tendenze. E ci entra praticamente di tutto.
A questo punto, però, occorre anche ideare un repertorio di una certa originalità. Come certe musiche da film, magari non troppo ripercorse negli anni, rivedute e riarrangiate in stile Bumps. Per esempio, un motivo (“Milano Rithm’n’Blues”) tratto da La Morte Risale a Ieri Sera, pellicola del millenovecentosettanta di Duccio Tessari. O un altro (“Hammondissimo Bellotti”) ispirato da Bellotti Forever di Pierfortunato Pigni. Oppure “Una Rosa per Tutti” di Bacalov, prelevato dall’ononimo film di Franco Rossi. O l’allegretto morriconiano di Le Foto Proibite di una Signora per Bene, di Luciano Ercoli, o una delle colonne sonore di Bello, Onesto, Emigrato Australia di Luigi Zampa, de Il Dio Serpente di Piero Vivarelli, de Il Commissario Pepe di Ettore Scola, de Gli Ordini Sono Ordini di Franco Girardi, de La Matriarca di Pasquale Festa Campanile, di Emmanuelle From Paris di Felice Troppo, di Rivelazioni di un Maniaco Sessuale di Roberto Bianchi e di Né Capo, Né Coda di Furio Pacifico. Oltre, ovviamente, a un ritaglio musicale ricavato dal film Il Ritorno dei Bumps di Gualtiero Mezzacolli: che non poteva mancare.
Fatto il repertorio, va a finire quasi sempre così, fatto anche il disco. Appena uscito (aprile) con la griffe Bumps Records (e sì, perchè la creazione di un'etichetta propria è un ramo del progetto). Si chiama Playin’ Italian Cinedelics: quattordici tracce realizzate con la collaborazione di altri musicisti pugliesi (i vocalist Giuseppe Delre e Francesca Leone, i sassofonisti Claudio Chiarelli e Francesco Lomangino, il chitarrista Giuseppe Pascucci, il flicornista Silvestro Di Tano) e confezionate da una copertina decisamente vintage. Che rende l’idea. E che prepara spiritualmente alla presentazione del lavoro, prevista nei prossimi giorni (il quattro giugno) a Fasano, parte integrante dell’edizione duemilaundici di Fasano Jazz. In cui, per la verità, la band allarga gli orizzonti, ospitando alcuni amici (come il chitarrista materano Dino Plasmati e il sassofonista Fabrizio Scarafile) e la voce di Mia Cooper. Scherzandoci sopra: perché, anche se cambia il nome del gruppo, il target di riferimento e il progetto, non muta la filosofia musicale di fondo. Strettamente legata a quel concetto di cui i Bumps sembrano fieri, tanto da esibirlo sul sito web del trio: «un irriverente fluttuare tra jazz e avanguardia, noise music e scampoli rock, reminiscenze cinematografiche e scatti urbani. Punk Jazz?».

The Bumps (Vince Abbracciante: organo Hammond, farfisa e rhodes; Davide Penta: contrabbasso, fender jazz e frankenbass; Antonio Di Lorenzo: batteria e percussioni; Francesca Leone: voce; Beppe Delre: voce e whistle; Francesco Lomangino: sax tenore e flauto; Claudio Chiarelli: sax alto; Giuseppe Pascucci: chitarra; Silvestro Di Tano: flicorno)
Playin’ Italian Cinedelics (Bumps Records, aprile 2011)

venerdì 27 maggio 2011

Hocus Pocus, nel segno di Steve Lacy


Laboratorio di idee. Laboratorio di note. Buono per crescere, confrontarsi. Per ricercare e cercarsi. Studio e pratica: cioè idee e azione. Dove sembra persino che valga tutto. E dove, comunque, tutto fa musica. Hocus Pocus è il laboratorio jazzistico del conservatorio di Monopoli. Ma chi conosce certe dinamiche e la storia recente dell’istituto, sa che è anche e soprattutto il laboratotrio di Gianni Lenoci: un intellettuale degli spartiti di casa nostra. Un artista e, ovviamente, un coordinatore che possiede intuito e intuizioni, molta pazienza e, certo, molto coraggio: un visionario, nel senso migliore del termine, avvinghiato ai suoi punti di riferimento, che crea continuamente e difficilmente si ferma. Per dovere e per passione.
La Hocus Pocus, ne abbiamo già parlato in passato, è una formazione di identità variabile che, praticamente ogni anno, si dedica un percorso progettuale e un concerto ufficiale. Numericamente, si è di nuovo allargata: potendo, ovviamente, contare sul corposo bacino di fruitori dei corsi ad indirizo jazzistico del conservatorio. Questa volta, la situazione dal vivo raduna più di trenta musicisti, tutti pugliesi: giovani, meno giovani e giovanissimi (addirittura un dodicenne, il trombettista Lorenzo Loliva, putignanese). La location, invece, è quella di Masseria Spina, fortificazione agraria riconvertita da alcuni anni, posizionata a ridosso del centro urbano. Dove, appunto, il Dipartimento di Nuove Tecnologie e Nuovi Linguaggi Musicali del “Nino Rota” e l’Associazione Musicale Euterpe di Massimo Felici hanno voluto far confluire i testi di Georges Braque e la musica di Steve Lacy, cioè colui che, più di ogni altro, ha influenzato il cammino musicale di Lenoci e, dunque, anche le scelte didattiche del pianista monopolitano. Per l’occasione, arrangiatore e direttore dell’ensemble, ma non esecutore. Al cui fianco ha cooperato la vocalist svizzera Irene Aebi, compagna di vita dell’autore statunitense e guest del live, accolta da un applauso convinto e prolungato.
Riassumendo, Tips è una raccolta di quattordici aforismi e osservazioni selezionate dai quaderni del pittore Braque, che si muove tra le letture che proprio Lacy ha contribuito a diffondere e certe tonalità minimaliste, fortemente anni settanta. Dove la vocalità, però, si assicura uno spazio ben definito. «E dove – aggiunge Gianni Lenoci – la musica correda i versi e viceversa. Ecco, Lacy avrebbe parlato di una cantata tascabile». Cinquanta, cinquantacinque minuti intrisi di sperimentazione e di suoni che, ad un primo ascolto, possono apparire smozzicati, repressi, strozzati. Il lavoro è corale, profondo: vissuto sulle corde dell’improvvisazione, che è un po’ l’anima di un laboratorio. E il prodotto, aperto anche a qualche trovata goliardica, è assolutamente più cameristico di altre precedenti esperienze targate Lenoci. Che aggiunge: «Questo è il frutto di una lunga ricerca, una delle tante nelle quali il conservatorio di Monopoli si impegna da tempo. Ogni anno cerchiamo di realizzare qualcosa attorno alla figura di Lacy, uno dei compositori più ispirati del secolo appena passato. E la scelta non è casuale: del resto, inseguendo la sua opera, possiamo ripercorre i sentieri del jazz sin dalle origini o quasi. Le sue composizioni, per me, sono la base con cui mi confronto quotidianamente e con la quale invito i miei allievi a confrontarsi. Lacy mette assieme dimensione poetica e spirituale, affondando le radici nel testo, che poi impone il ritmo. Oltre tutto, la passione di Lacy per le arti, tutte le arti, mi affascina particolarmente. Ed è per questo che auspico, nel futuro prossimo, un corso specifico su di lui al conservatorio».

(foto Valentina Serra)

Irene Aebi (voce) & l’Hocus Pocus Lab Orchestra (Stefano Luigi Mangia: voce; Maria Luisa Capurso: voce; Connie Valentini: voce; Chiara Liuzzi: voce; Patrizia Vigneri: voce; Dionisia Cassano: voce; Valentina Negro: voce; Carolina Bubbico: voce; Cristiana Verardo: voce; Luisa Tucciariello: voce; Antonella Chionna: voce; Giacomo Grassi: pianoforte; Dario Negro: chitarra; Enrico Linsalata: chitarra; Giancarlo Del Vitto: chitarra; Emanuele De Lucia: chitarra; Giorgio Albanese: fisarmonica; Francesco Del Prete: violino; Emanuela Lioy: violino; Roberto Piccirilli: violino; Vittorio Gallo: sassofono; Mafrco Bernardi: sassofono; Giuseppe Doronzo: sassofono; Carlo Mascolo: trombone; Vito Emanuele Galante: tromba; Lorenzo Loliva: tromba; Stefania Fracasso: basso elettrico; Daniele De Pascalis: contrabbasso; Pasquale Gadaleta: contrabbasso; Giacomo Mongelli: batteria; Michele Ciccimarra: batteria; Paolo Laghezza: percussioni; Giuseppe Di Bari: percussioni) diretta da Gianni Lenoci in “Tips”
Monopoli (BA), Masseria Spina

venerdì 29 aprile 2011

Il pop-rock che parla delle donne


Francesca Romana Perrotta è una salentina appoggiatasi altrove, come tanti. A Cesena, per essere precisi. Dopo essere passata per Forlì. E, prima ancora, dal Conservatorio Schipa di Lecce. Il cognome, artisticamente, non lo usa più. Ma, talvolta, torna ad esibirsi a casa. E, per la seconda volta, si presenta sul palco della Saletta della Cultura di Novoli, location storica di Tele e Ragnatele, rassegna di quella produzione di nicchia che non trova ospitalità in qualsiasi canale. La ragazza ha raggiunto da un po’ di tempo un livello di maturazione assolutamente solido, consacrato dalle partecipazioni felici al Multicultura di Macerata e dal secondo album, il riuscitissimo Lo Specchio, ovviamente presentato in versione – diciamo così – ufficiale. Logica, allora, l’attesa e l’affluenza corposa al quarto appuntamento del cartellone approntato da Mario Ventura: un cartellone che, a maggio, convoglierà tra Novoli e l’Istanbul Café di Squinzano anche Luigi Mariano, i Numero 6, Giancarlo Onorato, Naif Herin ed Edoardo De Angelis.
Il cantautorato di Francesca Romana è tenero, si inserisce – come lei stessa suggerisce – nel filone pop-rock, ma si nutre di una morbida (e rassicurante) originalità dei testi. Che è, aggiungiamo noi, condizione essenziale. Niente storie ardite, alla ricerca del coup de théâtre. Niente giochi di parole, all’inseguimento dell’effetto verbale. Solo fotografie, anche raffinate, dell’universo femminile. Ecco, Francesca Romana è una donna che scrive di donne, essenzialmente. «La scelta – spiega – è precisa, del resto. Lo Specchio, il secondo cd, è lo sviluppo naturale di Vermiglio, la mia opera prima. Al quale è strettamente collegato da un unico sentiero, ovvero la femminilità e la dignità femminile». E sono donne, fragili o vessate, forti o perdute nelle pagine dei secoli, le protagoniste di situazioni diverse e di epoche differenti, che magari finiscono per incrociarsi, deragliando nella complessità dei giorni nostri. E’ donna con i suoi dolori Francesca da Rimini, figura che traspare dal tredicesimo secolo. E’ donna conquistata dai sentimenti per la fede anche Maria Maddalena. E’ donna Giovanna d’Aragona e Castiglia, regina gelosa e internata in una torre per interesse e non per pazzia, come racconta la storia scritta dai vincitori. E’ donna Salomè, che da causa di un dramma diventa vittima. Ed è donna Biancaneve, che si specchia e, invece di se stessa, trova Eva, il suo vero alter ego. Perché, cogliendo una mela rossa, si scambiano le proprie esistenze.
Francesca Romana visita la propria galleria privata dei personaggi con voce modellata, che rischia anche qualcosa. Aprendo, oltre tutto, quattro finestre su altrettanti miti del suo immaginario musicale: Battiato, Lennon, Lauzi e Battisti (e, al nome di Battisti, peraltro, è legata la sua partecipazone, nel duemiladieci, al Premio Poggiobustone, culminato con il riconoscimento quale migliore personalità artistica della manifestazione). Detto per inciso, tradizionalmente le cover detturpano un po’ il repertorio del cantautore: ma, va detto, riesce ad offrire un’impronta propria anche alle rivisitazioni, sempre e comunque. E non è dettaglio da poco. Donne e tributi. Ma anche altro: il repertorio si alimenta con “Canzone Blu”, “Canzone Verde”, “L’Estraneo” (riecco lo specchio, che riflette uno sconosciuto), “Il Demone” («è il nostro alter ego, la parte più oscura e sconosciuta di noi stessi», pezzo scritto a quattro mani con Cristiano De Andrè), un intermezzo di matrice popolare, strettamente legato al Salento («il folk – assicura Francesca – è la forma musicale più rock»), “Il Tuo Nome e il Veleno” (terzo pezzo nella lista di gradimento del Premio Musicultura 2010) e, ovviamente, con “L’Istante Che Vale”, brano che è valso l’affermazione nell’edizione duemilasette dello stesso concorso. Da dove, cioè, sembra essere definitivamente decollato il suo percorso artistico. Che, evidentemente, possiede un domani certo: le idee ci sono.

(foto Angelo Nicola Caroli)

Francesca Romana (voce, chitarra e tamburello), Massimo Marches (chitarra) & Francesco Cardelli (basso e chitarra)
Novoli (LE), Saletta della Cultura “Gregorio Vetrugno”
Tele e Ragnatele 2011

lunedì 11 aprile 2011

Note di vino


Antonio Dambrosio è un musicista che sa ampliare l’espressione della propria arte. Servendosi delle note per arrivare alla poesia. O della poesia per arricchire le note. Forse, perché il confine tra questa o quella non è così spesso come può apparire. O forse perché, tra gli spartiti e i versi, c’è più complicità di quello che potrebbe sembrare. Dambrosio, altamurano, percussionista e batterista sempre più di nicchia (è un complimento, non una limitazione), ha scelto (da un po’, del resto) la progettualità, provando a solcare sentieri meno commerciali e più profondi, divertendosi a giocare su diverse sponde di una coscienza artistica e, soprattutto, cercando di confrontarsi sulla piattaforma della commistione. E certificando, al contempo, una spiccata sensibilità per ogni specificità culturale. Qualcuno, ad esempio, ricorderà Sempre Nuova è l’Alba, il lavoro musicale edificato attorno alla produzione letteraria del lucano Rocco Scotellaro, uno dei padri – in ambito politico, ma anche poetico - della questione meridionale. Bene: adesso, Dambrosio ci riprova. Non con la questione meridionale, ma con la poesia e i versi (e la musica, ovviamente) al servizio della cultura popolare. Cioè, ad uno dei motori (troppo spesso dimenticati) di questa Puglia indossolubilmente legata al suo passato e alle proprie tradizioni. Come il vino, causa ed effetto di un legame ancestrale tra la gente di queste contrade e la terra. La sua terra. MoSto – Vino di Versi in Jazz, il progetto presentato ad Altamura, Bari, Gioia del Colle e Matera, è appunto un ponte tra musica e poesia, tra passato e presente: dove la tradizione diventa anche il pretesto (e la necessità) di cercarsi. O di ritrovarsi. Al centro c’è, è chiaro, il vino: e, con il vino, ci sono il suo travaglio, i suoi misteri, le sue storie, il suo profumo. E la sua gente. Sul palco, invece, sei strumentisti (oltre a D’Ambrosio, Nicola Pisani al sax soprano, il polistrumentista di matrice popolare Nico Berardi, il fisarmonicista Vincenzo Abbracciante, il contrabbassista calabrese Carlo Cimino, in sostituzione dell’indisponibile Camillo Pace, che fa parte del nucleo originario, e il flautista ginosino Davide Giove) e due voci recitanti: quella di Rocco Capri Chiumarulo (non nuovo ad esperienze musicali, seppur differenti nel contesto: ricordiamo, tra le altre, quelle con il Nuevo Tango Ensemble e i Tàngheri) e la divertita Maria Luisa Bigai, friulana che si divide tra Roma e Cosenza. L’ensemble, parzialmente rinnovato nei componenti e privato anche della presenza del clarinettista salentino Vincenzo Presta (tra i protagonisti, comunque, del prodotto discografico uscito recentemente), danza tra sonorità popolari e atteggiamenti vicini al jazz: ambiente da dove Dambrosio naviga solitamente. Il cliché è semplice: stralci di opere firmate da Baudealaire, Orazio, Pablo Neruda, Carducci, Eduardo De Filippo, Dickinson, ma anche sottratte dai chierici vaganti dei Carmina Burana, si alternano a nove composizioni originali dove convivono stili differenti. A volte vagamente didascalici, ma sempre bagnati d’ironia, di leggerezza. Il vino è argomento trattato con gaia serietà, con spiritoso rispetto. Che la degustazione organizzata contemporaneamente nel chiostro di Palazzo Comunale dal convegno di PD Forum sulla dieta mediterranea, probabilmente, esalta. Pur distogliendo dalla musica e dalla poesia il pubblico e i protagonisti sul palco. MoSto, tuttavia, diventa un momento di condivisione, di festa. E di meditazione, se vogliamo. Mentre i bicchieri si incrociano e si confrontano, i versi galoppano: il vino, allora, vince la partita con l’eternità, cresce come una pianta d’allegria, prepara i cuori. Senza dimenticare che chi beve solo acqua ha un segreto da nascondere. Un po’ di sano barocchismo verbale, come in certe ricorrenze popolari, talvolta non stona. Anzi, aiuta ad alzare meglio i calici. E a consegnarsi alla musica con naturalezza, perché no.

Antonio Dambrosio Ensemble (Rocco Capri Chiumarolo: voce recitante; Maria Luisa Bigai: voce recitante; Antonio Dambrosio: batteria e percussioni; Nicola Pisani: sax soprano; Nico Berardi: charango e zampogna; Davide Gioia: flauto; Vincenzo Abbracciante: fisarmonica; Carlo Cimino: contrabbasso) in “MoSto”
Gioia del Colle (BA), Chiostro di Palazzo Comunale